Piccolo mondo moderno/Capitolo quinto. Numina, non nomina/III
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Numina, non nomina
III
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III.
Gl’invitati della città, un nuvolo, perchè Carlino voleva riempire per la sua conferenza la sala grandissima della Foresteria, cominciarono a venire dopo le nove e mezzo, a piedi e in carrozza. Venivano per le due stradicciuole che mettono a villa Diedo, così atrocemente selciate che la nobile signora Colomba Raselli, palpitante di timidezza e di orgoglio,
come un vero piccione, nella sua toeletta cenere guernita di pizzi neri, scendendo di carrozza presso la scuderia e affacciandosi al ciottolato che sale, sospirò, disse a due signorine di cui teneva faticosamente la tutela: “Oh Dio, tose, gavìo cali? Mi sì, savìo„. E alla sua volta l’uomo acido, nel mettere il piede col maestro di musica Bragozzo sul ciottolato che scende dal colle, storse incredibilmente la bocca, il naso,
le sopracciglia e dolendosi di non possedere le estremità marmoree di certo illustre uomo grandeggiante nel mezzo
di una piazza della città, brontolò contro la buaggine propria di venire a rompersi i piedi per avere poi il piacere di rompersi anche le tasche. Le carrozze salivano cariche di dame sfarzose, di nereggianti e biancheggianti cavalieri. La contessa De Altis ne aveva tre nel suo landau. Due di costoro in abito nero e cravatta bianca, torturavano il terzo per il suo smoking e la sua cravatta nera. Non sapeva egli che la sera prima, al caffè, si era deciso di andare tutti in frak? Il disgraziato, uso venerare nonchè le sacre sentenze anche le auguste opinioni del caffè, si difendeva tra umilmente, allegramente e dispettosamente, descriveva con brio la scena della sua “vestizione„ in casa, le apostrofi delle figliuole: “Papà, la velada, sètu!„ “No, papà, che la xe onta!„ i consigli della moglie: “El veladon ch’el te stà tanto ben!„ e finalmente i bisbigli della cameriera: “El se meta el smochi, conte!„ “E mi aseno„, conchiudeva il narratore, “meteme el smochi„.
In tutte le carrozze si criticavano i Dessalle per non aver indicato l’ora in cui sarebbe finito il trattenimento e per gl’inviti troppo larghi. Il cavalier faceto supponeva di aver a star in cucina. Nelle carrozze di soli uomini si passavano in rassegna i relativi abiti neri, se ne pubblicavano l’età, le origini e i fasti e non mancò chi vi andasse fiutando la carbolina. Ma tutti, cavalieri e dame, erano curiosissimi della conferenza e delle proiezioni, perchè si diceva che la conferenza fosse in parte un madrigale all’indirizzo di parecchie belle, amabili e spiritose signore della città, delle quali si sarebbero visti i ritratti, e in parte una pittura innocentemente scherzosa di parecchi signori che pure sarebbero comparsi in effigie.
Si pretendeva di conoscere i nomi delle signore, si parlava di peccati mortali di ommissione e di indiscrezione, di miscele inopportune, di certe signorine molto leggiadre, molto mondane, fieramente impermalite per la risaputa esclusione di tutte le signorine, tranne una, dalle proiezioni e dalla conferenza. Si commentava l’assenza di Maironi, si discuteva di una possibile rottura, con accenni agli Scremin e a un miglioramento della demente. Il cavalier faceto prometteva raccontare cose graziosissime durante la musica noiosa del maestro Bragozzo. Si rideva della signora che la sera dell’eclissi andava giurando di non rimetter piede a villa Diedo e che, ricevuto l’invito, aveva telegrafato a Venezia per una toilette. Si rideva degli infruttuosi sforzi della contessa Importanza per appioppare a Carlino la contessina Importanzèta, sforzi caritatevolmente secondati da certa benigna dama senza figliuole.
La Raselli entrò ultima con le due signorine nella villa perchè, giunta al cancello, si avvide di avere smarrita la nappina del ventaglio, e con grandissima rabbia delle compagne volle a ogni costo, malgrado le confessate imperfezioni delle piante, rifare la via sino al fondo: “Vià, tose, tasì, ch’el gera tanto un bel fiocheto. Tasì, çerchè, disì el si quaeris anca vualtre„, che fu poi tutto invano.
