Rime (Gianni)/Prefazione

Prefazione

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Appendice
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PREFAZIONE




I. Le rime di Lapo Gianni, vedono qui per la prima volta la luce in una edizione che è, oso dire, compita. Non dico con ciò che questa stampa contenga cose nuove, qualche lirica inedita; la nostra edizione contiene tutte le rime attribuite a Lapo, comprese quelle che ingiustamente a lui si attribuiscono da alcuni codici, come promettemmo di fare fin dal 1884.1 Da allora in poi è passata molt’acqua sotto il ponte; nè io mi sarei deciso a pubblicare le liriche del notaio fiorentino, che [p. vi modifica]già avevo buttato da una parte, se non per sollecitare l’amico Francesco Guardabassi a pubblicare il suo studio su Chiaro Davanzati, mentre aspetto il libro sul dolce stil novo che ha promesso il signor Giulio Salvadori. Da questi due scritti attendo mi si dimostri come si svolse la nostra lirica del duecento, per vedere se posso (ciò che finora non ho potuto), modificare certe mie idee espresse nel mio studiolo su Lapo, cui fece alcune argute e gentili osservazioni il dott. Annibale Gabrielli.2

II. Comincerò dando la tavola dei codici che contengono rime di Lapo, avvertendo che cito soltanto quei manoscritti che vidi io stesso, o dei quali ebbi sicurissime indicazioni per opera di amici dotti e cortesi:

1. Palatino 180 (sec. xiv).

2. Chigiano l. viii. 305 (sec. xiv).

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3. Vaticano 3214 (sec. xvi).

4. Riccardiano 2846 (sec. xvi).

5. Ashburnamiano 479 (sec. xvi).

6. Medic. Laurenziano inf. xc. 37 (sec. xv).

7. Palatino 204 (sec. xvi).

8. Parigino It. 554 (sec. xvi).

9. Vaticano 3213 (sec. xvi).

10. Codice Pucci, ora smarrito: vedilo descritto dal Fiacchi.

11. Barberiniano xlv. 47 (sec. xv).

12. Parigino It. 7778 (sec. xiv).

13. Panciatichiano 24 (38. iii. 26), (sec. xvi).

14. Laurenz. xl. 49 (sec. xv).

15. Magliabec. vii. 8. 112 (sec. xvi).

16. Magliabec. vii. 7. 1208 (sec. xvi).

17. Bolog. Univ. 2448 (sec. xvi).

18. Corsiniano 94 (sec. xviii).

19. Napolet. Nazion. xiv. 11.16 (sec. xviii).

20. Marciano ix. 292 ital. (sec. xviii).

21. Bergamasco Δ. 37 (sec. xviii).

22. Bol. Universitario 1289 (sec. xvi).

23. Trivulziano 36. già codice Bossi (sec. xvi).

24. Magliabec. vii. 993 (sec xv?).3


Questi codici attribuiscono a Lapo Gianni venti componimenti sulla [p. viii modifica]autenticità dei quali abbiamo discusso altrove e dovremo intrattenerci ancora. La tavola che qui riproduciamo servirà per gli opportuni richiami quando, più avanti, ci intratterremo sul valore dei manoscritti. Intanto diamo l’indice delle rime di Lapo, quali stanno nella nostra edizione; poi l’indice delle principali stampe che contengono rime del Gianni, avvertendo che citiamo soltanto le stampe le quali sono state messe assieme con uno scopo critico, trascurando le altre che contengono frammenti di rime del notaio fiorentino.

Le rime sono:

ABallate


1. Amore, io prego la tua nobiltade.

2. Nel vostro viso angelico amoroso.

3. Gentil donna cortese e di bon’ a’re.

4. Dolce è ’l pensier che mi nutrica il core.

5. Questa rosa novella.

[p. ix modifica]6. Angelica figura novamente.

7. Ballata, poi che ti compuose amore.

8. Io sono Amor che per mia libertate.

9. Amor, io non son degno ricordare.

10. Novella grazia a la novella gioia.

11. Angioletta in sembianza.


BCanzoni


12. Amor nova ed antica vanitate.

13. Donna, se ’l prego de la mente mia.

14. Se tu martoriata mia soffrenza.

15. Siccome i magi a guida della stella.

16. O morte de la vita privatrice.


CSonetti


17. Amor, eo chero mia donna in domino.


DRime incertamente attribuite


18. Amor, i’ veggio ben che tua virtute (canz.)

19. Amor, i’prego ch'alquanto sostegni (canz.)

20. Pelle chiabelle di Di’, non ci arvai (son.)

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Le principali stampe sono queste:

1. Sonetti e canzoni di antichi autori toscani in
               X libri raccolti. Firenze, per li heredi
               di Filippo di Giunta, mdxxvii.

2. Poeti antichi raccolti dai codd. mss. delle
               biblioteche Vaticana e Barberiniana da
               Monsign. Leone Allacci. Napoli, d’Alecci, 1761.

3. Rime antiche di celebri autori toscani le opere
               dei quali sono citate nel Vocabolario della
               Crusca. Firenze, Borgognissanti 1812.

4. Poeti del primo secolo della lingua italiana in
               due libri raccolti. Firenze, 1816.

5. Raccolta di antiche rime toscane. Palermo,
               per Giovanni Assenzio.

6. Il canzoniere Chigiano L. VIII. 305 a cura
               di E. Monaci e E. Molteni. Bologna, Fava
               e Garagnani, 1887. (Estratto dal Propugnatore).

7. Manuale della letteratura italiana dal primo
               secolo, compilato da V. Vannucci. Firenze,
               Barbèra, 1874.

