Saggio sulla felicità/I
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Pare, che gli scrittori pressochè tutti siensi fra loro convenuti di dipingere l’umana condizione più infelice, di quello che in fatto lo sia. Quali vantaggi poi abbiansi creduto rendere all’umanità di tal guisa operando, non io saprei conoscerli: e sono piuttosto inclinato a dubitare, che l’orgoglio ve gli determinasse, anzichè il nobile desiderio di fare degli uomini migliore la sorte; poichè ben essi sapendo essere il quadro dell’umane sciagure, suscettibile di tinte più varie più forti, e più risentite, che la sbiadata, ed uniforme dipintura dell’umana felicità, così al primo s’attennero, che somma lode, e gloriosa nominanza loro prometteva. L’uomo per naturale sua indole è portato ad amar l’esagerazione. Dessa lo toglie alla noja, scuotendo vivamente la sua anima, eccitandovi delle passioni violente, e rimovendone in quel punto ogni affetto straniero. Perciò, chi si facesse a parlargli con mente tranquilla dell’umana felicità, e con pacato ragionamento gli dimostrasse quali, e quanti siensi i mali, ed i beni, senza punto aumentare degli uni, o degli altri la somma, facile sarebbe, che al sonno, anzichè all’attenzione lo inducesse; mentre, chi gli pruovasse con filosofiche sottigliezze, e con calda eloquenza, che l’uomo è del bruto più infelice, che le scienze, e le arti hanno peggiorata la sua sorte, ben molti applausi ne riscuoterebbe; e ciò non già perchè lo avesse istrutto, o migliorato, ma soltanto perchè lo avrebbe divertito, portando alla sua anima una forte sensazione. Non sempre però giova dilettare; e l’errore, per essere condito dalle dolcezze del piacere, non cangia per questo di essenza, ma anzi torna agli uomini tanto più nocivo, quanto più avidamente essi accostano il labbro all’avvelenata sua tazza.
I filosofi, ed in più particolar guisa i moderni, hanno parlato della felicità metafisicamente, e con metodo analitico si son fatti a notomizzare li nostri bisogni, li nostri desiderj, li nostri timori, e le nostre speranze. Ma la natura, che con mano pietosa leva il velo a que’ segreti, la cui conoscenza può tornarci di qualche utile reale, avvolge invece in nebbia densissima quelli altriFonte/commento: Pagina:Saggio sulla felicità.djvu/61, che solo interessar possono la nostra curiosità. Di vero, dopo lunghe, e replicate indagini dovettero quelli confessare, che l’essenza del dolore ostinatamente loro si celava, e quindi non aver potuto iscoprire la vera cagione, per cui l’uomo, come ogni altro essere animato, sia dalla sensazione dolorosa indotto a gridare, e a fuggire. Quantunque però mancanti di questa essenziale cognizione, come di molt’altre in siffatto argomento, nulladimeno la più parte convennero nell’opinione, che il dolore siasi lo stato abituale dell’uomo, ed il piacere una cessazione rapida del dolore. Partendo da questi principjFonte/commento: Pagina:Saggio sulla felicità.djvu/61 ne trassero la conseguenza, che tutte le affezioni, per cui l’uomo desidera, spera, o teme, altro non sono che isvariate modificazioni del dolore, più o meno veementi, chiamate pena angoscia tormento, se forti, ed intense, e noja o melanconia, se languide, e leggeri. Queste ultime benchè non abbiano de’ vocaboli, che l’une dall’altre distinguano (non essendo possibile l’esistenza di una lingua sì ricca, che per ciascuna gradazione somministri una parola, che ne risvegli l’idea precisa) pure non lasciano per ciò di appartenere alla classe delle sensazioni dolorose, e sono da loro chiamate dolori innominati.
Io convengo di buon animo con esso loro, che il dolore siasi il nostro elemento, ma non so appagarmi interamente dell’enunciata loro diffinizione del piacere, siccome di quella, che barbaramente, ne ristringe il suo impero. Forse sarà vero, che il piacere nasce dal dolore, come tra le spine la rosa, ma perchè si dovrà stabilire la necessità di un istantaneo passaggio da questo a quello stato, onde n’abbia a risultare la sensazione del diletto? L’esser pronta improvvisa rapida questa cessazione farà bensì, che il piacere successivo sarà vivo, e forte in ragione dell’intensione del dolore calmato, e della rapidità della vicenda; ma, se invece questa cessazione sarà lenta, io non so vedere, perchè in tal caso il piacere non abbia guadagnare in durata quanto perderà in intensione; e perchè non si possano chiamare le sensazioni piacevoli, che non son forti abbastanza per aver un vocabolo particolare, piaceri innominati, come si son chiamati dolori innominati l’inquietudine d’animo, la melanconia, e la noja. Converrò dunque con essi, che pur troppo i dolori innominati ci perseguitano, ma sollecito eziandio della mia, e dell’altrui felicità non mi farò ad accordare, che quando leggo gli scritti di qualche ingegno immortale, che a poco a poco, e non rapidamente faccia tacere nella mia anima le troppo fedeli cure mordaci, o quando men vo per questi colli amenissimi passeggiando nella stagione in cui più bella, e ridente si mostra natura, allorchè la terra sì vagamente ti si presenta, che poco anzi la diresti sortita di mano del sommo Creatore, no non saprei accordare, ripeto, che queste sensazioni per non essere causate da cessazioni rapide di dolori, non s’abbiano perciò a chiamare piacevoli. E chi sarebbe mai così stolto, che non infrangesse i legami, che a vivere ci sforzano, se d’altri piaceri non ci fosse dato gustare, che di que’ pochi, che derivar ci dovessero da rapide cessazioni di dolori? Ci rifletti alcun poco, e ben presto conoscerai, quanto infelice sarebbe la nostra condizione, se il fatto alla loro diffinizione rispondesse.
Posto dunque, che il piacere non siasi poi fra sì angusti limiti ristretto, come per altri ci volea fatto credere, ne verrà di conseguenza, che l’uomo potrà anelare al possedimento di un grado di felicità tanto più eminente, quanto più grande sarà la somma de’ piaceri compatibili con la sua imperfetta natura. Non arguirne però da questi miei detti, ch’io creda essere in balia dell’uomo l’acquistarsi il più alto grado di felicità; poichè quantunque questo siasi il parere di sommi filosofi, nulladimeno io non son persuaso, che s’abbia a prescindere del tutto dagli agenti esterni, ossia da quelle cause, che agiscono sopra di noi senza consultarci, e s’abbia a conchiudere in unta delle malattie le più penose, delle persecuzioni le più ostinate, e di quanto può accadere di sinistro, che l’uomo, purchè dotato di un animo virile, menar possa giorni egualmente avventurosi, in mezzo a circostanze funeste, spiacevoli, e dolorose, come se tutto gli andasse a seconda, e la fortuna con leale sguardo, e benigno lo riguardasse. Il mio avviso in vece si è, che la felicità individuale siasi l’effetto della fisica costituzione, delle combinazioni sociali, e del carattere morale. Rispetto alla prima cagione, non sta in noi il fare, che il nostro temperamento sia vigoroso, ed inalterabile la nostra salute, anzichè l’uno cagionevole, e l’altra infermiccia; nè sta in noi l’essere agiato di beni di fortuna, o miserabile, nè l’essere in istima presso a’ suoi concittadini, o da loro trascurato; poichè da noi non dipende ciò, che o la sciocchezza, o la malizia degli uomini, vuole a sua fantasia dispensare; ma sta in noi il rendere sì maschio, e sì forte il nostro animo, che quasi da triplice ferro accerchiato, faccia tornar addietro spuntate le freccie dall’avversa sorte scagliate, e sta in noi il persuadere altamente al nostro intelletto, che il vero bene, la voluttà la più soave, ed i piaceri li più durevoli, solo dalla virtù ci possono venir compartiti, e che per giungere al tempio della felicità, passar conviene sotto l’auguste volte immortali, alla sublime, ed incontaminata virtude sacrate dall'umano universale consentimento.