Villa Diedo, il bel dado a trafori dal diadema di statue, saliva biancastro, con i trafori tutti accesi, sopra le due terrazze brune di gente, verso un caos fosco di nuvole senza luna, simile nel suo culminare a un alto, enorme fiore del poggio. E nel fiore e intorno al fiore animato di fiamme era un fervere di piccoli viventi, accorsi al lume e all’odore di godimento. Molte farfallucce vane, qualche fatua falena, molti moscerini curiosi, qualche maligna zanzara, non pochi scarabei di pregio, non poche nobili api vi facevano un ronzìo continuo, molesto, forse, alle cose immobili, adoranti nella notte angusta, come ai devoti nelle cattedrali un pertinace battibecco di sagrestani e di femminucce. Solo i rosai abbracciati ai balaustri della terrazza di ponente avevano fremiti e moti come se la domesticità lunga avesse loro propagato il senso del piacere umano. Così osservò passeggiando sulla terrazza un poeta indigeno alla dama pure indigena cui dava il braccio. “Ma Lei„, diss’ella “trova che c’è tanto piacere umano, qui? Tranne io, in questo momento„ soggiunse con una voce strascicata e ridente che attenuava la dolcezza delle parole, “tranne forse un pochino anche Lei, più o meno si seccan tutti. Non ha visto che mutrie? Pare gente che aspetti il suo turno nella sala di un dentista. Per fortuna c’è quel signore color carota che si diverte!„
Quel signore color carota, l’uomo acido, errava soletto per le sale, in abito di mattina, fra le code di rondine e le toilettes chiare, scollate, fiutando i mobili a uno a uno, regalando a ciascuno una particolare smorfia, e non pareva infatti il ritratto del piacere umano; ma convien dire che la bella, nobile dama, squisitamente aristocratica nell’intelletto e nel gusto, non molto ricca, soffriva un pochino del lusso sfoggiato da questi Dessalle, sangue di banchieri, e del prosternarsi, come diceva lei, di una città intera ai loro milioni. Perciò il suo giudizio che tutti si seccassero era volontariamente malignetto e fece sorridere il poeta nel proprio non meno maligno cuore. La folla degli invitati, alcuni dei quali non erano mai entrati nella villa e moltissimi non l’avevano visitata dopo che n’era stato rinnovato l’arredamento, fluiva, finite le presentazioni, per le cinque sale tiepoliane e si divertiva di sè stessa, del magnifico ambiente, dove la signora malignetta non faceva grazia che a Tiepolo, giudicava piuttosto pretenzioso che ricco il mobilio, vedeva punte borghesi in ogni eleganza. Giovava a lei e a qualche altro, per malignare, che certo borghesuccio vanitosetto, per aver conosciuto i Dessalle da qualche settimana e aver veduta la villa minutamente, si affannasse a gittar qua e là rapidi bisbigli: “tutte stoffe tessute apposta perchè armonizzassero con le decorazioni di Tiepolo - qui tutto è antico, preso a Roma - qui tutto è copiato da una sala del palazzo X di Venezia - qui tutto è lavorato su disegni del pittore Fusarin. - L’erma di Omero, nella sala da musica, è antica. - L’erma di Virgilio, nella sala da pranzo, è di uno scultore russo - quelle dell’Ariosto e del Tasso sono di... di... di... adesso lo domando a Carlino„. Subito il cavalier faceto lo battezzò per queste sue ambiziose familiarità ridicole “el fiolo de la balia de Carleto„ e per tutta quella sera il nomignolo gli rimase. C’eran bene alcuni buoni conoscitori e alcune fini conoscitrici che gustavano le armonie squisite degli arredi e delle pitture e sostavano a considerare i fregi dorati sul cuoio bianco degli usci antichi, nè attraversavano il corridoio fra la sala di Virgilio e la sala del Tasso senz’ammirare alle pareti il ricchissimo soprariccio di Venezia. Ma i più si compiacevano di altre cose, della folla elegante, della gran luce, della grande ricchezza, di trovarcisi come invitati; benchè quest’ultimo godimento fosse molto attenuato dalla copia degli inviti, non fosse condito di esclusioni saporose. Molti signori si compiacevano inoltre, in diversa misura, secondo il grado, la bellezza e la giovinezza della compagna, di dare il braccio a una dama; e altri signori si compiacevano di piantarsi ai passaggi fra la sala e la sala, indagando dall’alto le spalle e i palpiti di quelle che talvolta erano costrette a sostarvi.
“Il nostro Olimpo„ disse con voce nasale un vecchio signore elegante a Gonnelli, passate che furono quattro o cinque dame, una delle quali, l’ultima, era molto scollata. Bessanesi, che stava dietro Gonnelli, brontolò: “Quello mi pare l’Ossa„.
La voce nasale: “Perdoni, dice?„.
“Oh, niente„.
Le signore tutte, tranne qualcuna poco soddisfatta della propria toilette, si compiacevano pure della riunione, ma si mostravano ancora, nella gravità e nella solennità del contegno, molto comprese dei loro strascichi, delle loro gemme, dell’avvenimento cui partecipavano. Invece le signorine erano raggianti, perchè il “fiolo de la balia„ aveva raccontato a qualcuna che nella sala della conferenza si era stesa una tela e portato un piano; e perchè fra i possibili ballerini vi erano alcuni giovani ufficiali di cavalleria non mai venuti, prima di quella sera, in società. Un gruppo di esse, nella sala dell’Ariosto, commentava queste notizie. Un signore maturo che passava di lì, allargate le braccia a cingere confidenzialmente due sottili vite che trasalirono, ficcò il naso nel gruppo: “Ohe digo, sémoi bone putele? Sémoi de religion? Quanti Ave marìo gavemoi dito ancò?„ E scappò ridendo, con una ventagliata della più anziana sul viso. Le signorine ripigliarono a parlare degli ufficiali ponendo in comune la loro scienza, indicandoli per nome, cognome, titoli, quattrini, età, spirito, abitudini e peso. Il primato del peso era stato tenuto per un pezzo dal capitano X con novantatre chili, ma ora c’era il tenente Y che ne pesava novantacinque. Peccato, il tenente non aveva altro difetto che questo eccesso. Jeanne aveva raccolto la Gonnellina in un angolo della terrazza di levante dove stava con la signorina Bertha e con Destemps, l’aveva portata alle pupille della Raselli perchè la pigliassero nella loro compagnia, ma Eleonora, venutaci contro voglia, non fu briosa nè troppo amabile, cosicchè le fu presto conferito graziosamente il titolo di “palo numero uno„. Jeanne, del resto, recitava la propria parte da eccellente attrice, concedendosi poco a chi l’avrebbe desiderata molto, scusandosi con le amiche, distribuendosi largamente agli invitati più modesti e meno conosciuti da lei, componendo acconcie conversazioni al professore Dane e a donna Laura, lasciando che Bice, Destemps, Bertha, Bessanesi e Gonnelli se la sbrigassero come volevano e potevano.
