Saggio sulla felicità/Introduzione
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INTRODUZIONE.
Travagliava il Sole nella scorsa estate con sue fiamme moleste gli uomini, e gli animali, e languir faceva sui loro steli chinate l’erbette molli, ed i fiori, quand’io togliendomi alle noje cittadinesche mi consigliai d’andarne tutto solo a soggiornare un’amena villetta, quinci non lontana, lieta di vaghe circostanti colline, di zampillanti ruscelli, e di opache ombre ospitali. Non so s’io v’andassi indotto piuttosto dalla speranza di trovare colà meno cocenti gli ardori, o spinto dalla grave inquietudine, che l’animo mio sì forte agitava, che me a me stesso rendeva insopportabile. La luce della verità non avea per anco rischiarato il mio intelletto, nè il fuoco della virtù aveva ancora purgata la mia anima. Io correva all’impazzata in traccia della felicità, ma non altramenti il faceva del peregrino, che ignaro del verace sentiero, che lo conduca alla meta del suo viaggio, mova per opposta parte i suoi passi, e quindi tanto più da quella si slontani, quanto più di aggiungervi si affretti.
Già il Sole calava all’Occidente, e l’umida notte s’apparecchiava a coprire le cose del tenebroso suo velo. Densi vapori s’alzavano d’ogn’intorno, e cominciavano ormai ad oscurare il cielo di nubi procellose, che forme stravaganti, ed orribili fingendo di chimere, e di larve, facevano impallidire la rosea guancia della semplice, e timorosa villanella. I venti chiusi nelle loro spelonche tacevano, e persino la mobile fronda del candido pioppo non susurrava agitata dall’aura la più lieve. Il gregge mesto, e pauroso riducevasi all’ovile, non stimolato dalla verga temuta, ma per cercarvi un asilo, e l’amorosa rondinella volava impaziente al caro suo nido per rinfrancar nel periglio la tremante sua prole. La profonda quiete era soltanto turbata dal rauco muggito del tuono, che l’eco delle pietrose montagne abitatrice, ripetendo prolungava. I culti campi, gli erbosi pratelli, le ombrose convalli, tutti infine i dintorni eransi cangiati in isquallidi deserti. Io n’era il solo abitatore; io, che atteggiato di nera melanconia, e quasi trasognato, sedeva sulla cima di ameno poggetto, facendo del gomito al capo sostegno, immemore di mia salute, e dell’ira celeste.
Tale, e cotanto si era il turbamento della mia anima, quando mi corse allo sguardo l’aspetto di ruinato castello, reliquia infame del reo abuso della forza, e della più vile sofferenza degli uomini. Quella vista tutti a mente tornommi i delitti, da cui lordate furono quelle mura, che avrieno dovuto sorgere a difesa della patria libertà, e che invece eransi cangiate in istromenti fatali della più abietta, e malvagia tirannide. Pareva, che il fato tolto mi avesse a perseguitare, porgendomi sott’occhio un monumento, che la nequizia mi ricordava delle passate generazioni, quando poco pago della presente, m’era in solitudine ritratto, sperando lontano dagli uomini, di ricovrare la perduta mia pace. Ma indarno aveva io accolta nel mio cuore sì dolce speranza: l’uomo per cangiare di sito non cangia però di passioni. Di vero, in tale vaneggiamento trovavasi immersa la mia mente, e sì debole vampa mandava la fiaccola di mia ragione, ch’io mi credeva scorgere fra quelle rovine l’ombre sdegnose aggirarsi di violate vergini, di madri per gli estinti figli crucciose, di sposi per contaminati letti frementi, e parevami, che con ogni maniera di tormento, espiar facessero le commesse scelleraggini ai loro crudeli oppressori. Io piangeva sulla misera sorte di quegl’infelici, che menarono giorni bagnati di lacrime sotto il ferreo giogo dell’ignoranza, del fanatismo, e della superstizione.... Ma che? son io forse di loro più felice (a me stesso rivolto esclamai) e meco lo è forse questa sì culta sì dotta sì gentile generazione, che ogni disciplina ogni umano provvedimento ha sparso di luce cotanta? Per essersi resa più squisita la sensibilità delle nostre fibre, son esse forse diventate più acconce a ricevere le sensazioni piacevoli, ed a rimuovere le dolorose? Coll’accrescersi de’ nostri bisogni fittizj, si son forse accresciuti in proporzione li mezzi eziandio di appagarli? Dovrò io credere, che il sommo Moderator delle cose, da parziale giudizio guidato, rovesci talora sulla terra l’urna abborrita de’ mali, e che ad epoca più felice, quella riservi de’ beni?
