Scola della Patienza/Parte seconda/Capitolo IV
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CAP. IV.
Come l’afflittione insegna la Prudenza, e la Modestia
Salomone discorrendo dell’Indole puerile dice così: Stultitia colligata est in corde pueri, et virga disciplinae fugabit eam.2 La stoltezza è attaccata al cuore de i fanciulli. E la verga della disciplina ne la cacciarà via. Christo N. S. come primo, e sapientissimo maestro, che sà molto bene qual sia l’indole nostra; per farci lasciare le cose puerili, e per levarci l’insolenza nostra, non perdona alle verghe; poiche Flagellat omnem filium, quem recipit3 castiga molto bene quegli, che si piglia per figlio. Anzi come dice l’Ecclesiastico, Assiduat illi flagella4 Gli ne dà spesso qualche rimenata. Et a quei figli, che in questa maniera sono flagellati, ne risulta questo bene, e questo giovamento, che con la verga della disciplina si lieva loro dal cuore quella pazzia, che ordinariamente vi stà attaccata. Et a questo modo imparano la Prudenza, e la Modestia ossia l’Humiltà come hora mostreremo.
Note
§. 1.
Cherubim in lingua hebrea significa l’istesso che maestro o moltitudine di cognitione, e di scienza. Ecco la cosa; hor dichiariamo il misterio. Il Bue appresso gl’antichi fù simbolo della fatica, di cui questo animale è patientissimo, poiche s’attacca ai Cocchi, alle Carrozze e all’Aratro per arare, e per tirare; anzi è buono ancora per battere il grano, vera imagine d’un’huomo laborioso. Ma a questo Bue lo spirito divino dà una faccia di Cherubino, per mostrare ch’egli è un precettore e un maestro di molta esperienza. E la ragione sentila dall’Ecclesistico: Vir in multis expertus cogitabit multa, et qui multa didicit, enarrabit intellectum.2 L’huomo, che hà provato molte cose, ne pensarà molte ancora: e chi hà imparato molte cose: insegnarà ancora come s’hanno a intendere. Loda in questo luogo l’Ecclesiastico quell’esperienza, che si è acquistata dalle molte tribolationi; poiche essendo egli ottimo interprete di se stesso; dice: Qui non est tentatus quid scit?3 Chi non è stato mai tentato, che sa?.
Da queste cose si cava chiaramente, che l’afflittione non solamente è la madre della felicità eterna mà ancora della Christiana Prudenza. L’afflittione ti mette in mano la torcia della Sapienza. Confermando ciò col suo essempio l’Ecclesiastico dice: Multa vidi errando, etc. Ho imparato molte cose errando, ecc. Aliquoties usque ad mortem periclitatus sum horum causa.4 Alcune volte mi son posto a rischio della vita per cagione di queste cose: cioè mentre andava cercando la Prudenza. Ecco come la faccia di Cherubino fa sparire quella di Bue: Ecco, come la prudenza accompagna l’esperienza cavata dalle tribolationi. Da quelle cose, che uno patisce comincia a conoscere tanto se stesso, quanto gl’altri, e Dio ancora; mentre pensa alla vanità delle cose caduche, alla varietà dell’ingegno humano, all’incostanza, e mutabilità della fortuna a gl’innumerabili inganni, che ogni giorno si fanno; e alle infinite miserie, e stragi, che continuamente occorrono. E di quà impara a poco a poco a riprovare il male ed appigliarsi al bene. Chi non è stato molte volte ben pettinato, come lana, che cosa sa, se non stare in otio, e darsi spasso? Et è ancor verissimo quello, che disse Seneca: Melius in malis sapimus.5 Nelle cose avverse habbiamo più cervello, nelle prospere lo perdiamo.