S’era dovuto modificare il programma della serata. Non si cominciava più con la conferenza, si cominciava con la musica, per causa del maestro Bragozzo, il quale, fiutato in aria l’odor di ballo, aveva dichiarato netto a Carlino di non voler far udire il promesso atto della sua opera inedita dopo la conferenza, quando tutti sarebbero stati impazienti di ballare. E per la musica non c’era da uscire della villa perchè il maestro preferiva quella piccola sala alla grande sala della Foresteria: pochi uditori ma scelti!
“Cosa vuole?„ diss’egli alla contessa malignetta. “Qui saremo, si figuri, cento persone. Di cinquanta uomini che mi applaudiranno, ve ne saranno venti capaci di dirmi quando saremo fuori: — La diga, maestro; bela quela roba, ma longheta. — Altri venti, e questi saranno i miei amici, mi diranno: — Fiol de na pipa, la finivistu gnanca più!. — Altri cinque mi domanderanno se ho suonato Wagner o se ho suonato la Traviata; per loro è presso a poco la stessa cosa. Gli ultimi cinque ho piacere che vengano a udirmi. Quanto alle signore, mettiamo da parte Lei, la De Altis, forse anche la padrona di casa, non lo so, e tre o quattro delle quattordici o quindici allieve che ho qui, mettiamo dieci in tutto. È molto! Per le altre quaranta, quand’anche sapessi far cantare e piangere il piano, avrei la consolazione di vedere quaranta ventagli andare e venire regolarmente come quaranta metronomi dal principio alla fine. Qualche signorina, poi, sarebbe capacissima di venirmi a dire, come mi è toccato ancora dopo avere suonato Beethoven, o Schumann, o Mendelssohn: — Bravo, maestro; ma ora ci suoni qualchecosa di bello„.
“È così dappertutto, sa„, gli rispose la contessa, ridendo.
Mentr’egli suonava e, contro il suo desiderio, la piccola sala era stipata e due grosse code di pubblico vi restavano prese negli usci aperti, il cavalier faceto raccontava in un angolo della terrazza di levante a un piccolo gruppo di uditori e di uditrici, le scene di casa Scremin promesse alla contessa De Altis, la quale aveva preferito la musica. Egli le sapeva dalla propria cameriera, una sorella della quale aveva sposato il figlio di Federico di casa Scremin. Dunque, scena prima. Personaggi: il marchese Torototèla, come il cavaliere chiamava Zaneto per certe sue antiche colascionate poetiche, la marchesa Nene, don Giuseppe Flores e un topo. Arriva don Giuseppe, in carrozza, dalla sua villa, domanda del marchese, è introdotto e Federico riceve l’ordine di non lasciar passare nessuno. La marchesa suona il campanello. Chi è venuto? Don Giuseppe Flores. Dov’è? Nello studio, col padrone. Passano cinque minuti. La marchesa esce dalla sua camera e “roa„ ossia gira inquieta per la casa. Va finalmente a capitare scura e ansiosa in viso presso uno dei due usci dello studio del marchese. Cosa succede mai? Federico si trova per caso presso l’altro uscio. Ode don Giuseppe che parla; non si capisce niente. Torototèla “fifòta„ ossia piagnucola. Federico per caso, accosta l’occhio al buco della chiave e vede la padrona entrare tutta blanda e sorridente. Proprio in quel momento il padrone si alza spiritato, tira una scampanellata fissando qualche cosa in un angolo dello studio. Federico fa un giro, entra dall’altro uscio, dietro la padrona. “Comandi?„ “Un sorze!„ La padrona che solo teme Iddio e i topi, volta silenziosamente le spalle e via. “Un sorze, signor?„ esclama Federico. “Ma sì, un sorze, un sorze!„ Il marchese, tutto tremante, si fa una barricata della sedia.
“La scusi, don Giuseppe! La scusi don Giuseppe!„ Don Giuseppe, al vedere quella baraonda per un topo,
resta di stucco. Federico non riesce a veder topi. Il marchese non si rassicura, vuole continuare le ricerche: “La scusi, don Giuseppe! La scusi, don Giuseppe! Mi rincresce!„ E tanto dice e tanto ripete “mi rincresce, mi
rincresce„ che il povero don Giuseppe, mogio mogio, se ne va. Trova la marchesa nell’anticamera, discorrono.
A questa placida svolta del racconto si udirono gli eroi del maestro Bragozzo delirare di passione con lo strepito più indiavolato, e un signore grosso uscì sulla terrazza, si accostò al gruppo. “Mi son sordo„ diss’egli. Poi raccontò ch’era arrivato Zaneto Scremin con un frak del quarantotto e una cravatta bianca che pareva una salvietta.
La venuta di Zaneto aguzzò l’appetito curioso degli uditori e il racconto fu ripreso. Cosa si fossero detto la marchesa e don Giuseppe non si sapeva. Certo la marchesa, nel congedar il prete, aveva sospirato: “ga d’esser anca i sorzi!„ quasi quasi compassionando Domeneddio per questa debolezza di aver inventato i topi. Quanto poi al fondo della cosa...