Non pertanto ripeto, che quantunque io tenga per infallibile non poter andar disgiunta da virtude la felicità, nullostante ch’io non convengo nell’avviso di coloro, che dicono esser felice ogni uomo virtuoso. Accorderò, che questi, tormentato da dolorosa malattia, saprà con animo intrepido sopportarne le pene; accorderò, che, fatta la sua fama bersaglio della mordace maldicenza, troverà nella purità di sua condotta conforto; accorderò, che, ridotto alla mendicità o da barbare leggi, o da tirannico volere, procaccierà di riparare alle non meritate sciagure, traendo onorato sostentamento, o dalle forze del suo ingegno, o da quelle del suo corpo, anzichè darsi in braccio di vile disperazione; ma dirò, che in tutti questi casi, la virtù rende bensì dell’uomo meno infelice la sorte, ma non lo farà del pari felice, come se la rosea salute preso in sua guardia lo avesse, se fra genti più probe concesso gli fosse l’aure di vita respirare, o se in seno di contenta mediocrità, e fra geniali occupazioni d’ingannar l’ore spesso in lor corso sì lente.
Ma, se l’uomo virtuoso non è però sempre l’uomo il più avventurato, non si dovrà per questo conchiudere, che la virtù tenue servigio gli renda, e quindi che poco, o nulla rilevino li suoi conforti. La felicità è uno stato dell’uomo, una maniera di esistere relativa, e non assoluta: dessa è come una linea, che per se stessa non è nè lunga nè corta, ma che questo o quello diventa, posta di un’altra al paragone; non altramenti la situazione dell’uomo, che assolutamente non è nè felice, nè infelice, comparativamente l’uno o l’altro diventa. Ora, se la virtù non potrà rendere il suo fido cultore del pari felice di chi, quanto lui virtuoso, sia inoltre più favorito dalla fortuna, dessa lo renderà almeno più felice di quello, che stato sarebbe, se, contaminato dal vizio, lacerato da’Fonte/commento: Pagina:Saggio sulla felicità.djvu/61 rimorsi, dal timore avvilito, e tormentato da’Fonte/commento: Pagina:Saggio sulla felicità.djvu/61 sempre rinascenti desiderj, perduto avesse il porto di vista, e con quello ogni confortatrice speranza.
Dimostrato essendo, che la virtù o conduce l’uomo alla felicità, o almeno ne scema i suoi mali, mi resta adesso da farti a conoscere quali siensi li mezzi per conseguirla; e per riuscire felicemente al termine di tanto proposto, prenderò ad esaminare le nostre passioni, fonte come di tutte le umane sciagure, così di tutte le magnanime imprese. Per questo vocabolo passione, io intendo quello stato violento, in cui si trova o il nostro corpo, o il nostro animo, cagionato dall’azione di un oggetto qualunque, siasi egli reale, o immaginario. Da questo stato di contrazione ne nasce il bisogno di sottrarvisi, quindi il desiderio, e la speranza di riuscirvi. Le passioni dunque, le cui replicate, e diverse sensazioni appartengono alla classe delle dolorose, sono l’universale principio, che ci determina ad agire, e che ci rende o rispettati, ed amati da’ nostri simili, se le nostre azioni hanno per iscopo l’utile della società in cui viviamo, o da quelli abborriti, e disprezzati, se sono dirette soltanto a recar danno agli amici, a’ parenti, alla patria, a noi stessi. La ragione, che Iddio ci ha accordata per imbrigliare, e regolare queste forze, si reputa virtuosa quand’abbia assai vigore da domarle, e da dirigerle a meta lodevole, ed inetta s’appella, se vilmente ne abbandona il governo, e colle redini sul collo le lascia a lor grado quà e là discorrere sconsigliate, e proterve. Il vero interesse prescrive alla ragione di valersi del poter suo per moderarne il bollore impetuoso, e scorgerle pel retto sentiero; ma ben più sovente un vano simulacro di quello, vestendone le sembianze, la inganna, e la persuade di anteporre il tenue vantaggio purchè vicino, a quello senza paragone più importante, che sia lontano.
Per conseguire dunque virtude, converrà illuminare la ragione, ed additarle quali siensi li suoi veri interessi, che in ben regolata società mai non vanno scompagnati dalla pratica severa de’ suoi doveri, ond’ella faccia tacere le passioni malnate, fomenti le generose, e rivolga tutta questa fonte d’azione al nobile scopo della comune utilità. Ma che direbbero quegli spirti immortali, che nelle trascorse età cotanto Atene, e Roma illustrarono, se dalle loro sedi di gloria me udissero, ragionando di felicità, troppo ardito, e malcauto suggerirti di fomentare liberamente certe passioni, dessi che ne’ loro scritti sostennero, che all’uomo per diventare felice, gli convenia rendersi impassibile, che il suo cuore s’impietrasse, e che il suo animo ad ogni affetto il varco chiudesse? Ma, come mai (rispondo io) come mai si è potuto per tanti secoli, dietro la loro asserzione, quantunque inorpellata di tutti i prestigj della seducente eloquenza, nemmen sospettare, che fosse possibile questa sognata maniera di esistere, e come mai si è potuto credere, eziandio accordandone la possibilità, ch’essa dovesse venire utile alle sociali costituzioni? Il moto, che tutta anima la natura, ed alle cui leggi son soggetti tanto i corpi più duri, che quelli di più sottile tessuto, non dimostrava loro chiaramente, che questo stato d’impassibilità, e d’indifferenza non era compatibile colle ineluttabili sue forze? E la ragione non faceva loro toccar con mano, che questa felicità, la qual pur si voleva all’uomo procacciare, era la felicità del bruto dell’imbecille, e di qual altro essere esista o più inutile, o più disprezzato? Essi chiamavano virtù questo sforzo, veramente superiore alla naturale possanza, per cui mezzo pretendevano di condurre gli uomini alla felicità. Io non nego, che astrattamente considerata dessa tale non fosse; ma vista praticamente, ossia come forza applicata al maggior utile sociale, io temo, e non senza fondamento, che, perdendo di vista il vero scopo, sagrificasse il ben generale alla chimerica speranza, di procacciare l’individuale vantaggio. Per lo che, comunque essi ne sentissero su tale argomento, e comunque ne sentano anche oggidì li moderni pensatori, non solo credo inutile l’andar rattenuto in permetterti, che tu presti orecchio alla voce di quelle passioni, che mirano a lodevole meta, ma anzi mi fo animo d’inculcarti, che tu le promuova, e le fomenti; come ti prescrivo, quanto più so caldamente, di soffocare sotto al peso di tutta la tua virtù quelle passioni, che osassero suggerirti azioni contrarie all’altrui bene, quindi al tuo vero interesse, ed alla tua felicità.