8. Rime di Lapo Gianni, poeta italiano del secolo
               XIII (!!!) saggio di una nuova
               edizione per cura di Giacomo Tropea.
               Roma, Pallotta, 1872.

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9. Rime inedite tratte dal Canz. Vaticano 3214,
               a cura di L. Manzoni. Estratto dalla
               Rivista di Filologia Romanza, Roma,
               Loescher, 1871.

10. Le rime di Cino da Pistoia a cura di S. Ciampi.

11. Una canzone d’amore del sec. XIII, a cura
               di E. Monaci. Imola, Galeati. 1876.

12. Le rime di Folgore da S. Giminiano e di
               Cene dalla Chitarra, a cura di Giulio
               Navone. Bologna, Romagnoli, 1883.


III. Lasciando, per ora, da parte la bibliografia delle rime di Lapo, intratteniamoci un poco sui codici per studiare le relazioni che essi fra loro presentano e aprirci un po’ la strada a quel che dovremo dire sul metodo da noi seguito per la riproduzione di queste rime. Il lettore tenga sott’occhio la nostra Tavola dei manoscritti e delle stampe, ed abbia la pazienza di seguirci.

Non tutti i manoscritti che recano rime di Lapo hanno una uguale importanza, né [p. xii modifica]tutti derivano da una fonte comune. Il Palatino 180, per esempio, che contiene soltanto pochi versi della canzone xii, e il Magi. vii. 993, che attribuisce a Lapo una canzone data da altri testi ad altri rimatori trecentisti, sono manoscritti affatto indipendenti, nè mostrano relazione alcuna con altri testi che recano rime del Gianni. Il più copioso dei codici che ha poesie di Lapo è il Chig. l. viii. 305, codice del secolo xiv, che attribuisce a lui diciassette componimenti, quasi tutto il canzoniere. Ma chi esamini attentamente la nostra tavola, vede che il Vat. 3214, copia eseguita nel sec. xvi di un codice del trecento, contiene tutti i componimenti che il Chigiano attribuisce a Lapo, meno quelli segnati co’ numeri xii, xiv, xvii, xviii-xx; vede che il Riccard. 2846, copia di un altro codice assai più antico, il libro di [p. xiii modifica]Pier del Nero, manca soltanto dei quattro ultimi componimenti; l’Asbhurnamiano 476, infine, ha tutti i componimenti che contiene il Riccard. 2846 meno quello segnato col n. xii. Ora che questi quattro manoscritti derivino da una fonte comune, non si può assolutamente escludere: comuni ad esse sono i componimenti i-xi: il xii manca, ma è ricordato in R, ma manca in A, copia di quest’ultimo codice, e in V; il componimento xiv manca in V. R. A, ma giova osservare che il codice C lo reca come componimento a parte, mentre questi manoscritti lo recano come congedo della canzono xiii; infine è da osservare che la canz. xviii, se manca in V. R. A. è adespota in C. e il son. xx è adespoto nel codice Chigiano, ma è tra rime di Cecco Angiolieri. Ammesso, come dimostreremo nella Appendice, che il cod. A e [p. xiv modifica]il cod. R sono due copie uguali, un esame esteriore del contenuto di questi quattro manoscritti anche, se si vuole, limitato alla sezione di rime di Lapo che essi contengono, induce a far credere che essi siano d’una medesima famiglia e perciò sono a considerarsi come di un sol gruppo, al quale si deve pur aggiungere quel codice Pucci, studiato dal Fiacchi, su cui non è ancora stata detta l’ultima parola.

Deriva invece da un’altra famiglia di codici il Trivulziano 36, che contiene solo nove componimenti e attribuisce a Cino la canz. xviii. Questo codice fu certamente del Bossi, e il Ciampi si servì di esso per la sua stampa delle rime del Pistoiese. Fa famiglia da sè, o, per essere più esatto, io non ho trovato alcun suo parente. Si potrebbe sospettare che abbia avuto origine da uno dei codici del primo gruppo, ma [p. xv modifica]di preciso non possiamo dir nulla, nè potremmo fare altre ricerche in proposito.

Un secondo gruppo di codici è rappresentato dalla raccolta di rime che Lorenzo de’ Medici inviava a Federico d’Aragona. Il Magnifico non accolse di Lapo che tre ballate, e neppur le migliori: sono quelle segnate nella nostra edizione co’ numeri iii, iv, viii e quattro sono le copie di tale raccolta di cui noi abbiamo notizia: il Med. Laur. xc. inf. 37, il Palat. 204, il Vaticano 3213 e il Parig. It. 554, ma quest’ultimo non l’ho visto.

Un terzo gruppo di codici conosciuto col nome di raccolta Bartoliniana, raccolta di qualche importanza e degna di essere studiata, è rappresentato da cinque codici, non molto interessanti per la loro età, giacché alcuno è del secolo xvii. Essi sono: il Bol. Univ. 2448; il Corsiniano 94; il [p. xvi modifica]Napolet. Naz. xiv. 11. 16; il cod. Δ 37 della Bibl. di Bergamo e il Marciano ix. 292. Essi attribuiscono a Lapo due soli componimenti; quelli segnati co’ numeri v e xiv; ma giova avvertire però che il Marciano ix. 292, sebbene copia fedele della raccolta Bartoliniana, pure fa eccezione per le rime di Lapo, e contiene anche quelle della raccolta Aragonese (iii; iv; viii).

