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darla a trovare. Francesco si sgomentò, ma Gavina disse che avrebbe fatto tutto da sè.

Egli la costrinse a buttarsi sul letto, e uscì per ordinare la colazione alla trattoria più vicina: ma benché sentisse la schiena indolenzita e la testa pesante ella non poteva star ferma; le pareva di sognare, e appunto come in certi sogni paurosi sentiva il bisogno di fuggire, di allontanarsi da un luogo pieno di pericoli. Appena fu sola si alzò e fece per tre volte il giro delle cinque stanze che componevano l’appartamento: la saletta da pranzo, tappezzata di scuro e coi mobili di noce, guardava in un cortile, e le parve triste, benché semplice ed elegante; nelle altre camere, comunicanti fra loro, riscaldate da piccolo stufe a gas, c’era troppa luce, troppi oggetti nuovi e rilucenti.

Ella si fermò nel gabinetto medico di Francesco, guardandosi attorno con curiosità diffidente e paurosa. Il chiarore dei vetri smerigliati dava un riflesso di porcellana alle pareti smaltate: la tavola coperta d’incerata, la sedia, gli apparecchi, gli strumenti lucidi, chiusi come gioielli entro una piccola vetrina, tutto insomma le pareva misterioso e quasi losco. Un odore di jodoformio era nell’aria calda: ella provò un senso di vertigine, tornò nella camera da letto, aprì la finestra e guardò fuori. La via stendevasi larga e solitaria, inondata di sole, sotto il cielo d’un azzurro cupo quasi