E venendo all’applicazione di questi principj, onde farti più chiaramente a conoscere quali siensi i limiti, entro cui tu debba tener ristrette le passioni, quali di queste io reputi degne, che tu ti faccia con ogni studio a promuovere, e quali in vece con ogni sforzo ad opprimere, ne prenderò a tal uopo alcune in esame, ristringendomi a ragionarti di quelle soltanto, che mi parranno le più comuni, e le più violente.
Le sensazioni dolorose, che ci avvertono di sovvenire alli nostri fisici bisogni, costituiscono la base di molte passioni, che per amore di brevità non mi arresterò ad individuare; passioni che sono fra le più comuni, poichè nate coll’uomo, e che non ripetono la loro origine dall’ingentilite società. L’appagare questi bisogni è un dovere dell’uomo, e forse egli ne ha un dritto in onta di qualunque ostacolo che gli occorra, purchè non oltrepassi que’ limiti, che la conservazione di se stesso gli addita, e non si faccia a violare le leggi, dalla frugalità, e dalla temperanza dettate. Che se dagl’insegnamenti di queste virtù osasse slontanarsi, e cercasse incautamente di onestare le chimere figlie di scomposta immaginazione, e di viziati costumi collo spezioso pretesto del bisogno, egli si porrebbe a repentaglio di veder punito il suo errore dall’infermità, seguaci indivise delle sozze lascivie, e delle notturne orgie romorose, cui Bacco ebro, ed insano presiede. E se la felicità come poco anzi ti andava dicendo, è in parte l’effetto di un temperamento sano, e vigoroso, ben vedi quanto importi l’andar guardingo nel conservarlo, onde non abbia per cagion nostra ad essere guasto, e scommesso. Nulla fa scordare all’infermo la sua malattia, e poco gli giova, o il conforta lo starsi su dorato letto corcato, il vedersi molti familiari dattorno, che pendano da’ suoi cenni, o il saper che i ferrati scrigni di pallid’oro ridondino. Come le più saporite vivande, che servongli d’alimento, cangiansi in succhi corrotti, così gli oggetti li più graditi altro non fanno, che accrescere la sua sciagura. Ben sai quanto impercettibili siensi le anella, che la nostra anima al corpo congiungono, e ben ti è nota la stretta relazione che fra l’una, e l’altro vi passi, onde poterne agevolmente dedurre, quanto rilevi a render quella felice, il vigore, e l’equilibrio di questo. Quindi conoscerai quanto mal consigliati siensi que’ giovanetti, che vanno superbi di loro scostumatezze, ed osan poi accagionare natura di que’ mali, che alla loro disordinata condotta dovrebbero soltanto rimproverare. Agli occhi del saggio, dessi sono oggetto miserabile di pietà, non sapendo come trarli del fango in cui stannosi sepolti, poichè ostinati sono in non volersi guardare, quasi pur temessero di finalmente conoscere, quanto lontani si trovano dal vero cammino, che conduce alla felicità.
E da queste passioni a quella passando, che c’induce ad amar le ricchezze, io converrò volentieri, che non si potrà biasimarla, sinchè limitata alla semplice soddisfazione de’ fisici bisogni, e de’ civili eziandio, diventati oggidì al par di quelli imperiosi, non renda però l’uomo ingiusto verso se stesso, persuadendogli di sagrificare il piacere presente al futuro, nè verso gli altri, siasi spingendolo a sottrarre avidamente il danaro dalla circolazione, e scemar quindi, ed impoverire il pubblico patrimonio, siasi costringendolo ad usare ogni maniera di vile astuzia, onde toglierlo altrui; più cupido in ciò di soddisfare alla sua sete inestinguibile, che tenero del suo onore, e della sua fama. Ma chi sa, quanto sia difficile il far delle ricchezze un buon uso, si guarda bene dall’agognarne con disordinato appetito il possedimento. Il conoscere, come venga più facile assai l’accumularle, che servirsene senza oltraggiare la virtù, e la ragione, ben lo distoglie da una passione, che altro non fa in generale quantunque appagata, che accrescere gli stromenti dell’infelicità. Le travagliose inquietudini sogliono più spesso aleggiare intorno ai tetti dorati, che visitare la sottil mensa del laborioso colono, e sturbare i sonni leggeri d’innocente pastorella. Invano tenta il ricco di sfuggirle, varie regioni discorrendo per illustri ingegni famose, ingentilite da ogni maniera di utile insegnamento, celebri per monumenti dall’arti liberali innalzati, e liete di deliziose, ed amene situazioni. Desse, sull’ali veloci, ed instancabili librate, ovunque lo perseguitano, o che nera nave dal soffio d’Euro sospinta lo accolga, o prema il dorso di generoso destriero. Non isfugge se stesso, chi se stesso trasporta sotto cielo da diverso sole riscaldato; e questo stesso irrequieto desiderio di cercar nuovi paesi, pruova sovente l’infermità dell’animo di chi lo nutre. L’uomo che non sa pacatamente, ed attentamente contemplare se stesso, o farlo non puote con intrepida faccia, s’assomiglia all’infermo, il quale non osa guardare l’ulcera che lo rode, o che se pure la mira, tutto si tinge del color della morte. Ben stolto è colui, che il vile danaro crede rappresentare i più soavi diletti, ed i più cari sentimenti dell’anima, e stima che i fisici piaceri, l’estimazion pubblica, e persino l’amicizia corrano dietro allo splendore dell’oro, e lunge rifuggano dalla squallida povertà. Oh lui fortunato, se di cotale illusione potesse andarne il suo cuore convinto! Ma chi non sa, che i piaceri de’ sensi esclusivamente appartengono a coloro, sulle cui guance il lume di giovanezza risplende, che la vera estimazione è le più volte tributata all’uomo onesto, all’ingegno perspicace, all’animo vigoroso, e che l’amicizia sentimento libero, nobile, e divino sdegna soggiornare fra marmoree colonne, ed ama piuttosto del saggio il modesto ritiro?