Giob proponendo una questione molto seria così dice: Sapientia ubi invenitur, et quis est locus intelligentiae? La Sapienza dove si trova; e dov’è il luogo dell’intelligenza?. E si risponde in questa guisa: Nescit homo pretium eius, neque 'invenitur in terra suaviter viventium.6 Non sà l’huomo quanto ella vaglia, ne si trova nel paese di coloro, che si dan bel tempo. Certo che quella sapientia pratica, che mostra col dito, quanto vagliono le cose caduche, e transitorie, e quanto l’eterne, non si ritrova in quelle case, che sono grasse, e abondanti, dove ogni giorno si fa carnevale; quivi l’Incuria, la stoltezza, e l’insania sono sempre vicine all’abondanza, e all’Opulentia. E certo, che cosa si può trovar più pazza, che il rallegrarsi d’un guadagno di cose vilissime, e perdere gl’eterni beni? S. Gregorio confermando questo dice: Tanto verius stulti sunt, guanto maiora perdentes minimis laetantur.7 Tanto sono più veramente pazzi, quanto che perdendo cose grandissime, si vanno rallegrando nelle minime.
Quello, che Seneca disse della virtù, l’istesso si può dire di questa istessa Prudenza, ò Sapienza della quale noi parliamo. Altum quiddam est regale, invictum, infatigabile, nec satietatem habet, nec poenitentiam, immortale. In templo eam invenies, in foro, in curia, pro muris stantem, pulverulentam, coloratam, callosas habentem manus.8 E’ una certa cosa sublime, reale, invitta, infaticabile, non hà sazietà, nè pentimento, è immortale. La trovarai nel Tempio, nel foro, nella Curia, su le muraglie, tutta piena di polvere, e co’i calli alle mani. E Salomone ripieno di migliore spirito dice: Virga, atque correptio tribuit sapientiam9 . La Verga, e il Castigo danno la sapienza.
Note
- ↑ [p. 445 modifica]Ezecch. c. 5. 10. 15.
- ↑ [p. 445 modifica]Eccli. c. 34. 4.
- ↑ [p. 445 modifica]Eccli. c. 34. 12.
- ↑ [p. 445 modifica]ibid.
- ↑ [p. 445 modifica]Sen. ep. 95.
- ↑ [p. 445 modifica]Is. c. 7. 15. 16.
- ↑ [p. 445 modifica]S. Greg. in illud Iob.
- ↑ [p. 445 modifica]Senec. de beat. vit. c. 7 & 8.
- ↑ Prov. c. 29. 15.
§.2.
Vedete di gratia come questo fiele dell’afflittione risana il mal de gl’occhi, come gli restituisce il lume, e fà lor buona vista? Gieremia Profeta conferma questo istesso chiarissimamente con queste parole: De excelso misit ignem in ossibus meis, et erudivit me.1 Mi mandò dal cielo il fuoco nell’ossa, e ammaestrommi molto bene. Quindi è, ch’è verissimo quel detto di S. Gregorio: Oculos, quos culpa claudit poena aperit.2 Gl’occhi, che son chiusi dalla colpa, son aperti dalla pena. Di qui è ancora, che Gieremia disse, che le miserie erano poca cosa. Ego vir videns paupertatem meam in virga indignationis eius.3 Castigasti me, et eruditus sum, quasi iuvenculus indomitus, quia tu Dominus meus Deus meus.4 Io sono un’huomo, che riconosco molto bene la mia povertà quando il Signore mi castiga. Signore voi mi castigaste, e hò imparato a spese mie, come un vitello indomito. Poiche voi siete il mio Signore Iddio.
Spesse volte noi siamo miseri, e miserabili, e quello ch’è più misero di ogni miseria, non sappiamo d’essere miseri, e teniamo per nemico capitale, chi ci dice, che siamo miseri. Et in questo siamo simili à coloro, che dicono ostinatamente che non s’è altrimenti attaccato il fuoco alla casa loro, finche stanno in questa credenza di poterlo estinguere di dentro secretamente. Ma come la fiamma comincia a viva forza a uscir per le fenestre, e arriva al tetto, all’hora finalmente si chiama in aiuto il vicinato: La cosa non si può più dissimulare, e l’istesso incendio parla. Così facciamo noi altri, che all’hora mettiamo cervello nelle avversità, quando da dovero si fanno sentire, ne si possono più nascondere. E così la sola afflittione fa, che l’udito intenda. Vexatio dat intellectum auditui.5 Poiche come dice l’Ecclesiastico: Pungens oculum deducit lachrymas, et qui pungit cor profert sensum.6 Chi punge un’occhio, ne cava le lagrime, e chi punge il cuore ne cava quel che sente. Se alcuno è villaneggiato ò ingiuriato all’improvviso, ò se quando manco l’aspettava gli sopraviene qualche gran calamità. Questo è il tempo di far esperienza di se stesso, quì si vede quanto sia mansueto colui, che da sì repentina miseria è stato percosso; quanto sia paziente, quanto modesto, e humile. E benche tal volta impunti un poco, e paia che vada titubando, nondimeno se hà cervello, subito si ravvede, e punto riacquista il senso, mostra la sua sapienza, essercita la mansuetudine, e dà essempio di modestia. Poiche come dice l’Ecclesiastico: Flagella, et doctrina in omni tempore sapientia.7 I castighi, e le riprensioni si devon sempre ricevere con sapienza.