“Mi so tuto!„ interruppe il signore ch’era diventato sordo. Era infatti abbastanza bene informato. A Zaneto, per esser fatto senatore, occorreva regolare i propri affari, unificare i debiti con un grosso mutuo per ridurne l’interesse e per non avere intorno tante lingue inquiete, tanti occhi attenti di creditori. Un’operazione col Credito fondiario della Cassa di risparmio di Milano non si era potuta concludere, per difetto di cauzione. L’avvocato di Zaneto aveva proposto a Carlo Dessalle un mutuo di settecentomila lire al quattro per cento. Dessalle per il momento non aveva fondi e a ogni modo voleva il quattro e mezzo. Saputo ciò, la marchesa, piuttosto di vedere suo marito legato ai Dessalle, aveva deciso di sacrificarsi e di cedergli una larga parte dei propri beni, però a condizione di far sapere in alto che non si aspirava più al senato, di trasferirsi a Brescia, di viverci quietamente con il genero. Don Flores era l’ambasciatore. “Ma Zaneto duro; e fra lu e el sorze i ga mandà a monte tuto„. Nel dialetto del paese “sorze„ si dice un uomo astuto e a questo fondamento filologico il cavalier faceto appoggiò la rispettabile ipotesi che gridando “un sorze!„ il buon Zaneto avesse voluto designare non un topo ma sè stesso.
Intanto Jeanne aveva presentato il marchese a donna Laura, li aveva avviati entrambi, senza parere, alla terrazza di ponente dove potevano discorrere in pace. All’orologio del Santuario suonavano le dieci e mezzo. Jeanne scivolò nella sala da pranzo, si affacciò a una finestra aperta sulla valle del Silenzio, guardando i colli foschi, le nere nuvole pesanti, immaginando la terrazza lontana, alta sopra le acque oscure, la passiflora morta, il suono delle grandi campane, il cuore a lei caro, pieno di memorie, di rimpianti, di terrori, di desideri indistinti che lo contendevano a lei. Si slanciò mentalmente colà dov’egli era e sentendo che non avrebbe osato serrarlo nelle sue braccia per timore di riuscirgli sgradita, tutta dentro si rammollì di pianto e lasciò la finestra.
Nel voltarsi vide Bassanelli fermo davanti a lei. “Sono indiscreto?„ diss’egli. “Ho pensato che forse questa sera avrete tempo e orecchi anche per gli amici. Vorrei dirvi una parola„.
Jeanne non si sdegnò dell’allusione all’assenza di Maironi, avvezza com’era da un pezzo alle punture gelose del povero Bassanelli, per il quale aveva molta stima e anche amicizia.
“E la mia società?„ diss’ella.
“Ci pensa Bragozzo„, rispose Bassanelli. “Sentite; ieri l’altro, a Venezia, ho veduto vostro marito„.
Jeanne ebbe un sussulto di appassionato disprezzo. “Ebbene!„ diss’ella. “Che me ne importa?„
Bassanelli non pretendeva che le ne importasse molto, ma in fin dei conti l’uomo gli aveva fatto pietà. Era in pessime condizioni di salute, pareva mutato, conscio delle sue abbiezioni passate, soffriva, soffriva molto, anche di certe voci arrivate sino a lui.
“Di quali voci?„
“Eh, mia cara!„
“Bassanelli! Siete venuto per dirmi questo?„ fece Jeanne, fieramente. “No, ma insomma trovo che stasera vi si legge troppo nel viso l’assenza di qualcuno, e trovo che non è necessario di mettersi poi anche a sospirare alla finestra!„
“Bassanelli, vi ho permesso finora di maltrattarmi circa questo punto perchè siete un vecchio amico, ma badate di non farmi pentire! Del resto, non è vero che si legga. Non si legge niente. E poi, quando anche si leggesse? Io non faccio il male!„
Bassanelli la fissò negli occhi, pallido, in silenzio, l’afferrò bruscamente al polso, le alzò il braccio. “Non fate il male?„ diss’egli. “Sentite! Sono sempre stato un asino da quando ho sofferto la fame e mi sono fatto storpiare per questa maledetta Italia. Sono un asino anche in questo momento e il perchè lo so io; ma vi giuro che quando penso al povero Franco Maironi, al padre, un cuor di leone, puro, per D..., come il cuor d’un santo, e mi figuro quel che soffrirebbe se vedesse, se sapesse, preferisco esser io che voi!„
Così dicendo liberò e scosse da sè il polso prigioniero. Nello stesso momento si udì un sonoro applauso salutar l’ultima battuta dell’opera di Bragozzo.
“Zitto!„ disse Jeanne, quasi atterrita, pallida quanto lui. “Voi siete un cattivo geloso e niente altro!„
Ella corse nella sala d’Ifigenia; e Bassanelli la seguì fremente, mezzo contento, mezzo malcontento di essersi sfogato.
Donna Laura e il marchese Scremin conversavano ancora sulla terrazza di ponente quando tutta la società si rovesciò a coppie sulla terrazza di levante, scese la gradinata, si avviò per il giardino alla porta lucente della Foresteria. Alcune coppie aristocratiche si sbandarono per aggrupparsi poi fra loro secondo un’intesa, desiderando pigliar posto nella sala a parte dagli altri. Subito ne corse per le ombre qualche femminino dispettoso sussurro. Sussurri correvano pure nel gruppo eletto; sussurri sull’assenza di Maironi, sussurri sulle toilettes delle due gran dame forestiere, che parevano insolentemente semplici. Una signora che aveva trovato modo, stando seduta presso un uscio della sala da musica, di farsi vento con la destra e di saggiare occultamente, con la sinistra, la stoffa delle toilettes che passavano, era fuori di sè contro certe sue amiche avare. Un’altra signora si compiacque di osservare alle due fanatiche adoratrici di Jeanne, perchè non si illudessero circa gli affetti di lei, che l’assenza di Maironi la rendeva persino brutta.