Non creder pertanto, che s’io non appruovo chi la sua vita consuma per accumulare ricchezze, voglia per questo far l’apologia di coloro, che scellerati, e crudeli verso i loro parenti, ed ingiusti verso i loro creditori, pazzamente scialacquano il paterno retaggio. La prodigalità è da sfuggirsi, quanto il soverchio amor del danaro. Amendue questi vizi ci rendono infelici, l’uno consigliandoci a sagrificare il piacere presente a quello avvenire, l’altro al futuro bene il presente anteponendo. Per lo che, qualunque siasi la tua condizione non ti logorare per renderla più avvantaggiata, ma non lasciarti nemmeno sedurre dai fantasmi della tua immaginazione per impoverirla. Fa un uso ragionevole di quelle ricchezze, che ti ha concesse il destino, e consacra sull’ara della carità, quanto ti venisse fatto sottrarre all’inutile lusso.
Ma ben più di questa passione può tornar quella fatale alla società, che spinge l’uomo ad essere ambizioso, quando ad utile scopo non venga rivolta. Li suoi effetti sono tanto più terribili, e funesti, quantochè dessa non alberga, che in anime fortemente temprate, e destinate a compiere le imprese le più malagevoli, ed incerte, che generose s’appellano, se la pubblica felicità favoriscono, e scellerate, se l’ordine sociale scompongono. L’ambizione nasce dal bisogno, che ha l’uomo di sopravvivere a se stesso, quasi sdegnoso, che la sua esistenza tra sì angusti limiti si trovi circoscritta. Noi dobbiamo a questo bisogno onnipossente, come tutte le azioni magnanime che le umane gesta onorarono, così tutte le sublimi scelleraggini, per cui divisi travagliati e diserti furono in ogni tempo li miseri abitatori di cotesto pianeta. A lui grazie sien rese, o se gli scritti d’illustri ingegni s’ammirano, o se le sagge leggi s’onorano, o se immortali monumenti sorgono a comprenderci di maraviglia, e di riverenza; ma la nostra esecrazione abbiasi soltanto, se con mille errori ingegnosi si fa gli umani intelletti a traviare, o con tirannica legislazione di consacrare il delitto procaccia, o con inutili quantunque giganteschi monumenti si studia, di mandare all’età più rimote, la memoria del pazzo orgoglio de’ principi, come della vile schiavitù delle regnate nazioni.
Questo sublime bisogno fu il possente stimolo, che indusse i trecento Lacedemoni a perir da forti alle Termopile, unico esempio, e memorando di patria carità; questo rinfrancò il core nel petto al saggio figlio di Sofronisco, allorchè l’avvelenata bevanda all’innocenti sue labbra appressava, e con intrepida faccia e serena, quantunque da’ suoi discepoli piangenti accerchiato, suggellava con alto morire l’incontaminata sua vita; questo infuse ad Attilio l’ardito, e nobile divisamento di preferire i tormenti, che il crudo Africano gli apprestava, a’ teneri amplessi della dolente consorte di sua sciagura presaga, ed alle lagrime degl’ignari pargoletti. Ma desso fu parimente, che armò la destra di Pisistrato contro lui stesso inumana, solo per ridurre a servaggio li suoi concittadini, e gettare sossopra la libera costituzione, che Solone avea data alla sua patria; desso, che, del braccio sagrilego di Erostrato servendosi, slanciò nel tempio d’Efeso le fiaccole distruggitrici, che arsero quella mole più ancor maravigliosa pel stupendo suo magistero, che per la sua enorme grandezza; desso fu finalmente, che istigò Cariolano, Mario, Silla, Cesare, e mill’altri, o a portar l’armi contro la loro patria, o a stringer di ferri servili quelli uominiFonte/commento: Pagina:Saggio sulla felicità.djvu/61, che lo stesso cielo vide a nascere, che accolse lo stesso tetto ospitale, e che da’ vincoli più cari, e più sacri erano con esso loro legati. Ma, ed a che mai discendo io a ragionarti particolarmente in cotanto subbietto, che se svolger volessi, mi sarebbe mestieri tesserti la storia sì dell’umane virtù, che degli umani delirj, e che se pretendessi in pochi cenni ristringere, non meno ardua impresa tenterei, che se mi studiassi di far capire in piccolo vasello l’acque abbondanti di un fiume?
Il solo mio scopo nell’avertene fatto questo cenno brevissimo, quello si è stato, di trarne l’importante conseguenza, che l’uomo prima di accogliere nel suo seno l’ambiziosa cupidigia, deve attentamente esaminare se stesso, sì per non rendersi infelice, come per non essere stromento fatale di sciagure, e di miserie alla sua patria. Egli renderebbe se stesso infelice, se, mal consultate le forze del suo animo, e del suo intelletto, si facesse ad assumere qualche incarico, che le sue limitate facoltà sorpassando, fosse quindi costretto ad obbrobriosamente abbandonare; e renderebbe non solo se stesso infelice, ma li suoi concittadini eziandio, se forze avendo bastanti, e di core, e d’ingegno, pure da pessima indole sospinto, si lasciasse sedurre ad impiegarle in pubblico detrimento. Ora dall’esame di se stesso ne risulterebbe nel primo caso, che l’uomo non dando ascolto alla voce di un falso bisogno, noi non lo vedressimo sì sorvente usurpare il posto al verace merito dovuto; e nel secondo, che le anime da forti passioni commosse, studierebbonsi di dirigere questi principj di azione, che invano tenterebbono di annientare, al retto fine di giovare alla società.
Ciò premesso io dico, che l’ambizione può rendere li più utili servigj all’incremento della sociale felicità, ch’è l’effetto, e l’aggregato di tutte le parziali condizioni più o meno felici degl’individui, che la compongono; e che l’amor della pubblica stima della gloria, e della fama deve essere negli umani petti promosso, siccome quello ch’è cagione d’ogni alto fatto, e magnanimo, e senza cui nessun popolo è stato al di fuori temuto, internamente regolato, e per ogni guisa di utile disciplina ingentilito. Coloro dunque, nelle cui vene tutto il sangue ribolle all’aspetto di guerresco apparecchio, e nel cui seno per feroce gioja il cuore rimbalza al risuonar di bellica tromba orror delle madri, rivolgan tosto i lor passi verso il luogo, che l’amore di gloria loro addita; non indugino a sovvenire la patria di que’ soccorsi, che in atto dolcemente imperioso loro domanda, e non riedano fra i cari suoi amplessi, se non cinti d’alloro pegno della vittoria, e d’onorate cicatrici coperti non dubbj testimonj del loro valore. Rafforzino sempre più i loro animi cogl’illustri esempli de’ trapassati. Che se benaugurato fremito scuoterà loro le fibre nel leggere le gesta degli uomini in guerra famosi, che se l’alto proposto faranno con esso loro di non omettere sforzo alcuno per imitarli, forse che loro pur sarà dato di vedere un giorno i loro nomi scritti nell’immortale volume della fama.