Tutti i libri di Seneca spirano non sò che del divino, e si doverino scrivere in tavole di cedro, e a lettera d’oro: Nondimeno par che fra tutti tenghino il primo luogo quei, che scrisse dall’esilio ad Helvia sua madre. Tanto più fù il cervello, che hebbe questo savio Romano, e tanto più seppe, quanto meno hebbe alle mani ciò, che ’l potea in quel tempo consolare. E così i Discepoli nella Scuola della Patienza vanno sempre facendo profitto; e co’i castighi diventano più prudenti, e savi, poiche le sferzate mettono cervello. Così ancora il pescatore dopo ch’è stato punto dallo scorpione impara a sue spese, e più scaltro ne diviene. Raccontano d’un pescatore, che troppo avido della preda messe troppo presto le mani nella rete, e fù punto da un scorpione, Onde disse: per l’avvenire non ficcarò così presto le mani nella rete, e saprò benissimo, che cosa sia l’esser punto.
Non altrimente habbiamo da discorrer noi altri. Poiche quando ci accorgeremo d’haver peccato d’impatienza dopo che sarà passata la calamità, rivolti subito a noi stessi diciamo: O bufalo selvaggio, e impatiente, come ti sei portato in questa afflittione? Come sei stato delicato, e impaziente? Eri tanto infuriato, che pareva, che tù volessi tirar giù la luna dal cielo. E’ forse questa la patienza cristiana? così aspiriamo al cielo, e ci spaventiamo anche di una leggiera puntura d’aco, e non vogliamo patir cosa alcuna benche leggeirissima? Onde per l’avvenire ti portarai meglio; e haverai più a cuore, e a memoria la Patienza.
Note
§. 3.
Hor qui io voglio far una dimanda. Quante volte di gratia, meditiamo noi attentamente le celesti delitie, e quegli eterni piaceri; quante volte ci mettiamo da dovero a pensare a quelle ardenti, e ultrici fiamme dell’inferno? Ahimè molto di rado, e di passaggio. Poiche dunque noi non ci mettiamo quasi mai a pensar da dovero a queste cose, che ci sono così utili, e salutari, Iddio benedetto, havendo compassione di questo nostro poco pensiero, dandoci da pensare queste cose nella Scuola della Patienza: attendi quà, ci dice, ò huomo, e pensa un poco, che se un’infermità, che alla fine non è tanto grave, ti dà tanto tormento, che ti faranno quei dolori eterni de i dannati? Se tal volta dolendoti solamente un dente, t’affligge tanto giorno, e notte, che ti fa quasi divenir pazzo; Che farà il verme della conscienza, e come incrudelirà contra quei disperatissimi cattivi? Se la podagra, se il mal di pietra, se un dolor colico danno tanto tormento a un’huomo, che pur si riposa in un letto delicato, e molle; come tormentarà quel fuoco eterno, e quella per sempre inestinguibil fiamma? Ah pensa, pensa un poco, che tutto ciò, che al presente patisci è una punturella d’aco ben piccolo; ed è una merissima baia ciò, che hora ti tormenta. Quis vero poterit habitare de nobis cum igne devorante, cum ardoribus sempiternis?1 Ma chi sarà di noi, che possa per sempre habitare in quel crudelissimo fuoco, e in quegl’ardori sempiterni?
