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tese che egli le rivolgesse qualche domanda, pronta a rispondergli con una menzogna. Ma egli tacque.

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I giorni passavano.

Ogni mattina Francesco si alzava presto e andava alla clinica oculistica dov’era assistente: nel pomeriggio, se il tempo era cattivo, eseguiva qualche esperimento nel suo gabinetto e allora pareva si dimenticasse completamente di sua moglie, quasi stanco delle carezze che le prodigava nelle ore di riposo. Il tempo era freddo e triste. Come un velo d’acqua ondulava nell’aria, agitato da un vento incessante; di tanto in tanto la pioggia scrosciava e pareva uno scoppio di pianto universale, attraversato da gridi, da lamenti, da minaccie furiose: e Gavina, rannicchiata presso la finestra, si sentiva coinvolta in quella disperazione di tutte le cose. Suo malgrado, nonostante i ricordi poco lieti della sua vita passata, la nostalgia la vinceva. Di notte sognava costantemente di trovarsi a casa sua o in chiesa; scendeva con Paska alla fontana, chiamava Michela e litigava con lei a proposito di Francesco. E invariabilmente la figura di zio Sorighe appariva nei suoi sogni, dandole un senso d’inquietudine e di rimorso.