Anche d’una famiglia stessa sono certamente i due codici Panciatichiano 24 e Laurenz. xl. 49, che attribuiscono, coll’ordine stesso, al Gianni i componimenti: ii, xii e xx, sebbene quest’ultimo non gli appartenga affatto. Tutti gli altri codici sono indipendenti: il Barber. xlv. 47 è l’unico testo che contenga il son.: Amor eo chero mia donna ’n domino e fu note certamente all’Allacci; i Magliabechiani vii. [p. xvii modifica]8. 112, e vii. 7. 1208, non mostrano punti di contatto con altri codici; il Bol. Univ. 1289 che fu dall’Amadei e si deve completare coi codd. 1773 e 4011 della biblioteca stessa, deriva forse dai testi del Bembo e del Brevio, da cui probabilmente derivano i codd. della raccolta Bartoliniana.

Riassumendo, dei codici del primo gruppo il più autorevole per età e per copia di componimenti è il Chig. l. viii. 305, del secolo xiv, che ha le liriche: i-xiv, xvi, xviii, xx, quasi tutto il canzoniere di Lapo, insomma; dei codici del secondo gruppo, cioè della raccolta Aragonese, il più importante per età e per lezione è il Laurenz. xc. inf. 37; della raccolta Bartoliniana il più importante è il Bol. Univ. 2448.

IV. E vengo alla questione spinosa. Con quali criteri critici abbiamo fermata la [p. xviii modifica]lezione delle rime di Lapo? Come abbiamo proceduto nella scelta delle varianti? Risponderò, per quanto si possa, brevemente.

Tra i molti codici contenenti rime di Lapo Gianni e da noi consultati, il Chig. l. viii. 305 tiene il posto principale: è di scrittura della seconda metà del sec. xiv: è di famiglia toscana, poiché pare provato che egli appartenne ai Salutati; ha la più ricca raccolta di rime del nostro. Ha una importanza maggiore che non il Vaticano 3214, perciò che questo è copia eseguita nel secolo xvi d’un codice assai più antico, e non ha un numero sì copioso di rime del Gianni come il Chigiano. Questo noi teniamo a base della nostra edizione. E per non esser fraintesi diciamo subito che dicendo di tenere per base un codice non intendiamo voglia dire seguirne diplomaticamente la lezione, ma bensì dare la [p. xix modifica]lezione del codice-base, correggendo, coll’aiuto di altri testi, quando la lezione sia evidentemente errata, procurando insomma di riprodurre le dolci rime di Lapo se non nella forma grafica in cui furono scritte, almeno nella lezione più approssimativamente giusta.

Un esempio varrà forse meglio a chiarire il sistema da me seguito nella riproduzione di queste rime, e scelgo perciò la ballata che col nome di Ser Lapo si legge nel Chig. l. viii. 305 a c. 68a e la riproduco nella lezione diplomatica:


Nel uostro uiso angelicho amoroso
    uidi li belli occhi e la luce brunetta
    che nuece di saetta
    mise pe miei lo spirito ueççoso.
Tanto uenne in su abito gentile
    quel nouo spiritel ne la mia mente
    che l chor s allegra de la sua ueduta.
    Dispuose giu l aspecto sengnorile

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    parlando a sensi tanto umilemente
    ch ogni mio spirit allora l saluta.
    Or anno le mie membra canosciuta
    di quel sengnore la sua grande dolçeçça
    e l cor con allegreçça,
    l abraccia poi che l fece uirtuoso.


Poiché gli altri codici che contengono questa ballata non presentano che una sola variante sostanziale (v. 7: veduta-venuta), io mi sono permesso queste varianti, pure procurando di non allontanarmi troppo dal testo: 1° ho sostituito all’u il v, ciò che mi pare permesso dai diplomatisti più severi; 2° ho ridotto a misura i versi, procurando di non variare la collocazione delle parole; 3° ho messi i segni ortografici che quasi sempre mancano nel codice; 4° il gruppo consonantico cho, gha, ngno ridussi alla forma più semplice di co, ga, gno; 5° la consonante palatina che il nostro codice esprime sempre col ç, sia pur essa [p. xxi modifica]sorda o sonora, iniziale o mediana, ridussi sempre alla forma di z. Con questi lievi mutamenti io ritoccai, per la sua parte ortografica, il testo: per la variante al v. 7°: venuta-valuta, mi attenni alla prima, giacché è suggerita dal senso e sostenuta dalla lezione di altri codici. La lezione che ne risulta è questa:


Nel vostro viso angelico amoroso
    vidi i belli occhi e la luce brunetta,
    che ’nvece di saetta
    mise pe’ miei lo spirito vezzoso.
Tanto venne in su’ abito gentile
    quel novo spiritel ne la mia mente
    che ’l cor s’allegra de la sua venuta.
Dispuose giù l’aspetto signorile
    parlando a’ sensi tanto umilemente
    ch’ogni mio spirit’ allora ’l saluta.
Or hanno le mie membra conosciuta
    di quel segnor la sua grande dolcezza,
    e ’l cor con allegrezza
    l’abbraccia, poi che ’l fece virtuoso.

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Così mi sembra di non essermi scostato dal testo se non per ragioni metriche ed ortografiche; così mi sembra d’aver data una lezione giusta ed esatta e non molto lontana da quella che dovette essere originaria.