Noi altri ci diamo qualche volta ad intendere, e ci persuadiamo alcune cose, che non stanno a martello, con dire: non posso più sopportare costui, non lo posso più patire; non posso più durare a queste botte. Dimmi di gratia, huomo da bene: E come potrai tù soffrire la compagnia di tutti i dannati, e di tutti i Demonij dell’Inferno? come sopportarai quei continui, e crudelissimi tormenti? Se Dio castiga a questo modo qui, dove ci è speranza di perdono; come castigarà dove speranza alcuna di misericordia? Ogni volta dunque, che ti occorre qualche cosa contro tua voglia, che ti dispiace, e ti fà male, pensa un poco, e dì a te stesso: Eccoti una mostra, e un saggio dell’inferno, ma dipinto; Eccoti un essempio di quelle fiamme, mà molto miti, e infinitamente men crudeli. Altra cosa sono i fuochi, che di là seppelliscono, e tormentano i cattivi: Tutto ciò, che tù patisci è molto dolce, e soave rispetto a quelli eterni supplicij. Adunque mentre hai tempo, impara a mettere cervello, e ad intendere.
Desiderando questo istesso l’Ecclesiastico disse: Quis superponet in cogitatu meo flagella? Chi aggiungerà i flaggelli sopra il mio pensiero? Poiche il sentire solamente queste cose, è poco (e chi è quello, che non le senta?) se non pensiamo ancora, che questi nostri dolori comparati con quelli eterni sono brevissimi; e se non confessiamo ancora, che alla fine tutti i nostri tormenti, e le pene, che patiamo, rispetto a quelli, non sono altro, che ombra, e sogni.
Mà si come Dio nella Scuola della Patienza ci dà ad assaggiare le lagrime dell’Inferno, così ci dà ancora à gustare le delitie della felicità eterna. Perche un’huomo di buona mente dopo haver provato tante molestie, e miserie, tante mestizie, e tanti dolori dirà gemendo con S. Paolo: Supra modum gravati suumus supra omenm virtutem, ita ut taedeat nos etiam vivere. 2 Siamo stati assai gravati, e tribolati, e tanto, che ci rincresce ancor di vivere. Che ne segue appresso? A voi, Dio mio, con tutto il mio cor sospiro; la vostra casa è assai sicura, e molto grande, dalla quale stanno molto lontani i tedij, le miserie, i dolori, e le rovine: ivi non vi è nè infermità, ne morte: ivi sono sincerissimi ed eterni i spassi, e i piaceri.
Per il contrario qui appresso di noi non vi sono altro, che meri tedij, e merissime mestitie, ogni cosa è piena di pianto, e di dolore. Laonde Signor mio, rovinate hormai, se pur così vi piace, e gettate a terra questo picciolo tugurio del mio corpo, non me ne curo niente: vada pur questo a terra, purchè io me ne venga a voi. Già mi son lamentato à bastanza, longo i fiumi di questa amara Babilonia: già la mia cetera se ne stà un pezzo fà sospesa à i salici, nè più si fa sentire: penso solamente alla celeste Sion, e à voi Dio mio, con un’infaticabil desiderio mi sento rapire.
Hor questo è sapere, e questo è intendere. Et a questo modo la Scuola della Patienza c’insegna la Prudenza.
§. 4.
Alessandro Magno quando se ne andava per l’India facendo guerra à gente, che nè anche da popoli vicini era troppo conosciuta, e dando il guasto a tutti questi paesi, mentre assediava una certa Città, e andava attorno alle muraglie per veder dove fussero più deboli, fù con una saetta ferito, perseverò nondimeno à far il fatto suo, e à finire quel, che havea incominciato. Di poi, dopo essersegli stagnato il sangue, e raffredato un poco gli cominciò a crescere il dolor della ferita, onde instupidendosegli à poco à poco la gamba, e sforzato à fermarsi, disse queste parole: Tutti giurano ch’io son’un Dio, e figlio di Giove, ma questa ferita mi dà ad intendere, che io son un huomo come gli’altri.3 Adunque Alessandro tu ancora sei huomo, che poco prima ti pensavi esser un Dio.
Ecco, come facilmente nella Scuola della Patienza impariamo à calar l’ale, e abbassar le creste, Ogn’uno, che quì viene ad imparare, purche del tutto non sia indocile, e un pezzo di stucco, parla di tutte le cose sue in questo modo: Io, per gratia del Signore hò della robba, son da molti favorito, hò gratia nel trattare, son di grand’autorità, son lodato, e honorato, e arrivo fino al cielo. Mà ohimè, quante volte vò serpendo per terra? quante sono quelle cose, che mi dicono, ch’io son’huomo? di quà pensieri, di là infermità, da un’altra parte infinite miserie mi molestano; e tutte queste cose, che altro fanno, se non dirmi ad alta voce, ch’io sono huomo fragile, mortale, e esposto a tutti i mali?