Jeanne entrò l’ultima nella sala della conferenza con il professore Dane, che un bello spirito indigeno aveva già battezzato, per i calzoni laici e per certa femminilità del vecchio viso imberbe, pretoides brachyfera. Quando essi entravano, Carlino, addossato al quadrato bianco delle proiezioni, stava spiegando al pubblico che il suo discorso, di soggetto fantastico, richiedeva una introduzione musicale. Pregò di non applaudire la musica quantunque di un grande maestro e ben eseguita. Le lampade elettriche mancarono a un punto, sul quadrato bianco apparvero nuvole notturne soffuse di albori lunari e un’orchestrina invisibile attaccò le prime battute del Sogno di una notte d’estate di Mendelssohn. Donna Bice, la buona signora Colomba Raselli, la Gonnellina, suo padre, Dane, Bessanesi, il maestro Bragozzo fecero: “oh!„. Destemps disse forte “bene!„ Tutti gli altri, signore e signori, stettero duri, con l’aria di gente avvezza e difficile. La Raselli si attentò di domandar sottovoce a una maestosa vicina impassibile: “Cossa xeli, contessa, quei spegazzi?„
La vicina rispose maestosamente:
“Mi no so„.
Una vispa signorina seduta presso la Raselli mormorò:
“El sarà el caldiero de le strie che fuma„.
“Al manco„, pensò la Raselli, “che le strie me trovasse el me fiocheto„. Appena finita la musica, le nuvole notturne tremolarono e sparvero, le lampade elettriche mandarono una fioca luce crepuscolare e Carlino salì sopra una piccola tribuna che tagliava l’angolo della sala fra il quadrato delle proiezioni e l’uscio aperto della stanza battezzata da lui per le decorazioni tiepolesche La Cina dei mostri, dove stavano i musicisti.
“La baraca de Purincinèla„ mormorò l’uomo acido.
“Porta dei sogni„, incominciò Carlino, senza enfasi, con quel nervoso accento toscano che agli orecchi veneti suonava già singolare e magico. “Porta delle Sfingi, janua clara! Apparisci!„
Le lampade si spensero, tremò sul quadrato luminoso e vi si fermò la immagine di una elegantissima porta fine Quattrocento. La base del pilastro destro recava sul plinto:
JANUA CLARA.
Qualcuno riconobbe il motto e le sfingi dell’architrave, mormorò il nome di un palazzo della città.
“Degna„, continuò Carlino, “del palagio di Atlante, io ti scelgo per esordio. Sanguigne, informi dall’utero di un’alpe selvaggia cavò le tue membra il nerbo di braccia violente; e l’anima tua pura balenava intanto nell’anima dell’antico artefice come favilla in fiamma e nel faticoso congiungimento dello spirito con la pietra lento ascese e declinò l’arco tuo simile al corso di una vita florida e piena, alla via della bellezza nel tempo, della speranza in un cuor sapiente„.
“Vardè l’orologio„, mormorò l’uomo acido al suo vicino, “ca vedemo quanto che se ghe mete a passar sta porta„.
“Come ora„, proseguì nell’ombra la voce di Carlino, “nel dì sacro al Tonante, tu cingi di un pago sorriso le turbe che per te affluiscono, recando incensi, all’interna Dea...„.
Qui la porta tremò e disparve. Scattò al suo posto, fra gli oh, le risa e gli applausi, il busto splendido di una dama presente, dal profilo imperatorio, dal grande occhio nero, dall’omero potente e squisito. “Somiglia un poco a donna Laura„, disse il professore Dane. Jeanne trasalì. Donna Laura e il marchese Scremin erano in sala? Sarebbero stati dimenticati sulla terrazza? Mentre si applaudiva e si rideva, mentre la dama si schermiva dai complimenti degli amici e Carlino attendeva di poter ripigliare la sua stiracchiata similitudine dell’adorna porta con l’adorno esordio di una favola romantica, Jeanne uscì lesta e incontrò in giardino donna Laura, sola. Il marchese (Dio, che senatore meschinetto!) era partito lasciando molte scuse. E dunque? Dunque Scremin si era impegnato a far lavorare suo genero per la elezione di Brescia. Siccome Jeanne, udito questo, fece un piccolo “hm!„ dubitativo, donna Laura si arrischiò a dire, sorridendo: “Basta che tu voglia!„ Era forse più facile, al buio, di osare così.
“Te l’ha detto Scremin, questo?„ fece Jeanne.
“No, lo penso io„.
“Bene, non è vero„.
E che non fosse vero, Jeanne, affermandolo, era convinta.
“Dei suoi imbarazzi non ti avrà mica parlato?„ soggiunse.
“No, gliene ho parlato io„.
“Tu?„
Già, donna Laura era famosa per le sue prudenze di educatrice e per le sue audacie di maleducata.
“Quando si vuole un fine straordinario„, diss’ella, “bisogna gittare i riguardi ordinari„.
Aveva fatto cenno al marchese di altre difficoltà che il suo nome incontrava, difficoltà di carattere molto positivo, forse per effetto di voci sicuramente false ma ch’era necessario di ridurre subito al silenzio. Il marchese si era turbato alquanto, aveva risposto con un tortuoso viluppo di frasi mal connesse, volendo far intendere che per effetto di certe trattative i Dessalle conoscevano la solidità della sua posizione economica e avrebbero potuto attestarne.
