come un vero piccione, nella sua toeletta cenere guernita di pizzi neri, scendendo di carrozza presso la scuderia e affacciandosi al ciottolato che sale, sospirò, disse a due signorine di cui teneva faticosamente la tutela: “Oh Dio, tose, gavìo cali? Mi sì, savìo„. E alla sua volta l’uomo acido, nel mettere il piede col maestro di musica Bragozzo sul ciottolato che scende dal colle, storse incredibilmente la bocca, il naso,
le sopracciglia e dolendosi di non possedere le estremità marmoree di certo illustre uomo grandeggiante nel mezzo
di una piazza della città, brontolò contro la buaggine propria di venire a rompersi i piedi per avere poi il piacere di rompersi anche le tasche. Le carrozze salivano cariche di dame sfarzose, di nereggianti e biancheggianti cavalieri. La contessa De Altis ne aveva tre nel suo landau. Due di costoro in abito nero e cravatta bianca, torturavano il terzo per il suo smoking e la sua cravatta nera. Non sapeva egli che la sera prima, al caffè, si era deciso di andare tutti in frak? Il disgraziato, uso venerare nonchè le sacre sentenze anche le auguste opinioni del caffè, si difendeva tra umilmente, allegramente e dispettosamente, descriveva con brio la scena della sua “vestizione„ in casa, le apostrofi delle figliuole: “Papà, la velada, sètu!„ “No, papà, che la xe onta!„ i consigli della moglie: “El veladon