Elegantemente S. Chrisostomo discorrendo di questo mondo inferiore dice: Deus non tantum mirabilem, et magnum fecit mundum, sed et corruptibilem, et marcescibilem. Quod in apostolis fecit, hoc et in toto mundo. Quid autem in Apostolis fecit? Quoniam signa multa faciebant et miracula magna, et mirabilia ipsos, tamen continue flagellari permisit, pelli, in carcerem detrudi, corporis morbis affligi, lapidari, crucifigi, in continuis, esse tribulationibus.4 Iddio non solamente fece questo mondo così grande, e maraviglioso; ma lo fece ancora corruttibile, e che non durasse sempre. Quello, ch’ei fece nelli Apostoli, questo ancora fece in tutto il mondo. E che fece nelli Apostoli? Perche facevano molti, grandi, e stupendi miracoli, perciò permise ch’essi fussero continuamente flaggellati, scacciati, messi in prigione, afflitti con malatie, lapidati, crocifissi, e che patissero continue tribulationi. Accioche quei, che facevano tanti miracoli oltre l’humana conditione fussero sempre tenuti per huomini, e non per Dei. E perciò gl’Apostoli, che guarirono le infermità de gl’altri; s’infermarono ancor essi; risuscitarono molti morti, ed essi non si liberarono dalla morte. Di che ci maravigliamo? Habbiamo un tesoro in vasi di terra fragilissimi,5 che con toccarli un poco subito si spezzano. Quindi è che alcuni de gl’Apostoli se ne stettero quasi sempre infermi. Poiche à Timoteo si concesse un poco di vino, Propter stomachum, et frequentes infirmitates,6 per rispetto dello stomaco e delle continue infermità, che pativa. Trofimo viene lasciato infermo a Mileto7, Epafrodito usque ad mortem infirmatur.8 s’amala fino a morte. E che razza d’Apostoli, dirà forsi alcuno, son questi, che in cambio di star in pulpito a predicare, se ne stanno a letto infermi?
Mà sappia pure costui, che nella Scuola della Patienza tutti gl’homini più santi, e anche gli stessi Apostoli hanno da imparare prima d’ogn’altra cosa l’Humiltà. Sic (dice S. Bernardo) Pauli extollentia per carnis stimulos reprimitur: sic Zachariae infidelitas linguae obligatione mulctatur; sic per gloriam & ignobilitatem Sancti proficiunt, dum inter singularia dona, quae recipiunt, communi hominum vanitate pulsari se sentiunt, ut dum per gratiam supra se aliquid cernunt non obliviscantur quod sunt. Sicut enim medicus non solum, unguento, se digne utitur et ferro quo omne, quod in vulnere sanando superfluum excreverit secet, et urat, ne sanitatem, qua ex unguento procedit, impediat: Sic medicus animarum Deus huiusmodi animae procurat teptationes immittit tribulationes, quibus afflicta, et humiliata gaudium, vertat in luctum.9 A questo modo, dice questo Santo, con gli stimoli della carne si reprime la superbia di Paolo; in questa maniera l’infedeltà di Zaccaria si cacastiga con legargli la lingua: A questo modo s’approfittano i santi per la gloria, e per l’ignominia, mentre tra i singolari doni, che ricevono sentono tentarsi dalla commune vanità de gl’huomini accioche mentre per gratia vedono d’haver qualche cosa suprahumana, non si scordino di quel, che sono. Perciocchè si come il medico non si serve solamente dell’unguento, mà adopera ancora il fuoco, e il ferro, col quale taglia, e abbrugia tutto quello, che in sanar la ferita per sorte crescesse, per non impedir la sanità, che dall’unguento procede: Così Dio Medico dell’anima le procura delle tentationi; e le manda delle tribulationi accioche da quelle afflitta, e humiliata converta in pianto l’allegrezza sua.
Note
- ↑ [p. 466 modifica]Theodoret.