Ma se debole complessione, o civili riguardi non permetton loro di battere sì nobile carriera, e pur nutrano nel seno l’irrequieta brama di gloria, rivolgano tosto tutte le loro sollicitudini alle più miti arti liberali, alle scienze severe, o alle sante lettere, che queste, e quelle spargono di fior sempre verdi, e tornar fanno ai loro solerti cultori, oltre il natural costume deliziosa, ed amena l’umana condizione. Oh com’è degna d’invidia la sorte di quegli esseri gentili, che sino dagli anni più teneri si consacrano al culto delle vergini Muse, e della dotta Minerva! S’egli è vero, che la vita è un sogno, che tutto quaggiù è chimera ed illusione, beato colui, che ridenti illusioni, e lieti sogni saprà procacciarsi! Sì, ben mille volte avventurato si chiami, chi lontano dal tumulto delle malnate passioni, chi dimentico de’ mali recati all’umanità dal pazzo orgoglio de’ pochi, e dall’ignoranza de’ molti, sa abbellire la romita sua stanza di fresche erbette, cui notturna rugiada rende di color mille risplendenti, d’acque che con soave susurro sgorgano da cava rupe a nera elce sottoposta, e sa sì vivamente accendere la sua immaginativa, che in quel suo tacito ritiro gli sembri d’ascoltare gl’innocenti colloquj di Dafni, e di Cloe, che de’ loro amori semplici, e puri vadano ragionando!
O immaginazione, dono celeste all’uomo sensibile accordato dal sommo Creator delle cose, per compensarlo de’ mali ignoti agli animi vulgari: tu, che popoli il vuoto spazio di esseri fantastici; che rendi l’uomo d’oggidì contemporaneo delle nazioni illustri, le quali più non esistono che nella sua memoria: tu, che di sfera in sfera tutte le porte gli schiudi, tutte le vie gli additi del firmamento, e lo nabissi poi tutt’a un tratto nel tenebroso regno dell’ombre, di cui rischiari de’ tuoi raggi ogni più recondita latebra: o immaginazione, tu se’ sì quella divina facoltà, che con benaugurata forza spingi l’uomo dabbene a sovvenire l’indigente, a confortar l’infelice, ed a spargere lagrime soavi all’udir le triste avventure, o d’amorosa donzella tradita, o di madre sull’incerto destino dell’amata sua prole palpitante, o d’uomo forte e magnanimo, cui avversa fortuna armi d’acuto ferro la destra, e lo costririga ad infierire contro se stesso, mal potendo più oltre tollerare la somma enorme delle sue sciagure! Oh qual pura voluttà sparge d’ineffabile dolcezza questo pianto, che tu esprimi da’ cuori gentili, le cui fibre sono temprate a ricevere le dolci impressioni, che loro vengono recate da nobile, e puro sentimento di compassione! Taccia la Diva che alle danze presiede, e non mi vanti i piaceri ch’ella procaccia. Una sola stilla di questo pianto soave, rende l’uomo ben più felice, che la folle gioja per cui dessa mena orgoglio cotanto; gioja menzognera, che solo stassi dipinta sui volti, e che punto non vale a calmare l’agitazione degli animi lacerati dalle cure mordaci.
Ma questo dono prezioso, che ci fa vivere in un mondo ideale, e ci trae del fango in cui stiamo sepolti per farci pruovare le forti, e gradite sensazioni, che derivano dall’idea di una bellezza sovraumana, e di una virtude sublime, questo dono deve essere coltivato colla lettura degli scritti sublimi de’ sommi ingegni, quando non si voglia che inutile rimanga del tutto, sì per la nostra felicità, che per la nostra gloria. Egli non è punto dissimile da pianta gentile, ed in gran pregio tenuta, o per gli odorosi suoi fiori, o per le squisite sue frutta, cui non basta collocare in adattato terreno, ma conviene eziandio cavarvi all’uopo col sarchio l’erbe inutili che la circondano, difenderla dalle brumali intemperie, e ristorarla d’acqua ne’ bollenti ardori della state; poichè altramenti inselvatichita, l’aspettazione defrauda dell’indolente colono. L’uomo, che a sì nobile occupazione si dedica, trae non solo qualche compenso dalla speranza di poter un giorno saziare l’ardente brama di gloria, che alla fatica gli serve di sprone; ma gli è parimente di non tenue conforto il poter dire a se stesso, che se pur dovessero tutti li suoi sforzi tornargli inutili, che ciò nullostante, essi gli avrebbero procacciato almeno altrettante ore felici, quante pieno l’animo, e la mente del suo lodevole proposto, ne avesse impiegate, talmente immerso nello studio, e nella contemplazione, che quasi scordato si fosse dell’esistenza.
Ciò ch’io dico rispetto alle lettere, che all’impero appartengono dell’immaginazione, è applicabile pressochè interamente alle scienze severe, che sono frutto, ed alimento della ragione calcolatrice. Se quelle hanno de’ vantaggj sovra di queste, per l’amenità di cui sono sparsi li loro studj, non lasciano queste di compensare largamente i loro discepoli co’ piaceri, che risultano, e dall’idea della superata difficoltà, e più ancora dalla certezza di un costante avvanzamento nello studio intrapreso; mentre le prime amano sotto tale riguardo di lasciare i loro alunni nel dubbio, e nell’oscurità.
Eccoti, o figlio, adombrata l’idea di quella felicità, di cui possono esser sorgenti gli ambiziosi bisogni, quando a retto fine sieno rivolti. Ma, ti ripeto, va guardingo nell’ascoltarli, e bada spezialmente, che tu non prenda in iscambio la vanità per l’ambizione. Quella snervata, e donnesca passione tu la ravviserai allo sciocco desiderio di far altrui credere di praticare delle virtù che non conosce, all’attribuirsi un merito che non possiede, all’invidia che la tormenta, alla gelosia che la perseguita, e finalmente all’esser paga apparenze della stima, e del tributo di una bassa adulazione, non avendo l’animo grande abbastanza da collocare in luogo più eminente li suoi desiderj.
Abbiti sempre presente alla memoria, che se degno di lode di ammirazione, e di amore si è colui, che mosso da nobile bisogno di gloria sa tollerare paziente la fatica, sa dispreggiare intrepido il periglio, e sa guardare con occhio fermo, ed imperturbato il dolore, e la morte; che d’abborrimento, e d’odio implacabile soltanto è degno colui, che, calpestando i vincoli più sacri, facendosi giuoco de’ più rispettati doveri, ed avendo persino in non cale la patria tranquillità, pieno di mal talento corra ove funesta, e ribollente cupidigia di fama lo strascini, e s’apra disperatamente un varco per giungere alla desiata sua meta, a costo eziandio di contaminarlo di delitti, e lordarlo di sangue. Cotal uomo, ch’io detesto ben più che non ammiro, non isperi giammai di trovar sulla terra la mal sperata felicità, per quanto agli altri mortali di ricchezze, di forza, e di gloria sovrasti. Le atroci inquietudini, i cocenti rimorsi, e il pallido timore sempre gli saranno compagni, ed il sonno leggere sfuggirà dalle soglie abitate dal delitto. Che giova l’adagiarsi sovra letto di rose, se da sottile capello pende sul capo sguainata la spada? Crede forse costui, che quantunque tardo pur non lo attenda il meritato gastigo? Crede forse, che novella esistenza, non debba avere la poca terra, che lo informa oggidì, quando per mano di morte verrà altramenti modificata? Se tale si è la sua speranza, sarà delusa. Noi tutti corriamo ad una stessa meta. L’urna capace s’agita per tutti imparziale, ed essa di tutti il nome contiene. La pallida morte batte con pari piede alla porta del ricco, nelle cui estese campagne pascono innumerevoli gli armenti, ed all’umile capanna del villanello, che fra gli stenti, e i sudori si procaccia lo scarso alimento. Quantunque penda irresoluta ragione, pure il sentimento dal profondo del cuore ci grida, che la nostra anima è immortale, che vi ha un Dio buono premiatore dell’uomo dabbene, ed un Dio giusto punitore dello scellerato. Non è possibile, che la sede di affetti sì nobili, e gentili, che un cuore il qual sembra nato sol per amare, che felice soltanto allora si chiama, che può porgere qualche sollievo all’infelice, no non è possibile, che un essere sì dagli altri tutti diverso, che tanto gli avvanza in sottigliezza d’ingegno, ed in sensibilità di animo, abbia da essere condannato dopo brev’ora di vita a ritornare eternamente nel silenzio del nulla.