Questo essendo il sistema da me seguito nella riproduzione delle rime di Lapo, sento anche il dovere di rispondere ad una obbiezione che mi può esser mossa: il poco conto, cioè, che io fo del codice Vat. 3214. Se quest’obbiezione mi fosse mossa, risponderei che i due testi — Chigiano e Vaticano — non presentano altro che delle varianti ortografiche, varianti che, come quelle del testo Chigiano, facilmente si possono ridurre ad una lezione comune. Ed ecco per esempio la canzoncina che col nome del Gianni sta nel Vaticano 3214, a carte 120a: [p. xxiii modifica]

Siccome i magi a guida de le stelle
girono inver le porti d oriente
per adorar lo segnor kera nato
cosi mi guido amore a veder quella
kel giorno amanto prese novamente5
ondogni gentil cor fu salutato.
Idico ki fu poco dimorato
kamor mi confortava non temere
guarda come ella viene humile e piana
quando mirai un poco mera lontana10
allora maforzai per non cadere
il cor divenne morto kera vivo
io uidi lontellecto su giulivo
quando mi porse il salutorio sivo.14


Le leggiere modificazioni introdotte nella nostra lezione furono queste: 2 d oriente, d’oriente; 3 kera, ch’era; 4 cosi, così; guido, guidò; 5 kel, che ’l; 6 ondogni, ond’ogni; 7 ki, ch’i; 8 kamor, ch’amor; 9 humile, umile; 10 poco, ridussi a po’ per ragioni schematiche; mera, m’era; 11 maforzai, m’afforzai; 12 kera, ch’era; lontellecto su, lo ’ntelletto su’. — Queste sono le [p. xxiv modifica]varianti che io mi sono permesso introdurre, senza però mettere le mani nel testo dei codici, rimpasticciandone le lezioni. Col sistema da me tenuto, pure ammettendo che la lezione degli antichi testi riesca un po’ ammodernata, non si altera affatto la lezione sostanziale dei manoscritti: le varianti sono sempre ortografiche, ma la lezione sostanziale non soffre alcuna alterazione. Del resto, se per fare una edizione, come si dice, critica, bastasse riprodurre un codice nella sua integrità, coi suoi errori e colle sue mancanze, i nostri migliori scrittori non avrebbero gran numero di lettori e di ammiratori.

Sempre per questo nostro sistema di riproduzione di testi antichi, ove i codici presentavano lezioni sostanzialmente variate, scegliemmo tra le varianti quella che a nostro modo di vedere fosse la [p. xxv modifica]migliore. Ciò è accaduto in pochi casi, ma il lettore vedrà però in nota le varianti da noi rigettate e giudicherà se bene o male ci siamo apposti. E vedrà pure, come accadde pel sonetto: Amore eo chero mia donna en domino, che quando d’una poesia non conoscevamo che un sol testo, la riproducemmo nella lezione quasi diplomatica; giacché in questo caso il criterio critico dell’editore non può sostituirsi alla fonte manoscritta da cui deriva.

V. Questo il metodo da me seguito per la riproduzione delle rime di Lapo, che rappresentano tanta parte dell’arte dugentista. Perché Lapo, come mi studiai di dimostrare in un mio lungo scritto su l’opera sua, è uno dei pochissimi rimatori del dolce stil novo in cui si vedono le diverse tendenze dell’arte provenzalesca e guinicelliana modificarsi [p. xxvi modifica]sensibilmente sino a raggiungere la perfezione della forma. Dal 1884, anno in cui fu scritto quel lavoretto, molt’acqua passò sotto il ponte, e con questa anche buona parte, forse la migliore, della mia giovinezza, ma sento di non potere modificare l’opinione già espressa: Lapo Gianni presenta in tutti i suoi graduati svolgimenti la lirica artistica che preparò l’Allighieri. Ma i buoni critici giudicarono scempiatissimo il mio lavoretto; il Giornale storico, notato che in esso c’era del buono, avvertiva che era troppo disordinato; leggiero lo disse il Gaspary; il Casini mi ammoniva che leggessi un suo articolo sul Davanzati, dalla lettura del quale avrei modificato il mio giudizio;4 ma gentile e cortese il dott. Annibale Gabrielli si occupò di Lapo e di me con tanta gentilezza e cortesia, che ragion vuole ch’io per sommi [p. xxvii modifica]capi risponda ad alcune sue osservazioni, ma brevemente.

Scopo dello scritto del sig. Gabrielli è l’esame dei criteri storici coi quali io ho giudicato l’opera di Lapo e dei suoi contemporanei, e comincia col rimproverarmi di aver tenuta l’opinione del Monaci in minor conto di quel che si doveva. Risponderò che le obiezioni mosse al Monaci dal Casini e dal Gaspary5 mi sembrano assai gravi e, pur ammettendo che più si guarda colla lente la scuola siciliana rimpicciolisce, non potevo accettare come sicuro dettato di critica quello che in fondo in fondo non era altro che sottile deduzione. Del resto io desidero col Gabrielli, anche per la carità del natio loco, che l’opinione del Monaci divenga, coll’andar del tempo e col progredire degli studi, la più universalmente accettata, ma prima [p. xxviii modifica]dobbiamo fare altre ricerche ed altre scoperte.

Tutte le liriche di Lapo classificai in tre gruppi, che dissi rime siculo-provenzaleggianti; erotiche-filosofiche e rime del dolce stil novo. Cotesta classificazione non piacque al Gabrielli, che per le liriche del primo gruppo osserva come sia strano fondere insieme Provenza e Sicilia; i verzieri della regione della gai saber e gli aranci della isola bella. Ecco: io osservo che qui non si tratta di congiungere in un poetico amplesso il nord ed il sud, ma si tratta di un fatto storico inoppugnabile. Come negare l’influenza trobadorica in quei primi vagiti dell’arte nostra, se tutta la lirica siciliana è piena di reminiscenze e di concetti provenzali, come dimostrò già il Nannucci? Senonchè bisogna intenderci sul significato di questa [p. xxix modifica]imitazione provenzale: con ciò non si dice che la lirica siciliana sia tutta plasmata sulla poesia trobadorica, ma bensì imitazione di forma metrica, di concetti e di contenuto. Non sono versioni dal provenzale ma sono riflessi di quella letteratura. E se il Gabrielli si meraviglia che un popolo possa cominciare l’arte sua con un periodo d’assoluta imitazione, posso ricordargli che la Sicilia prima della dominazione fridericiana ebbe la dominazione e con essa l’arte dei Normanni e degli Arabi, la quale lasciò elementi che benissimo si potevano assimilare con quelli della lirica provenzale.