Aveva appena pronunziati questi ultimi detti, che d’improvvisa fiamma vidi il cielo avvampare, ed ascoltai lo scoppio del tuono, che con orribile fracasso tremar fece i colli, e le campagne. Scossemi il core involontaria temenza, e ratto m’alzai per tornarmene a casa; ma ben tosto conobbi, che melo impediva l’orror della notte, fattasi ormai sì oscura, e caliginosa per la vicina procella, che il più sottil raggio di luce non traspariva fuor delle nubi, che il cielo tutto ottenebravano. Perciò m’avvisai di rivolgere i miei passi a non discosto tempietto, onde colà soffermarmi, sinchè tornato sereno l’aere si fosse, e continuar poi senza periglio l’impreso cammino. Vi giunsi appena scortato dall’incerto lume de’ lampi, che dirotta cominciò a cadere la pioggia, e i venti, prima silenziosi, sprigionati allora delle loro spaziose caverne, aspre lotte a combattere s’apprestarono.
Il tumulto della natura quello accresceva della mia anima. I delirj dell’amore, le smanie di sregolata ambizione, i mordaci rimorsi, che il tempo perduto mi rimproveravano, e la conoscenza ancor più crudele di non aver forza bastante d’ammendare il mio fallo, finalmente mille affetti contrarj facevano a pruova orrendo strazio del mio cuore. In tale ambascia passai dal vestibolo nell’interno del tempio, che il fioco lume di tremola lampa mostrommi esser sacro al Divo Giovanni; e rivolto lo sguardo alla sua effigie, che stava appesa nel mezzo della parete in tali accenti proruppi.
Deh, se alla mia voce è dato l’aggiungere sino a te, o cittadino della patria celeste, non isdegna, mosso da quella pietà per cui sì caro ti rendesti a’ tuoi contemporanei, ed a’ tuoi posteri sì rispettato, di rischiarare la mia mente, e trarla della dubitazione in cui stassi avviluppata! Voglimi istruire, se questa felicità, che sempre odo suonare sulle labbra degli uomini, ed il cui balsamo sì di rado ristora le loro anime, siasi un essere reale, o una larva menzognera, che colle sue vaghe sembianze ci alletta avidamente a seguirla, senza che mai ci venga fatto di afferrarla. Dimmi, se come me son tutti gli uomini condannati a vivere nel dolore, ed a non truovare ristoro alle loro sciagure, che nell’obblio dell’esistenza; e quindi costretti sieno ad adorare il sonno quasi nume benefico, che li toglie di mano alle cure laceratrici. Che se tanto infelice essersi dovesse l’umana condizione, che se destinato fosse ch’io viver dovessi in avvenire giorni del pari funesti che li passati, io rivolgo a te le mie più fervide preci, perchè tu m’implori dal sommo Creatore, il termine de’ miei mali, permettendo che il sonno della morte sopisca i miei sensi, e chiuda finalmente alle passioni le porte tutte della mia anima.