Ma lasciando di più ragionare dell’ambizione, veniamo ora ad esaminare la non men forte, e più comune passione, che nasce dal bisogno d’amare, ed osserviamo prima di tutto, siccome cangi d’essenza, e di nome col cangiare d’oggetto. Dessa per lo più amore si chiama, quando fra esseri della stessa spezie, e di sesso diverso s’alimenti, ed amicizia, se al medesimo sesso appartengono. Quello a guisa di tarlo irrequieto con sorda lima i nostri cuori corrode, e quasi foco febbrile gli agita, e tormenta; questa invece sparge di un balsamo soave le piaghe aperte dall’avverso destino, e qual scorta fedele, e discreta ci guida al tempio della virtude per istrada più agevole, e meno iscoscesa. E siccome a mal esperto nocchiero, che pur voglia commettersi alla balia dell’onde, ed al furor degli Aquiloni, quantunque tenue conforto, speri trar nel periglio dalla poca sua scienza, siccome giova l’additargli piuttosto quali secche abbia ad ischivare, e da quali scogli debba più star lontano, anzichè indicargli qual piaggia sia più ridente, e qual città più popolosa; non altramenti amo io meglio ragionarti prima della passione, che dovrai sfuggire quasi scoglio, e guado arenoso, per parlarti poi brevemente del nobile sentimento, che gli animi umani alla scambievole benevolenza compone.
L’amore quantunque oggidì derivi piuttosto da un bisogno morale, che fisico, non lascia però di aver tuttora per base il voto generale della natura, che spinge con forza onnipossente, ed irresistibile gli esseri tutti della stessa spezie ad accoppiarsi; per cui solo vanno ad essere rinnovate le generazioni, e quindi a compiersi gli eterni voleri. Lascio per brevità di favellarti di tal passione vista fisicamente, e farotti soltanto alcune riflessioni sui mali, che da lei ne derivano moralmente considerandola. Che se dessa a cuor gentile s’apprende, quale non si è mai il turbamento in cui pone la sua ragione? In qual guisa non disvia da’ suoi uffizj il retto giudizio? Come non intorpidisce il suo intelletto, rivolgendo tutte le sue facoltà ad occuparsi di ciò, che forma lo scopo de’ suoi desiderj? In lui tutto diviene cura d’amore, e l’uomo primiero più non si conosce. Addio geniali occupazioni, voi più non gli recate alcun diletto: addio innocenti trattenimenti, voi gli venite nojosi: addio beata tranquillità dell’animo, addio pura, ed ilare letizia, voi più non siete per lui, che nomi vani, e privi di senso. Quale, ne’ suoi dintorni, havvi più romita piaggia, e solitaria, dessa sola lo vede errar quà e là smanioso, e corrucciato, traendo del core spessi, e flebili sospiri. La notte, allorchè tutte dormon le cose, ed il placido sonno sparge di dolce obblio le sciagure de’ mortali, la notte non men del giorno crudele, niuna tregua concede alle sue ambasce. Egli va stancando senza bassar palpebra or l’una or l’altra sponda del letto, niuno trovando a’ suoi mali conforto. Intanto inutile alla sua famiglia, ed alla sua patria, segno miserabile della compassione de’ suoi amici, e del biasimo di chi con animo pacato i suoi delirj contempla, egli avvilisce la sua riputazione, scema il suo patrimonio, e logora la sua salute.
Ma come mai (subitanamente, e caldamente interrompendolo diss’io) come mai è possibile, che Iddio con sì improvvido consiglio abbia collocato ne’ nostri petti questa forza ineluttabile, se dessa dovea sotto le insidiose apparenze del piacere gettarci inesorabilmente in braccio del dolore il più tormentoso? So anch’io quanto atroci sieno le pene da cui vengono afflitti que’ cuori, che si fanno d’amore seguaci; ma non ignoro eziandio, che le più pure dolcezze bene spesso a quelle succedono. So, che sovente è del delitto compagno. Io lo abborro, o quando si fa seduttore d’innocente verginella, o quando nell’orror della notte i maritali letti contamina, o quando per gelosa rabbia reso feroce, medita di diventare scellerato contro chi poco anzi avea stretto fra teneri amplessi; ma quando si fa sprone d’azioni magnanime, o quando i mortali consiglia a perfezionar loro stessi, io l’onoro, e quasi divina emanazione degno di culto lo reputo. Perdona, o padre (che ben con tal nome devo chiamare, chi a’ miei mali si è mostrato sì pietoso) perdona, se in tale argomento non posso del tutto convenire nella tua opinione; ed affinchè tu non creda, che ciò sia senza verun fondamento, piacciati di tornarti alla memoria que’ secoli, in cui l’ignoranza, e la superstizione tennero dell’Europa l’impero; di que’ secoli, in cui gli uomini ambiziosi cotanta credulità trovavano ne’ loro contemporanei avviliti dalla schiavitù, che questi stimavano, stolti, di acquistarsi l’eterna salute, i patrii lari disertando, ed andandone, coperti di doppia maglia, ed armati di ferro, e di furore, a portar guerra implacabile ad una nazione tranquilla, che mal poteva comprendere qual frenesia gli avesse consigliati ad abborrire, e combattere chi niuno motivo loro ne avea somministrato. Ben sai, che chiuso stavasi allora il tempio di Temi, e che la Diva augusta si vedeva in atto di sdegno starsi da un lato inoperose le sue bilance, e dall’altro polverosi li suoi dotti volumi: mentre la forza brutale avea inalberati i suoi vessilli, ed ogni più sagro diritto sovvertito, e confuso. In quella notte sì caliginosa solo amore lasciò trapelare qualche raggio di virtù. Amore, reso più forte dalla stessa durezza di que’ costumi, e più violento per le sempre rinascenti difficoltà, s’era fatto consigliero di azioni generose, e spingeva gli eroi a farsi campioni dell’innocenza, e della debolezza. L’oppressore, lo scellerato, il tiranno trovavano tanti nemici, quanti v’aveano cuori riscaldati dalla possente sua fiamma. La bellezza era il premio della virtù, La passione amorosa diventata più nobile, più sublime, e più magnanima pareva da Dio accordata sì pura a quelle generazioni, in compenso di tanta infelicità, che loro derivava, e dalla nequizia de’ loro governi, e da’ pregiudizj innumerevoli da cui andavano infette.