Ma il Gabrielli si domanda: «dov’è anzitutto in Sicilia questo dilagamento di cultura provenzale?» Rispondiamo: E chi ha mai trovato nella Sicilia un dilagamento di cultura provenzale? [p. xxx modifica]abbiamo soltanto asserito, e preghiamo i lettori a farci grazia degli esempi, che in Sicilia l’arte si svolse sotto l’influenza della letteratura provenzale. Che se nella Toscana abbondano i trattati e i lessici provenzali, non vuol dire che quella regione fosse, più della Sicilia, soggetta all’influenza dell’arte trobadorica: vuol dire che quella letteratura fu studiata in Toscana coll’amore di filologi e lo prova Dante, che nei primi del secolo xiv scriveva il De vulgari eloquentia. E se il Gaspary riporta versi del Mostacci, del Davanzati e di Bondie Dietaiuti i quali non sono altro che vere e proprie traduzioni dal Provenzale, non vuol dire che il dilagamento provenzale fosse maggiore in Toscana che in Sicilia: vuol dire soltanto, e l’esempio di Dante lo conferma, che in Toscana la letteratura provenzale era oggetto di studio [p. xxxi modifica]e d’osservazione: in Sicilia invece fu oggetto di imitazione e d’assimilazione.

Come, si domanda il Gabrielli, si può dunque affermare che il maximum della imitazione provenzale sia segnata dalla Sicilia? Par questo solo: che la poesia siciliana conserva molte impronte della forma provenzale, al modo stesso che molti toscani imitarono i provenzali quando questa letteratura era già oggetto di studio e ciò dimostra il fatto che nella Toscana abbondano già i rimari e le grammatiche provenzali. Il dire, col Gabrielli, che questa impronta provenzale doveva essere giunta al Gianni come di seconda mano, a traverso la lirica siciliana, mi pare alquanto arrischiato. Il supporre che ei la debba aver trovata nella sua Toscana e massimamente in Guittone d’Arezzo, che è il rappresentante più esagerato della [p. xxxii modifica]imitazione provenzale, mi sembra una gratuita asserzione. Il Gabrielli sa benissimo come alla stregua degli studi nostri non possiamo dare un giudizio così categorico su Guittone d’Arezzo. Troppo leggermente si giudica Guittone d’Arezzo da certi vigorosi attacchi dell’Allighieri e pel verso brutto e triviale del Petrarca; troppo leggermente lo si chiama artificioso poeta, solo perché non ci siamo ancora dati la cura di studiarlo come merita. Ed è leggero voler negare che il Gianni, come il Frescobaldi, l’unico dei rimatori toscani che più a lui s’avvicina, abbia contatto colla maniera provenzale solo perché la struttura metrica delle rime del Gianni è diversa assai dal sistema ritmico dei provenzali. Non si tratta di ricalco, di imitazione servile, ma bensì di imitazione delle linee generali artistiche si degli uni che dell’altro. [p. xxxiii modifica]Del resto, poiché il Gabrielli pare volere cogliere a volo contraddizioni nostre che non esistono, diremo che egli stesso conviene in gran parte con noi quando scrive: Non vogliamo già concludere che quanto abbiamo detto escluda del tutto che in questo rimatore assai più che nei poeti a lui anteriori, l’arte di Provenza esercitasse un influsso notevole. In sostanza egli crede soltanto che la maniera provenzaleggiante la trovasse nella sua Toscana e specialmente nell’artificiosissimo Guittone. Ora, fino a prova contraria, questa, mi perdoni l’arguto e dotto Gabrielli, ho diritto di non ammettere. Ma davvero che si possa giudicare Guittone d’Arezzo da quella sconcezza che è l’edizione del Valeriani?

Altra obbiezione: è arrischiato il dire che il gruppo delle liriche di Lapo che il [p. xxxiv modifica]Lamma chiama erotico-filosofiche discenda dal Guinicelli. Il Gabrielli va più indietro del Guinicelli e del Gianni e trova che anche prima di questi poeti s’era agitata in Bologna il problema della natura d’amore; accenna cioè alla famosa corrispondenza poetica illustrata dal Monaci.

Di quanto amore io ami la mia vecchia e dotta Bologna, il Gabrielli può ben supporre. Anzi io, contro l’opinione del Casini, sostenni già l’esistenza d’una scuola bolognese svoltasi quasi contemporaneamente alla lirica mistico-religiosa degli umbri,6 e aspetto sempre per disingannarmi lo studio da lungo tempo promesso da Tommaso Casini.7 Quindi, pur non accettando in tutto le fini considerazioni del Monaci, ammetto che l’indirizzo degli studi dell’Università di Bologna fosse dottrinario e scolastico, pur rifiutando molte [p. xxxv modifica]conclusioni già esposto dal Casini in un suo articolo col quale si apre il Giornale Storico.8 Ora il Monaci che cosa ha concluso col suo dottissimo studio? Che i primordi della lirica nostra sono da ricercarsi in Bologna prima che in Palermo. Su questo spostamento dei primordi dell’arte dugentista altri discuterà, non io; ma però trovo nello studio dell’insigne filologo romano una conferma alla mia tesi. La corrispondenza poetica tra il Mostacci, il Vigna e il Notaio da Lentini è dialettica, è scolastica, è una forma dell’arte che precorre il Guinicelli? Non si può certamente negare che le tendenze della Università di Bologna fossero speculative e scolastiche, se fino dai primi anni del duecento abbiamo questi forti indizii d’un’ arte di scuola. Ora il Guinicelli co’ suoi mirabili sonetti e le gravi canzoni, non [p. xxxvi modifica]faceva che continuare un’arte che, aveva già salde radici nella sua città ed era nata dalle tendenze di studi speculativi che avevano appunto la propria sede in Bologna. Non mi contraddico, creda l’egregio Gabrielli, quando asserisco che in Bologna la casistica e le definizioni d’amore risalgono ai primissimi tempi, anche prima della corrispondenza poetica illustrata dal Monaci, perché con questa mia asserzione confermo l’esistenza della maniera Guinicelliana. Senz’ammettere un graduale progresso nella lirica di scuola, come si può ammettere il Guinicelli? E come si può chiamare quel movimento che sorse intorno al savio dottore bolognese, seguito poi specialmente da Onesto, se non col nome di maniera Guinicelliana?