“È vero?„ chiese donna Laura. Jeanne credeva infatti che suo fratello fosse stato richiesto di un grosso mutuo, che la cauzione offerta fosse non larga ma sufficiente, che l’affare avesse naufragato per il saggio dell’interesse.
“Ecco„, disse donna Laura, “egli vorrebbe che io inducessi il ministro a chiedere informazioni, circa questo punto, al Prefetto o che al Prefetto ne parlaste voi. Del resto„, soggiunse, “capisci bene che io non ci tengo. Io tengo alla elezione di Brescia„.
Jeanne non rispose. L’altra sentì il gelo di quel silenzio e il pregio del momento fugace.
“Scusa„, diss’ella, “parliamo un poco. Non voglio entrare nelle tue faccende, ma insomma credo che dovresti aiutarmi„.
“Ancora?„
“Sì, ancora. Questa volta si fa conoscere nel collegio lavorando per un altro; un’altra volta lavorerà per sè. E lo aiuteremo„.
Questo parlare senza riguardi e il tono di protezione irritarono Jeanne.
“Scusa, sai„, diss’ella, “t’inganni molto e poi è un discorso inutile. Andiamo, io debbo rientrare„.
Donna Laura, delusa, pensò: che si sieno guastati? E si propose di saperne qualcosa la sera stessa.
Intanto il successo di Carlino andava crescendo. Egli aveva imbastito la più assurda delle fiabe e intorno alla bocca dell’uomo acido il muscolo orbiculare, il buccinatorio e il risorio facevano insieme, a ragione, una tregenda furiosa. Ma le proiezioni levavano il pubblico a rumore. Il soggetto della fiaba era questo. Una bella, gentile e nobile giovinetta della città, presente nella sala e realmente fidanzata a un signore straniero, figurava già sposa in un castello superbo sul Reno presso allo scoglio della Lorelei, felice ma non senza qualche ombra di mestizia per il ricordo della patria lontana. La Lorelei, impietosita da quei sospiretti, le recava in dono e le piantava nel giardino la svelta vecchia torre all’ombra della quale era nata, la Torre di città. Seguiva la desolazione dei cittadini per la scomparsa della loro Torre. Qui c’era un anacronismo. Maironi usciva sul bianco quadrato con la sciarpa di sindaco, nell’atto di andar cercando, con una lanterna in mano, la torre. Jeanne si crucciò di quest’apparizione, che fece ridere assai, e del silenzio serbatone con lei da Carlino che pure le aveva prima raccontata la fiaba. Si vide l’arresto di un noto signore altissimo sospettato di avere inghiottito la Torre, lo svenire di un altro signore erudito che aveva pubblicato una Biografia documentata della Torre di città, il suicidio di alcuni patrizi amici di Carlino che saltavano capofitti nel profondo buco aperto al posto del patrio monumento. Seguiva un concilio di Fate protettrici della città. Mai, nel racconto che le proiezioni commentavano, il conferenziere, fedele al titolo della sua cicalata, non aveva pronunziato nomi. I nomi li proclamava il pubblico davanti alle figure dei Numi. Anche la Lorelei era una bella signora di Rolandseck, accasata nella città della Torre. La galanteria e insieme la prudenza di Carlino furono particolarmente ammirate nella descrizione, detta e figurata, di questo concilio dove il potere magico era conferito alle più belle e illustri dame della città, le quali, descritte una per una con frasi ampollose ma enigmatiche, comparvero sul quadrato pure in una forma enigmatica, col viso in tutto o in parte velato, e ne balenarono via rapidamente nè vi ricomparvero malgrado i richiami del pubblico. Erano dodici. Delle trentasei signore presenti trentacinque sperarono essere del numero, fidando anche le vecchie nei titoli, nei palazzi, nella cortesia cavalleresca dell’oratore e nel velo completo. La sola carissima signora Colomba Raselli era umilmente persuasa di non potersi consolare con tali speranze del perduto “fiocheto„. Le fate congiuravano nel palazzo della janua clara e con incantesimi riportavano la Torre dal Reno a casa, conducevano la giovine sposa e lo sposo a dimorarvi presso, facevan prigione la Lorelei e graziosamente l’assumevano a loro compagna e sorella. Il racconto e lo spettacolo finivano con un frenetico ballo pubblico intorno alla Torre rimessa in posto. Cancaneggiavano con la folla il sindaco, il signore altissimo, il signore erudito e anche i patrizi suicidi. Un inno alla gentile città ospitale, soggiorno eletto di Grazie e Genii, fu la chiusa gradita della conferenza. L’orchestrina intuonò un’aria popolare locale allargandone il tempo a segno da renderla solenne, non riconoscibile a prima vista: e sul quadrato uscì la immagine di Carlino stesso, inclinata verso il pubblico in atto di riverenza, con le braccia conserte e con una piccola Torre stretta sul cuore. Tutte le lampade brillarono a un punto fra lo scrosciar degli applausi.
La sala era già sgombra per il ballo e poche persone vi passeggiavano, mentre gli altri invitati si pigiavano ancora, fumando sigarette, sorbendo gelati, nelle stanze che fronteggiano la valle del Silenzio, dipinte pure dal Tiepolo con l’estro più fantasioso e denominate da Carlino la Cina dei mostri, la Georgica, la Galante, l’Olimpo, la Darwiniana, l’Anacreontea. Il successo della fiaba era stato così grande che soltanto le signorine parevano impazienti di ballare. Si faceva un gran chiasso intorno a Carlino e intorno alle più sicure delle presunte fate.