Ma, che vo io annoverando li prodigj da sì gentile passione operati nelle passate età, come se tuttodì essa pur non agitasse le nostre fibre, non spignesse tuttavia gli uomini ad azioni forti, e generose, e non li ritraesse ancora sdegnosa dalle vili, ed abiette? E qual havvi pruova più convincente del retto fine cui essa è destinata, che il vederla abborrire costantemente di stanzare nell’anime vulgari, ed eleggere invece per suo soggiorno quelle sole, che ingentilite dallo studio solerte, e dal meditare tenace fremono d’orrore all’aspetto d’atto sozzo, ed infame, palpitano per gioja soave all’udir fatto magnanimo, piangono pietose all’altrui pianto, e nulla lasciano intentato per dare all’infelice conforto? Questi soli sono gli esseri, cui amore fa degni degl’infocati suoi strali. Chi nutre un cuore di ferro, chi è sordo alle grida della compassione, non tema. Egli avrà l’amore sulle labbra, ed albergherà nel suo petto la sonnacchiosa indifferenza. Ben mille volte beati coloro, cui scambievole, pura, e nobile fiamma tragge ad amarsi! Oh ben degni d’invidia, poichè in voi cresce con la stima l’amore, ed il bisogno della stima ad essere virtuosi vi consiglia! Qual azione magnanima verrà ardua ad eseguirsi per colui, che sempre si veda dinanzi l’inestimabile premio della stima di quell’essere adorato, per cui soltanto gli è cara l’esistenza? Quali progressi non farà egli nelle lettere, e nelle scienze, e qual fama non sarà per acquistarsi, quando sempre abbia presenti le sue lodi, che di sprone gli servano all’inamabile fatica? Quanto infine non sarà retta, saggia, ed irreprensibile la sua condotta, se temerà non pur dell’azioni, ma del pensiero contaminare la purezza della fiamma che nutre?
Figlio (ripres’egli) pur troppo fallaci sonosi questi tuoi pensamenti. Io non gli so appruovare; ed anzi li reputo illusioni, che albergano nelle menti soltanto di coloro, che nutrendo anime gentili, e temprate alla virtù, sperano quindi di trovare agevolmente in altrui quelle qualità, di cui essi si sentono capaci. L’amore di cui tu m’hai fatta la dipintura di rado si mostra su questa terra, e sull’agili penne librato sfugge da questo asilo del vizio, e delle basse passioni. A mio credere egli abita sfera di questa ben più fortunata; e forse sarà egli riserbato a premiare un giorno colassù in cielo quelli esseri, per cui furono costantemente le leggi sante di virtude onorate quaggiù, ed osservate. Non lusingarti quindi di assaporare per ora di un frutto, che mille impedimenti, e difficoltà rendono vietato; e bada, che pur volendo ostinato tentarne l’impresa, che tu non accolga imprudentemente nel tuo seno lo strale scagliato dalla bellezza del volto, più che da quella dell’animo. Rivolgi invece le tue cure all’amicizia, ed in quella le tue speranze riponi. Ti appaga de’ piaceri ch’essa sarà per compartirti, i quali benchè meno intensi, ti procaccieranno nulladimeno quella felicità, che indarno avresti chiesta ad amore.
Se hai bisogno di un sostegno alla tua debolezza, se credi di alleviare i tuoi mali versandone il soverchio nell’altrui cuore, va in traccia di un amico, che d’indole, di principj, e di volontà ti somigli. Non ti verrà difficile il ritrovarlo, se veramente nutri un’anima sensibile, se questo tuo bisogno d’amare parte dal profondo del cuore, e non sia piuttosto un inganno della mente, che sotto aspetto bugiardo te a te stesso raffiguri. Apri all’amico le porte tutte della tua anima, e lo risguarda come un altro te stesso. Fa, che il sospetto non diminuisca giammai la tua confidenza. Bene spesso si consiglia ad ingannare, temendo di essere ingannato; la diffidenza autorizza l’infedeltà. Infelice l’uomo, che non può mai essere deluso! Procaccia, che il tuo amico non abbia mestieri di ricorrere alla tua beneficenza. De’ servigi di poco momento alimentano l’amicizia, ma talora il peso della gratitudine la distrugge. Non è perciò, che tu non debba sovvenire l’amico quando n’abbisogni; ma tu lo farai per tal guisa da persuaderlo, che tu solo gli devi esser grato, poichè ti ha voluto porgere la bella occasione di giovargli.
Che se da vera amicizia altro vantaggio tu non fossi per ritrarne, che la forza d’animo necessaria per resistere generosamente agli attacchi del timore, di quell’affezione inquieta, che tutti i nostri piaceri contamina, ed è cagion principale de’ più gravi nostri dolori, s’altro vantaggio non dovesse derivartene, questo solo ben merita, che tu ponga ogni tua sollicitudine in cercare chi de’ suoi consigli, e del suo esempio possa confortarti. Il primo uffizio di virtude il più essenziale, il più nobile, ed il più arduo, quello si è di rafforzare gli animi contro questo possente nemico; quindi dovere di verace amicizia l’agevolare a virtude il conseguimento di sì lodevole scopo. Tutti gl’insegnamenti che sinora ti ho dati, tutti inutili tornerebbono alla tua felicità, quando tu non sapessi sì alto sollevare il tuo animo da mirare intrepido il dolore, e la morte.
Non creder per questo ch’io voglia, seguendo la dottrina degli Stoici, rendere il tuo petto affatto insensibile al timore, contrastando in tal guisa alle leggi di natura il loro impero. Io per me non credo, che per togliere il timore della morte, basti il dire con essi, che non s’abbia a temere la perdita di cosa, che non può esser seguita da rammarico, ed il pretendere, che s’abbia a far tacere del tutto la natural ripugnanza allo cessare di esistere, sentita più o meno fortemente da tutti gli esseri, riflettendo, ch’egli è irragionevole il corrucciarsi prima che giunga il nostro fine, e poich’è giunto, essere impossibile il farlo. Se così agevole si fosse, com’essi pur vorrebbono farci a credere il morire da forti, no non sarebbono saliti a sì alto grado di gloria, quelli eroi, che alla patria salvezza la loro esistenza, generosi, sagrificarono. Riducendo al nulla il timor della morte, altro non si fa a mio credere, che togliere alla virtù il merito di mostrarvisi superiore, e quindi scemare negli uomini la brama di conseguirlo, scemando in loro la speranza della gloria premiatrice.