Se, come asserisce lo stesso Gabrielli, i provenzali svolsero la fisiologia [p. xxxvii modifica]dell’amore, ma alla questione filosofica non assursero mai; se le sottili disquisizioni sulla natura d’amore, uccise da Guido Orlandi e sepolte dal Cavalcanti, ebbero principio dalle sottili elocubrazioni della scuola bolognese, non mi si censuri se dissi, con una sola parola, Guinicelliana quella lirica che si ispirò precisamente alla casistica e alla dialettica, quando di queste tendenze artistiche il prototipo fu appunto il Guinicelli. Il quale fu dialettico e scolastico come appunto, nella sua seconda maniera, fu il Gianni, il quale, per questo, fu Guinicelliano. Nego poi che la ballata: Angelica figura, sia una di quelle poesie di Lapo nelle quali si fa sentire maggiormente l’artificio dialettico, ché il colmo del dialettico si deve ricercare nelle canzoni: Amor nova ed antica vanitate, e: O morte della vita privatrice. Ma in esse mai [p. xxxviii modifica]ritrovi uno solo di quei vivi guizzi di luce che adornano gli alti sonetti e le gravi canzoni del Guinicelli. La chiusa della canzone: Amor nova ed antica vanitate, riescirà, come dice il Gabrielli, per una certa aria d’ingenuità che vi spira. piena d’efficacia, ma è ben diversa dalla stupenda stanza colla quale si chiude la canzone: Al cor gentil. E Lapo fu Guinicelliano appunto perchè seguì quella tendenza artistica, la quale fu innalzata al massimo splendore dal nobile dottore bolognese.

VI. Queste cose, alla buona e senza fronzoli, mi premeva far notare al mio dotto e gentile contraddittore, anche per confermare quelle che erano e sono le opinioni mie sulla nostra poesia primordiale. Sulla terza ed ultima serie delle rime del Gianni sono perfettamente d’accordo col signor Gabrielli: esse contengono vivi [p. xxxix modifica]bagliori di sentimento e d’affetto: mostrato l’eletta forma del dolce stil nuovo. Anzi in esse Lapo Gianni, è precursore non lontano del Cavalcanti, di Dante e di Cino.

Qualche osservazione però mi permetto fare su il tempo in cui fiorì Lapo Gianni, giacchè nel mio studio dell’84 non ne trattai che succintamente. Prevalse in me l’opinione che egli fosse il primo poeta volgare del dolce stil nuovo e fui a ciò indotto, oltre che dallo studio delle sue rime, anche dall’opinione di Mario Equicola, seguita dippoi dal Bembo. Ma sul tempo in cui Lapo visse, che pel Poccianti fu il 1350, inutilmente il Gabrielli difende il Crescimbeni: le contraddizioni sono in lui così abituali che e’ non merita alcuna difesa. Il custode d’Arcadia prima riferì la opinione del Poccianti, (1351?); poi, accortosi dello sproposito, portò il fiorir del [p. xl modifica]poeta nientemeno che a un secolo indietro, al 1250, ma nè l’una nè l’altra data può reggere. Svisai le parole del Muratori, lo confesso, ma fui tratto in inganno da una inesatta citazione del Nannucci.

Però nella ricerca degli indizi e delle date del fiorire di Lapo, non m’attenni punto ai criteri su citati, ma feci un calcolo, presso a poco, così: Se la donna di Lapo fu ricordata dall’Allighieri in quel serventese, sventuratamente perduto, scritto, secondo il Carducci, poco dopo il 1283, in questo tempo il Gianni doveva essere giovane, poteva avere venticinque, forse anche trent’anni: doveva, insomma, essere o coetaneo, o di poco maggiore all’Allighieri.

Al presente una vera serqua di documenti sono stati scoperti, per cura, specialmente, di Isidoro Del Lungo,9 che si riferiscono a dei Lapo Gianni; forse un [p. xli modifica]po’ troppo numerosi, se vogliamo, ma tali però da permetterci di identificare in uno di questi il nostro rimatore. E prima di tutto un protocollo di atti rogati da un Lapus quondam Giannis Riceuuti de Florentia, il quale fu judicem ordinarium publicumque notarium, si conserva nell’Archivio di Stato di Firenze e contiene note di atti rogati da questo notaio dal 24 maggio 1298 al 24 maggio 1328. Da questi atti risulta che Lapo di Gianni Ricevuti da Firenze aveva per fratelli Nino e Bartolino, ed era del popolo Sanctae Tomae; risulta anche che egli fu in relazione con un notaio poeta: Francesco da Barberino, il quale, come si sa, fino dal 1297 era notaio del vescovo Francesco da Bagnorea. Se adunque il Lapo Gianni che redasse questo quaternus fosse da identificare nel nostro poeta, egli sarebbe [p. xlii modifica]vissuto almeno lino al 1328; e ammesso che egli fosse contemporaneo, o di poco anteriore a Dante, sarebbe vissuto almeno settant’anni, età del resto grave, ma non gravissima.