Ah Lorelei
Rapir vorrei!
mormorò a Gonnelli il cupido Bessanesi, molto ammirando lo scollato della signora tedesca. “Ah, Bessanesi, Bessanesi, che dice mai?„ fece alle sue spalle, battendolo col ventaglio, donna Bice.
“Sì, lor e Lei - Rapir vorrei!„ rispose il pittore, pronto.
Donna Laura prese a braccetto una delle fate, una piccola fata irrequieta e nervosa, sua compagna di classe a Poggio Imperiale, e col pretesto di vedere i Tiepolo si fece portare nell’Anacreontea, il mirabile salottino dei putti, l’ultimo delle stanze verso levante, dove non c’era nessuno. La interrogò sugli amori di Maironi e di Jeanne.
“Ma non se ne parla più!„ rispose la fata spensieratella, tutta scintillante per essersi fatta vedere a braccetto della gran dama. “Me ne domandi perchè non lo vedi qui? È a Brescia, per affari. È una cosa accettata, un matrimonio. Si trova che lei potrebbe qualchevolta dissimulare un po’ meglio, fare come fa lui ch’è irreprensibile in questo, ma poi in fondo si pensa: un marito senza moglie... una moglie senza marito... non per loro colpa... giovani... scusa, siamo proprio sinceri, cosa tanto difficile!... è una fortuna che si siano legati fra loro e non abbiano guastate delle altre unioni. Se si è morali ma non ipocriti bisogna dire così! Qualcuno critica Dessalle che dovrebbe fare, dovrebbe dire! Oh, è tanto simpatico Dessalle! Come è simpatico! Ma qui si è severi, pedanti! Oh, non ne hai un’idea come si è severi! Ma senza giustizia, però; a qualcuna si perdona tutto, ma proprio tutto, e a qualcun’altra si perdona niente„.
Ell’aveva l’aria, così parlando, d’insinuare un po’ con risentimento, un po’ con soddisfazione, ch’era esperta
particolarmente di tale severità e di tale ingiustizia. Infatto era di quelle che accostano volentieri la mano al
frutto vietato, ma nel punto di spiccarlo si sentono forse, con un’ombra di rammarico, più oneste di quanto
avrebbero creduto e ritirano la mano.
Proprio in quel momento il maestro Bragozzo e una giovine signora sua allieva, due pure cellule sane di quel mobile tessuto umano, si confidavano certi loro ingenui comuni moti religiosi e morali dell’animo. Il maestro era beato di non vedere “quell’amigo„ ch’egli come buon cristiano, come buon marito e come buon clericale, non poteva soffrire.
“Me par de respirar„, diceva.
E la giovane signora, tutta fremente di speranze sante:
“Crede, maestro, che ci sia un principio di rottura?„
“Mi no so gnente. So che stasera no se sente quel solito odorin de pastizzo vecio che a mi me rebalta el stomego. Ghe xe un prete cole braghe, ghe xe tre o quatro vergognose de signore che a meterghe un piè su la coa intanto che le camina se ghe tira zo tuto, ma basta!„ La giovane signora sorrise.
“Crede proprio, maestro, che qui non ci siano altri pasticcetti stasera?„
“Ghe ne sarà, ma i xe in credenza, e quell’altro, invece, el saria in tavola„.
Il maestro concluse che non vedeva l’ora di essere a casa sua dove non c’erano pasticci nè in tavola nè in credenza e dove le sue donne, “siben che le ghi n’a puchi„, benchè avessero pochi quattrini, vestivano più abbondantemente di queste.
Sopraggiunse Jeanne, sorrise al maestro e disse alla giovine signora che forse avrebbe il piacere di passare una parte dell’estate a Vena di Fonte Alta, vicino a lei che ci aveva una villetta. Alla giovine signora balenò subito che ci sarebbe venuto anche Maironi. Arrossì molto nel rispondere, intimidita, una parola gentile, tanto quell’idea la turbava; benchè Jeanne le ispirasse, con la soggezione, una segreta simpatia, una idea vaga che quel cuore non fosse mondano quanto le abitudini esterne, un senso pietoso delle tentazioni preparatele da sfortunati casi, dal piccolo presidio cui probabilmente aveva trovato in una religione male insegnata con la parola e punto con gli esempi.
Il ballo ferveva, il “fiolo de la balia de Carleto„ si copriva d’ignominia conducendo a rovina una quadriglia,
e intanto alcuni uomini serii, consiglieri del Comune, liberali, stavano a fumare, a discorrere di elezioni sul terrazzo
attiguo all’Anacreontea. Un telegramma del deputato aveva loro appreso lo scioglimento del Consiglio e
l’avvocato Moretti era poco persuaso di una candidatura liberale Maironi che taluno intendeva porre innanzi.
Che uomo è costui, in fatto? si diceva l’avvocato. Lo si era visto sindaco clericale e come sindaco faceva bene,
non c’era che dire. S’innamora, fa benone, perchè la Dessalle è una bellissima donna e perchè a trent’anni,
quando si ha e non si ha moglie, non si può fare che di peggio. Se la Dessalle fosse una signora del mondo clericale
tutto sarebbe passato in silenzio come una cosa di famiglia.