Io chiedo invece, che per forza di ragionamento, tu ti studj di spogliare il timore di tutte quelle illusioni, di cui lo veste la nostra immaginazione, e procacci di rendere sì forte il tuo animo, che vinto non resti da quanto vi ha in esso di reale. Pur troppo l’immaginazione stessa, che poco anzi ti ho dipinta qual sorgente inesausta de’ nostri piaceri li più puri, accresce invece a dismisura la somma de’ nostri mali, quando dalla ragione non venga frenata.
Il timore altro non è per se stesso, che una sensazione dolorosa generata dalla probabilità di futuro avvenimento spiacevole. Parrebbe quindi, che questa sensazione dovesse costantemente corrispondere alla maggior o minor probabilità dell’avvenimento, ed alla maggiore o minore intensione del dolore imminente. Che se poi la misura della sensazion dolorosa, non si troverà proporzionata a siffatte cause reali, e positive, l’eccesso sarà per certo l’effetto di cause immaginarie, ed effimere; conseguentemente dovrà dalla sana ragione essere sceverato, e siccome illusorio sbandito, ed annientato.
Ridotto per tal guisa il timore alla sua giusta importanza, conviene adesso esaminare con quali armi s’abbia a combattere. Ecco ciò che deve essere lo scopo della virtù, ossia di quella forza onnipossente, che Iddio ci ha soffiata assieme colla vita, forza ch’è sorgente illustre della generosità dell’animo, prerogativa la più necessaria in ogni sociale condizione, o che l’uomo aneli di procacciarsi felicità, o che alla patria render voglia qualche utile servigio. Chi teme la morte vive del pari infelice tra i perigli dell’armi, tra le cure tumultuose delle corti, ed all’ombra ospitale delle giovani selve sacre alle Muse. L’esistenza non può tornare di alcun diletto per colui, che sempre palpiti per timore di perderla. D’altronde la gloria verace sfugge l’aspetto del vile. Tutte le azioni magnanime son figlie di cuori generosi, e di petti virili, che hanno saputo fortemente spreggiare il dolore, e la morte. Le sante lettere istesse abborrono d’esser coltivate da colui, che capace non sia di affrontare que’ perigli, che far voglia subbietto de’ suoi carmi. Chi nutre l’animo basso di Tersite mal saprebbe cantare l’ira fatale d’Achille. Per persuadere altamente, conviene altamente sentire. Tirteo imbrandiva colla stessa destra l’acciaro, che dovea condurre i Laconi alla vittoria, con cui poco anzi avea dettato l’inno marziale, che a pugnare da forti gli eccitava.
Sì, figlio mio, la generosità dell’animo è quella virtude eminente, cui l’uomo deve la nobile difesa de’ suoi più gelosi diritti, e le nazioni intere la ricchezza, lo splendore, e la gloria per cui vanno superbe. Il vile se non è offeso, ciò deriva soltanto, perchè altrui non talenta d’insultarlo; il forte invece, conscio di sua virtude, stassi intrepido eziandio all’aspetto di minaccioso, ed irritato tiranno. Egli si ride dell’ingiustizia degli uomini, e degli aspri rigori di avversa fortuna. Quella strada istessa per cui Bruto e Catone si sottrassero un tempo alla vile schiavitù, quella strada sa ben egli aprirsi, e fare per tal guisa tornar delusi i loro sforzi impossenti. Guai a quelle nazioni, che o troppo avvilite, o troppo corrotte più non onorino sì divina virtude! Tardi per la loro salute s’avvedranno dell’errore funesto; ed intempestivo verrà il loro ravvedimento, allorchè scorgeranno da inimico ferro manomesse le loro contrade, arsi i sagri monumenti in un co’ simulacri dell’imbelli Deità, e portato, per le loro città popolose in trionfo, lo stupro, e la rapina. Il vincitore lascierà loro appena lo scarso conforto di un pianto furtivo. Desse saranno persino costrette barbaramente a gioire, a benedire, ed a laudare a cielo gli autori di quelli stessi delitti, e di quelle stesse abbominazioni, di cui saranno le vittime miserande.
Ma qual vasta tela ho io mai presa ad ordire, e qual intralciato subbietto ad isvolgere in sì poca d’ora? Ciò, di che io t’ho sin adesso ragionato, non è che un cenno brevissimo, rispetto a quello, che avrei dovuto dirti, se voluto avessi trattare a parte a parte materia di cotanto momento. Nulladimeno, perchè affatto inutili non ti vengano questi miei tenui insegnamenti, gli ripeterò ristringendoli brevemente nel dire; che l’umana condizione non è poi sì infelice, che molti riputati filosofi si sono studiati di persuadere; che la virtù procaccia all’uomo quel grado di felicità il più eminente, che sia compatibile con la sua fisica costituzione, e con le sociali combinazioni in cui si trova collocato; che la virtù non consiste nello spegnere del tutto il fuoco delle passioni, ma nel frenare, e dirigere ad utile scopo questi principj d’azione; finalmente, che uffizio di questa stessa virtù, si è il costringere la ragione ad analizzare le sorgenti del timore, onde separarvi tutto ciò che vi ha di chimerico, ed il rinfrancare gli animi, perchè possano mostrarsi più forti di quanto vi ha in esso di reale, o che la felicità individuale lo richieda, o che la pubblica salute lo prescriva.
Se non che, cosa giova co’ detti l’andarti inculcando la pratica di cotesti principj? Conviene invece, ch’essi sieno scritti a caratteri indelebili nel tuo cuore per mano dell’esempio. Torna dunque alla città donde partisti, e fa di appartenere ad una nascente società, che colà si raduna sotto gli auspizj dell’essere, che per le sue virtù si è meritato gli onori divini, e che in questo rustico tempietto si adora. Tu la conoscerai non già a’ riti, non agli emblemi, e non al rigor di sue discipline; ma alla scambievole benevolenza, alla tenera compassione, alla sempre vigile beneficenza, al generoso amor della patria, ed all’esercizio infine di tutte quelle virtù, per cui l’uomo, sortendo dalla sfera comune de’ suoi simili, pare che alla Divinità quasi quasi s’avvicini. Colà del loro esempio tu rafforzerai il tuo cuore, illuminerai de’ loro insegnamenti il tuo intelletto, ed utile emulazione spingeratti a vincere altrui nello stadio lungo, e penoso della virtude. Che se, invece delle morali prerogative, albergasse discordia ne’ loro petti, e questa furia abbominevole le sacre volte del loro tempio contaminasse quà, e là agitando le velenose sue serpi, se lo sdegno, ed il livore di loro faci sanguinose le rischiarassero, ed i nomi santi di amicizia, di benevolenza, di compassione, solo suonassero sulle labbra de’ loro sacerdoti, mentre i loro cuori sozzi n’andassero da ogni viziosa bruttura, figlio dà loro le spalle, e gli sfuggi; dessi sono candidi monimenti, che di fuori mostran begli epitafi scolpiti, e dentro rinserrano il puzzo, e il marciume.