Una voce venuta dal lato manco del tempio, interruppe la mia preghiera, ed io fattomi ad ascoltarla pieno di religiosa riverenza, udii pronunziar questi detti. Figlio (diss’ella) tu piangi sulla tua sorte, e non badi che forse l’infelicità di cui tu ti lagni, potrebbe derivare soltanto dall’abuso di quelli stessiFonte/commento: Pagina:Saggio sulla felicità.djvu/61 mezzi, che Dio ti ha accordati per esser felice. La pura felicità non soggiorna sulla terra: dessa non è il retaggio di un essere così imperfetto qual si è l’uomo; non concluderne perciò ch’egli sia dannato a vivere nel dolore. Il dolore è bensì la generale forza determinatrice di ogni nostra azione, senza di cui noi languiressimo nell’inerzia, e ben tosto vedressimo la nostra spezie distrutta, ma il dolore è eziandio il generatore del piacere, meta de’ nostri più vivi, e più cari desiderj. Il piacere per essere un ente negativo, uno stato di tregua, solo di quando in quando dal dolore accordato, egli non ci viene per questo meno gradito, e soave. Ma questo sentimento per esser puro, conviene che sia scevro d’ogni rimorso, e quindi non contaminato dalle macchie del vizio. Se tu vorrai dunque menar giorni più felici, non sarai così ingegnoso nell’accrescere la massa de’ tuoi dolori, non ponendo alcun freno alla tua immaginazione, sopporterai con fortezza d’animo que’ mali, che sono necessarj, ed inevitabili, e non agognerai di procacciarti de’ piaceri, che la virtù, figlia di una illuminata ragione, non possa appruovare. Perdona s’io mi fo a consigliarti, quantunque consiglio chiesto tu non mi avessi. Il tuo aspetto, ed il tuo stesso turbamento m’han fatto credere, che tu nutra un animo gentile, e quindi non sordo alla voce della verità, e dell’esperienza. Il soccorrere altrui di consiglio è un dovere sì caro, e sì sacro per l’uomo sensibile, ch’io mi sarei creduto commettere grave mancamento, se omesso avessi di farlo. Non sono sì prosuntuoso da pensare di averti detto, o di poterti dire cose da te prima ignorate. So quanto sia difficile, e quanto torni sovente malaugurato, il pretendere di guadagnarsi la fama di pensatori originali nella scienza morale, per non nutrire sì stolido orgoglio. Credo però, che giovi talvolta il richiamare alla memoria dell’uomo quelle idee, che quantunque non gli vengano novelle, pure alla sua mente affascinata non si sarebbero presentate se non che stravolte, s’altri non si avesse tolto l’incarico di raccozzarle, onde porgergliele poscia, così ordinate, a considerare. Vedi se questo sia il tuo caso, e fa ch’io senta, se da’ miei detti stimi, che possa venirtene qualche giovamento.
Non sì tosto cessò in me la sorpresa cagionatami dall’udir quella voce in un luogo, dove io mi credea di esser solo, che ravvisai incontanente il saggio dond’essa movea. La sua vecchiezza, che solo venia palesata dal candor de’ capelli, e non già dalla guancia rugosa, che fresca anzi si serbava, nè dalla languidezza dello sguardo, che ancora si era oltramodo vivace, e certa dolce severità, che nel suo sembiante traspariva, oltre all’inusitato vestimento, che più alle greche fogge s’assomigliava, che alle nostrali, melo dierono a conoscere pel solitario abitatore di una cella romita, che sul vicin colle sorgeva; uomo quasi in venerazione presso le genti di quel paese, più ancora per le sue morali prerogative, che per lo suo ingegno, che non potendo essere da loro conosciuto, non poteva quindi essere neppure giustamente pregiato. Io lo conosceva soltanto di veduta. Fantasticando poscia meco stesso, com’egli là si fosse trovato, non seppi in miglior guisa diciferare l’enigma, che supponendo lui essere colà venuto, prima ch’io a guisa di forsennato v’entrassi. Fatto sta, che riavutomi alcun poco, io gli resi quelle grazie, che si convenivano ad un uomo, che, spinto da solo sentimento di pietà, s’era fatto a confortarmi, lasciandomi travedere, quasi lampo nel bujo di notte tenebrosa, che l’uomo, per quanto la sua condizione il comporta, può diventare felice. Desiderando perciò di udire più particolarmente, com’egli su tale importante subbietto sentisse, lo pregai di volermi isvolgere quell’idee, che da lui presentatemi troppo brevemente, così un po’ confuse s’erano affacciate al mio intelletto, offuscato ancora dalla densa nebbia, alzatasi dal fondo del mio cuore agitato.
Poichè dunque ti piace di udire (ripres’egli) quali siensi li miei pensamenti su tale materia, siediti accanto a me, e facciamoci a ragionarne, sinchè diradate le nubi, ci sia concesso alle nostre case il ritornare.