Così invece, per il fatto più naturale del mondo, i clericali feroci, notate bene, i feroci e non gli altri, hanno
condotte le cose in modo da costringere quest’uomo a ritirarsi. Quest’uomo si è ritirato e ammettiamo pure
che abbia rotto col suo partito del tutto e sinceramente, ma in fondo in fondo sarà egli proprio trasformato? Il
commercio che ha qui è affare di fisiologia e non conta. Si dice che ha smesso le pratiche religiose, che si è dato
al libero pensiero, alla filosofia positiva o che so io. Son cose che non si sanno mai bene e sopra tutto non si sa
mai bene quanto possano durare certi accessi. Per me dubito molto che un uomo allevato nelle idee in cui fu
allevato Maironi e nutrito di esse per ventotto anni o giù di lì, possa repentinamente diventare un altro uomo,
e in questo caso consiglierei il caute negotiari. Aspettiamo una prova più lunga e più decisiva. Ecco„.
Il dottor Pinton non era di questo parere. Secondo lui, appunto per il dubbio che i nuovi sentimenti di Maironi non fossero solidi e duraturi, conveniva prenderlo subito e legarlo. Prenderlo e legarlo, anche per impedire che lo prendessero i socialisti. A lui constava che Maironi aveva tenuto discorsi molto sospetti, che quel pericolo c’era, che il maggior freno era per Maironi una certa aristocrazia d’ingegno, di cultura e di camicia pulita. Bisognava legarlo! I due non si poterono accordare e alzarono la voce per modo che il terzo, l’avvocato Bonato, dovette ammonirli, per prudenza. Qualcuno si affacciò in quel punto al terrazzo del salottino, chiamò: “cavaliere!„ Tutti e tre gl’interlocutori si mossero a un tempo. In fatto si voleva il più giovane, il cavaliere Moretti, per una coppia di lanciers che mancava.
“Tu non sai„, disse il cavaliere Pinton al cavaliere Bonato, appena uscito il cavaliere Moretti, “perchè si riscaldava! Quaiotto deve aver detto che se i liberali non portano Maironi, i clericali non combatteranno Moretti. Altrimenti lo combatteranno a oltranza, e Moretti... insomma... ha paura„.
L’avvocato Bonato sapeva perfettamente che il dottor Pinton alla sua volta era malcontento di Moretti, membro della Commissione direttiva dell’ospedale, perchè aveva osteggiato la nomina di un suo fratello a ragioniere dell’Opera Pia.
“Ho capito„ diss’egli. “Vuol dire che si potrebbe anche portare Maironi e non Moretti„.
Ciò non gl’impedì di dire più tardi a Moretti che si sarebbe potuto rinviare la candidatura Maironi alle prime elezioni suppletive, ossia portare Moretti e non Maironi. Egli non era disonesto, ma filosofo e amico del quieto vivere. Non si accorse della contraddizione che dopo esservi incappato e si liberò dal brucior lieve della coscienza con una ideale scrollatina di spalle e con un bicchiere di Rüdesheimer centellinato nella Darwiniana. Il battesimo strano di quella stanza era stato ispirato a Dessalle dalla scimmia che Tiepolo vi mostra aggrappata ai balaustri di uno scalone e dal negro che ne sale faticosamente un altro. Le pareti hanno quadretti deliziosi di costumi veneziani e chioggiotti.
“Bella cosa l’ascendere!„ pensò l’avvocato guardando l’aguzza nera barbetta di un sottile, nero Pantalone dei Bisognosi che inarca ossequioso la flessibile spina dorsale davanti a sfarzose dame.
“Ma se si deve faticar tanto per arrivare poi a far la commedia mascherata, come la fa quel Pantalone lì o come, in fondo, la facciamo tutti, io e gli altri, ho paura che quest’idea di ascendere sia stata proprio l’idea di una bestia. Di buono c’è questo„.
Voleva dire il Rüdesheimer.
Anche donna Bice aveva trovato un’amica, la moglie del maggiore di artiglieria Alberto D’Ambiveri, una giovane signora romana, buona di cuore e, nei momenti gai, terribile di lingua. Seduta accanto a Bice sur un divano della Cina, aveva un motto, un maligno sussurro per ciascuna delle signore e per molti fra i cavalieri che sfilavano loro davanti, entrando nella sala da ballo. Bice, naturalmente, non conosceva nessuno e la D’Ambiveri le faceva sotto voce le presentazioni. “Signorina... rapa — Conte... oca pomposa — Signorina... suor Preziosa, guardatemi e non toccatemi — Contessa... suor Severa, toccatemi e non guardatemi. — Signora... suor Tenera, guardatemi e toccatemi — Contessa... sangue reale, imperatrice di Ciampino — Tenente... uccellin bel verde — Signorina Carolina... Carlamagna — Signorino e signorina... scoiattolo e scoiattola — Madama... la virtù in gloria„. Quando passò Destemps che dava il braccio alla padrona di casa, non si tenne dal mormorare: “Baciate il piede al successor di Piero„. Donna Bice sorrise di un sorriso profondo e si affrettò a informarsi di Maironi. Era veramente interessante?
“Qui non piace„, rispose la D’Ambiveri. “Lo trovano troppo serio. Adesso questo amore lo ha riabilitato un poco, ma non basta. Bisognerebbe che piantasse Jeanne Dessalle e ne pigliasse un’altra„.
“Ti lasceresti pigliare, tu?„
“Io? Ma che dici? Povero Alberto! Capisco Jeanne del resto. Poichè poi Maironi ha una figura aristocraticissima e non è bello, veste bene e non è un elegante nè dev’essere di quelli che ti schiccherano una dichiarazione due ore dopo averti conosciuta. Aggiungi che quell’uomo lì, con la rapa di moglie che ha avuto, dicono, e con la vita che ha fatto deve aver portato a Jeanne tesori intatti di passione. Insomma capisco Jeanne e non farmi dire altre sciocchezze„.