Ma un esame, anche soltanto esteriore del repertorio di Lapo è più che sufficiente per dimostrare che esso, nell’ultima sua parte, deve essere stato alterato. Infatti, dal 1298 al 1309 le note di atti compilati da lui sono abbastanza frequenti; ma questi si interrompono nel 1309 e si riprendono diciotto anni dopo, cioè nel 1327. Questa lacuna desta il sospetto che l’ultima data del repertorio di Lapo debba essere il 12 ottobre 1309, e gli atti rogati dal 1327 al 1328 appartengano ad altro notaio che ebbe lo stesso nome del Gianni. Infatti nell’ultimo atto ricordato nel repertorio, ser Lapo Gianni non è [p. xliii modifica]ricordato come figlio quondam Riceuuti, né come Fiorentino, ma è detto de Feragla; non è più populi Sanctae Tomae, ma bensì populi Sancti Lauri. E noi sappiamo che di ser Lapus Jannis de Ferallia si conservano molte pergamene nell’Archivio di Stato di Firenze, che vanno dal 18 ottobre 1254 al 24 gennaio 1336: quindi a noi par certo che il repertorio di Lapo quondam Giannis Riceuuti debba chiudersi coll’atto rogato il 12 ottobre 1309, riferendo gli atti rogati nel 1327 e 1328 all’altro notaio da Feraglia. Comunque è certo, che finora, abbiamo visto due Lapo Gianni, entrambi notai e vissuti nel medesimo tempo in Firenze.

Ma anche ammettendo che il repertorio di Lapo Gianni Ricevuti cessi col 12 ottobre 1309, questo notaio visse oltre il 24 agosto 1321, giacché l’Archivio [p. xliv modifica]di Stato di Firenze conserva di lui tre pergamene autografe in data del 17 febbraio 1300; 1 luglio 1317 e 20 agosto 1321, la prima delle quali fu copiata dal libro abreuiaturarum ser Francisci olim Neri de Barberino, notarii et offitialis... domini episcopi florentini. E già vedemmo in altri atti di Lapo rapporti di relazioni col da Barberino, onde non può nascere alcun dubbio che queste pergamene si riferiscano all’altro notaio del quaternus. E pur molto probabilmente fu una sola persona con quel ser Lupino di Giovanni Ricevuti, ricordato negli spogli di F. Dell’Ancisa, in un atto del quale del 1297 comparisce Francesco da Barberino.10 Due sono, finora, i ser Lapo di Gianni notai che abbiamo veduto: di uno quondam Riceuuti, gli atti rogati vanno tino al 29 agosto 1321; dell’altro da Feraglia, [p. xlv modifica]gli atti vanno al 24 gennaio 1336. Ma un altro Lapus Giannis Tramontani è ricordato nelle Consulte della Repubblica Fiorentina, e pur nelle stesse Consulte è ricordato un Lapus filius Giannis, sotto la data 1282, ma senza l’appellativa del ser avanti il nome, ed era de Sextu Porte Domus, cioè populi Sancte Tomae, come Lapo di Gianni Ricevuti; e pur un altro ser Lapus not. f. Gianni era nel 1284 tra i Consiliarij generalis sextus Burgi. Io crederei che quel Lapus filius Giannis de Sextu Porte Domus, ricordato nelle Consulte del 1282 fosse una sola persona col Lapo di Gianni Ricevuti, e che la mancanza del ser davanti al nome derivasse dal fatto che Lapo in quell’anno non era ancora ascritto all’arte de’ notai.

Riassumendo, quattro sono i Lapo Gianni che noi troviamo ricordati nei documenti fiorentini del secolo xiii e xiv:

[p. xlvi modifica] 1.° Lapo di Gianni Ricevuti, di cui si conservano atti almeno fino al 1321;

2.° Lapo di Gianni da Feraglia, di cui si conservano atti fino al 1336;

3.° Lapo Gianni Tramontani, ricordato dalle Consulte della Repubblica Fiorentina i, 294; 366;

4.° Lapo notaio, figlio di Gianni del Sesto del Borgo, ricordato in un atto del 1284.

Quale di questi quattro sarà stato il poeta? Confesso francamente che a me pare di non ingannarmi dicendo che deve essere stato Lapo di Gianni Ricevuti. A ciò asserire m’inducono: primo: il fatto che egli fu in relazione con Francesco da Barberino che, come sappiamo, fu in Firenze dal 1297 al 1303 e in quegli anni e in quel centro di studi, il notaio diveniva poeta; e se fu in relazione con Dante, il [p. xlvii modifica]Cavalcanti e il Compagni, che ricordò nei Commentarii ai Documenti d’Amore, dovette essere in relazione con Lapo, che ebbe con Dante e con Guido una comune idealità artistica. Poi, identificando il nostro poeta in questo Lapo Gianni, è tolto il dubbio che egli vivesse oltre il 1335, la qual cosa, pure ammettendo che Lapo dovè far versi prima che rogiti, par contradire alla tesi già da noi sostenuta, che Lapo notaio, fosse il ponte di passaggio tra i Guinizelliani e i poeti del dolce stil nuovo. Sarà una mia idea, ma quel Lapus filius Giannis de Sextu Porte Domus, che compare nel 1282 nelle Consulte della Repubblica di Firenze, senza l’appellativo del ser, mi fa confermare il dubbio che egli sia una persona sola col nostro poeta, in quell’anno non ancora ascritto al notariato. Se così fosse, nel 1282 Lapo avrà [p. xlviii modifica]potuto aver vent’anni, e poco dopo l’83, ma prima del ’90, avrà scritto il son.: Amore, eo chero mia donna en domino; e Dante l’altro: Guido, vorrei che tu e Lapo ed io; se così fosse, gli accenni storici ed artistici che congiungono Lapo con Guido e coll’Alligheri, sarebbero pienamente riconfermati e la vita del geniale poeta toscano cadrebbe circa tra il 1260, anno probabile della sua nascita, e il 1321, anno della morte di Dante e dell’ultimo atto rogato dal notaio poeta; e la sua attività artistica si svolgerebbe in quegli anni ne’ quali visse in Firenze Francesco da Barberino.

