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Passarono alcuni giorni. Il tempo si manteneva limpido e freddo, ma nell’appartamentino degli sposi si spandeva un mite calore di nido. Nel pomeriggio essi uscivano e la sera andavano a teatro; ma nella mattinata Francesco andava al Policlinico, e Gavina rimaneva sola, dandosi molto da fare per pulire la camera da letto dove passava tutto il suo tempo. Nonostante il suo istinto antisocievole, quella solitudine profonda la spaventava; d’altronde aveva paura di uscir sola e restava ore ed ore alla finestra e il passaggio del postino era, come un tempo, il più importante avvenimento della sua giornata. Ma la notizia che ella attendeva non arrivava mai.
Una mattina verso le undici sentì suonare alla porta, e guardando dalla spia vide un uomo che le parve di aver già incontrato in qualche posto. Sembrava un mulatto, alto e rigido, col viso terreo sbarbato e i capelli nerissimi e crespi, e il suo viso immobile, dai lineamenti marcati, sarebbe parso truce senza l’espressione benevola e sorridente di due grandi occhi neri. Nonostante il freddo indossava un vestito leggero; calzoni chiari e giacca turchina; e le sue dita rosse di geloni erano cariche d’anelli che si sprofondavano nella carne gonfia. Gavina ricordò il servo che aveva recato alla vigna la notizia della morte del signor Sulis, e le parve che l’uomo gli rassomigliasse. Si decise ad aprire ed egli entrò e chiuse da