- ↑ [p. 466 modifica]Deut. c. 32. 27.
- ↑ [p. 466 modifica]Sen. ep. 59 Plu. in Alex.
- ↑ [p. 466 modifica]Chrys. to. 5. hom. 10. ad Pop. Ant.
- ↑ [p. 467 modifica]2. Cor. c. 4. 7.
- ↑ [p. 467 modifica]1 Tim. c. 5. 13.
- ↑ [p. 467 modifica]2. Tim. c. 4. 10.
- ↑ [p. 467 modifica]Phil. c. 2. 27.
- ↑ [p. 467 modifica]S. Bern. de grd. humil. et superb. gr. 1. superb. fin.
§. 5.
Quel terrore de’ Romani, Annibale, come dice Suida, se ne stette dicisette anni in campagna, allo scoperto, prattichissimo Capitano per tante guerre, che fece, e non senza ragione si gloriava con dire: Già l’età m’ha condotto alla Vecchiezza, e le cose, che mi sono successe hor prospere, hor contrarie, m’hanno talmente ammaestrato, ch’io voglio seguitar più tosto la ragione, che la fortuna.2 Ne temerariamente considera l’incertezza de’ casi chi non è dalla fortuna mai stato ingannato. Io ricordevole dell’humana fragilità, considero la forza della fortuna, e sò che tutte le cose, che noi facciamo, son soggette a mille casi. Che se Dio dasse alle prosperità ancora una mente buona, non consideraressimmo solamente le cose, che fussero avvenute, ma quelle ancora, che potevano avvenire: Et io servo per un sufficiente essempio in tutti i casi. Siami dunque lecito d’esclamare con Secondo: O quam utile est ad usum secundorum per adversa venisse?3 O quanto giova l’esser arrivato a godere le prosperità per mezzo dell’avversità? Ma ò quanto è cosa da Christiano, e conveniente alla modestia l’haver conosciuto di non esser castigato a torto nelle avversità.
I fratelli del Vicerè d’Egitto, erano accusati di furto (come dicemmo di sopra) poiche era lor detto in faccia: Scyphus, quem furati estis, ipse est, in quo bibit Dominus meus.4 La coppa, che voi havete robbato, è quella dove beve il mio Signore. Haverebbono potuto dire essi. Non siamo ladri altrimente, ne ci conviene questa calunnia, che voi ci date, ma ne siamo totalmente innocenti. Ma piano ò galant’huomini, ricordatevi un poco bene di quello, che havete fatto; ch’è più assai, che se ne haveste robbato mille coppe; voi siete Plagiarij, e havete robbato l’istesso Giuseppe, e lo robbaste già sono venti tre anni non ve ne ricordate? Questo è un grande, e vergognoso delitto degno d’ogni gran castigo. A questo passo i fratelli di Gioseppe, con tutto, che fussero huomini rozzi, e grossi, confessarono ingenuamente ch’era il vero, dicendo: Deus invenit iniquitatem servorum tuorum. En omnes servi sumus Domini mei.5 Iddio è stato quello, che ti hà scoperto il nostro peccato: però eccoci tutti per schiavi del nostro Signore. Mà bellissimo ancora è quel che dissero a nostro proposito: Merito haec patimur, quia peccavimus in fratrem nostrum.6 Meritatamente patiamo queste cose, perche peccammo contra il nostro fratello. Così parli, e senta ciascuno di noi ancora in tutte le avversità; Meritatamente patisco queste cose, non mi si fa torto alcuno perche l’hò meritato molto bene.
Nella Scuola della Patienza, il principio, il mezzo, e il fine è l’humiltà. Senza humiltà non si impara niente, non si tiene a mente niente, ne si fa profitto alcuno. Per impararla prima di tutte l’altre cose, pensiamo spesso a quei beatissimi giorni ne’ quali tra gloriosi trionfi cantaremo quel verso: Laetati sumus pro diebus, quibus nos humiliasti, annis, quibus vidimus mala.7 Ci siamo rallegrati per quei giorni, che voi, Signore, ci humiliaste, e per quelli anni, ne i quali patimmo tante tribolationi. Quelli, che Dio non affligge in questa vita, ò li odia, ò come pigri, e infingardi, e poco atti ad imparare, li passa senza farne conto alcuno.