Del resto, fosse anche vissuto fino al 1328, benchè, ripeto, non mi sembri probabile, Lapo rappresenta una pagina splendida di quella primavera d’arte fiorentina che sbocciò colle gaie feste maggiaiole; nè si può negare die egli fosse coetaneo [p. xlix modifica]del Cavalcanti e di Dante e che con essi abbia cantato d’amore nelle tepide sere d’aprile, quando del Cavalcanti era imminente la misera fine e Dante, forse, pensava a un famoso, terzetto posto in bocca a Oderisi. E forse, solcando l’Arno, con Guido e con Dante, sognarono insieme d’essere presi per incantamento; desiderarono d’aver seco Monna Vanna e Monna Bice e l’altra, che era sul numero del trenta! Divina poesia, sbocciata quando il libero comune italico spiegava liberamente l’ali, come risplendi anche ai giorni nostri, irradiata dal fulgore della grazia, della squisitezza e dell’amore!

Le soavi ballate del Gianni, le sue gravi canzoni, noi raccogliemmo in un piccolo libretto, perché facessero testimonianza d’un grande periodo artistico, sicuri di far cosa non del tutto sgradita [p. l modifica]agli studiosi. Ma per lo studio della poesia dugentista aspettiamo con assai vivo desiderio, il libro già promesso da Giulio Salvadori sul dolce stil nuovo, e per convincerne che abbiamo esagerato, giudicando l’opera del Gianni, aspettiamogli studi su Chiaro Davanzati e su Dino Frescobaldi che hanno promesso i nostri carissimi amici Francesco Guardabassi e Giovanni Barriera. Anzi, se la stampa delle rime del Gianni potesse affrettare la pubblicazione di queste opere, che attendiamo con tanto vivo desiderio, potremmo dire anche noi che il premio ha sorpassata la speranza.

Bologna, 20 luglio 1895.

Ernesto Lamma.


Note

  1. [p. 52 modifica]Lapo Gianni (Contributo alla storia letteraria del sec. XIII) in Propugnatore, 1885, vol. I, fasc. 1-2, pagg. 1-105.
  2. [p. 52 modifica]Lapo Gianni e la lirica pre-dantesca, Roma. Befani, 1889 (Estratto dalla Rassegna italiana).
  3. [p. 52 modifica]Per non fare una lunga litania bibliografica, citando libri ed autori che tutti conoscono, rimando i lettori che desiderano aver notizie di questi codici al Palermo pei codici Palatini; alla edizione diplomatica del Monaci e Molteni pel Chig. l. viii, 305; al Manzoni e al Pelaez pel Vaticano 3214; al Lami pel Riccardiano; alla nostra Appendice per l’Ashbur. 479; al Bandini pei Laurenziani; al Marsand pei Parigini; al Bartoli pel Panciatichiano, e pei Bol. Univ. 1289 e 2448 ai miei studi: Il codice di rime [p. 53 modifica]antiche di G. G. Amedei (in Giornale Storico, xx, p. 151 e segg. cfr. anche L. Frati (in Giorn. cit. xxiv. 300) e I codici Trombelli della R. Univ. di Bologna, in Propugnatore, N. S. vi, ii, fasc. 4-5.
  4. [p. 53 modifica]L’articolo che sta nella Rivista critica, i, 3: Le antiche rime volgari secondo la lezione del cod. vaticano 3793.
  5. [p. 53 modifica]T. Casini in Rivista critica, i, 3. A. Gaspary, in Literaturblatt für germ. u. roman. Philologie, pag. 442 e segg. (1884). Ma in questi ultimi anni l’opinione del Monaci è stata fortemente combattuta dal Torraca, La scuola poetica siciliana, in N. Antologia, 1894-95 e da A. Zenatti, La scuola poetica siciliana del secolo XIII, Messina, D’Amico, 1894 etc., così che mi pare vada a poco a poco perdendo terreno.
  6. [p. 53 modifica]E. Lamma, Saggio di commento alle canz. di G. Guinizelli etc. Bologna, Fava e Garagnani, 1885.
  7. [p. 53 modifica]Rime di poeti bolognesi del sec. XIII, p. liv.
  8. [p. 53 modifica]La cultura bolognese nel sec. XIII e XIV, in Giorn. Stor., i, 1.
  9. [p. 54 modifica]Dante ai tempi di Dante, Bologna. Zanichelli, 1891, pagg. 53, 104, 126, 131. Un documento inedito del Priorato di Dante, nel Bollettino della Soc. Dant. Italiana, i, pag. 12-18. Dino, i, doc. p. ix.
  10. [p. 54 modifica]U. Marchesini (in Archivio storico italiano, xiii, pag. 91-95), Tre pergamene autografe di Ser Lapo Gianni. Per le notizie degli altri Lapo Gianni che verremo ricordando, vedi: F. Novati in Giorn. Stor, vi, 401, nota 1a; A. Gherardi, Consulte della Rep. di Firenze i, 135; Thomas, F. da Barberino et la littérature prov. en Italie au moyen-áge. Paris, 1883, p. 16-17.