Piccolo mondo moderno/Capitolo quinto. Numina, non nomina/IV
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Numina, non nomina
IV
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IV.
Un improvviso rombo di tuono troncò il ballo. Invano Bertha Rothenbaum, con una familiarità di zitellona
esperta e bonaria, propose alle pupille della Raselli di aspettare la pioggia per battezzare un bel giovane israelita
che ballava il dancing a meraviglia. Le carrozze erano state annunciate da un pezzo e gl’invitati presero la fuga.
Ad una ad una le coppie di fanali si vennero spiccando dal mobile guazzabuglio che ne luceva davanti all’ingresso
della villa, corsero via velocemente lungo il muro di cinta, scomparvero nelle tenebre. Un altro lungo
rombo di tuono empì le ombre del giardino, entrò per le finestre aperte nelle sale della villa come la voce formidabile
di un minaccioso Padrone che dalla sua nera tenda di nuvole chiedesse conto alle vanità umane, alle cose
spaurite e mute, di averlo dimenticato. Le finestre furono chiuse, gli ultimi passi e le ultime voci dei servi tacquero.
Appoggiata al balcone della sua camera da letto, Jeanne, stanca e insonne, ascoltò inconscia i fremiti delle
frondi inquiete nel basso, guardando il continuo lampeggiar silenzioso sul ciglio nero dei colli, simile a un
continuo febbrile chiudersi e aprirsi di un grande occhio di fuoco nel cielo. Assaporava la solitudine libera, il dolce
alleviamento di un incomportabile peso di simulazione. Se Maironi fosse stato presente ella non avrebbe sentito
che il piacere di venire ammirata davanti a lui per la sua bellezza, per l’eleganza, per lo splendore dell’ospitalità.
Tutto gli avrebbe offerto, nella sua mente, questo tributo di omaggi altrui! Anche a lui assente avrebbe potuto
offrirli con gioia, senza la lettera dolorosa. Così, quelle lunghe ore non le avevano dato che fatica e tedio.
Mai la gente non le era parsa tanto sciocca e falsa, mai non si era parsa tanto sciocca e falsa ella medesima. Il
fragore del tuono, i fruscii delle frondi, l’occhieggiare continuo dei lampi la ristoravano, con la sincerità loro,
di tanto simulare e veder simulare. E piacevano a lui! Dio, che le aveva detto Bassanelli? Suo padre! In passato
ella ne avrebbe sorriso; ma ora! Incominciò a piovere quietamente, silenziosamente. Si ritrasse dal balcone,
aperse il cassetto dello scrittoio. La lettera era lì, presso la teca di argento dove Jeanne custodiva le altre di lui, il
suo tesoro. Ne soleva rileggere qualcuna ogni sera, e il profumo di hèliotrope che usciva dal cassetto aperto le
ridiceva le parole dolcissime a cui era solita di ritornare. Oh non questa sera! Questa sera gli occhi suoi ritornarono
alle parole tristi.
“... quando udii per un momento suoni fievoli di campane grandi che parevano incommensurabilmente lontane. Venivano dall’alto e non so dire la impressione che facevano in quel gran buio, in quel gran silenzio. Stetti in ascolto con la mano all’orecchio, trattenendo il respiro. Non udii più niente. Ossia, udii una voce vicina dire nel dialetto del paese: “i campann de Püria.„ Era il custode della casa, il sindaco di Albogasio. Pensai che si fosse annoiato di aspettarmi, gli dissi che poteva andarsi a coricare. “C’è qui la Leu„ dice. “La Leu?„ faccio io. “A quest’ora?„ - “Ma,„ dice, “è un po’!...„ e compie la frase sorridendo, col solito gesto della mano alla fronte. “È un pezzo„, dice, “che va dietro a domandarmi quando viene e quando viene perchè ha da dirgli delle cose, delle cose vecchie e io domando cosa sono e lei risponde che non le può dire a nessuno, ma io, già, credo... eh!„ Gli diedi l’ordine di condurmela. Poco dopo udii la voce della Leu: “Avete capito che non dovete star qui, voi? Avete capito che non dovete stare ad ascoltare? Eh? Avete capito?„ Infatti il sindaco se ne andò ridendo.
“La povera vecchia incominciò con offrirmi un canestro di prugne verdi e poi mi fece un mondo di ciarle sulla buona salute mia e sulla cattiva salute sua, sul desiderio, che la tormentava, di vedermi e sulla paura di morire prima ch’io venissi, sulla malignità de’ suoi parenti e anche del Tognin, il custode, che la credono mentecatta. Si commosse ricordando, come sempre me lo ricorda, il caffè che aveva portato a mio padre proprio lì dove stavamo, la notte ch’egli venne segretamente da Lugano, per la montagna e trovò la mia povera sorellina morta. Io non pensavo che avesse cose nuove a dirmi, supponevo che finisse col domandarmi qualche soccorso e mi feci raccontare da capo tante cose dei miei genitori che sempre mi fa piacere udire da lei, la condussi a ripetere certo suo discorso abituale: “Lü l’è on bel scior e un bon scior, ma i soeu vecc i eren bej e bon al doppi.„ Finalmente mi disse che aveva paura di venire sgridata dal Tognin se si fermasse troppo e che doveva darmi la cosa per la quale era venuta.
“Qui cominciò a parlarmi di quel che accadde in casa mia negli ultimi giorni della malattia di mia madre e nei primi giorni dopo la sua morte avvenuta il 26 gennaio 1862 per una polmonite presa al Cimitero di ritorno da una corsa al villaggio nativo, Castello, soffiando la breva. Secondo la Leu ci sarebbe stato allora qui un vero saccheggio. La casa era sempre piena di gente e chi pigliava una cosa e chi ne pigliava un’altra. Mio padre era morto due anni prima, io aveva poco più di due anni. Venne da Brescia un incaricato di mia nonna, chiuse la casa, nominò un custode, il padre di Tognin, e mi portò via.
La Leu pretende avere avuto in dono da questo incaricato i mobili della sua camera da letto e un vecchio tavolino ch’ella giura e spergiura esserle stato promesso dalla povera mamma. In questo tavolino trovò un grande portafogli ricamato dalla mamma per mio zio Ribera. Danaro non ce n’era, dice lei. Lo credette vuoto e lo tenne anche per memoria del signor ingegnere. L’inverno scorso capitò a Oria un notaio di Porlezza e la Leu, che ha una casetta, un po’ di bosco e qualche piccolo risparmio, pensò di fare testamento, di lasciare a me, forse per uno scrupolo di coscienza, quei mobili e anche il portafogli, che mostrò al notaio. Il notaio vi frugò dentro, si accorse che vi erano delle carte, diede loro un’occhiata e le disse di restituirmele subito perchè, senza valore per lei, a me sarebbero state care. Ella mi pregò di accettare la restituzione delle carte e anche del portafogli. Mi disse che lo aveva portato di nascosto per non lasciarlo vedere dal Tognin. Infatti lo levò, per darmelo, di sotto le prugne.
“La congedai e salii palpitante a chiudermi nella mia camera con il prezioso portafogli. Non è veramente un portafogli, è una cartella montata in velluto nero con la scritta ricamata in oro “Ingegnere Pietro Ribera„ e con molte guaine interne, due delle quali contenevano appunto delle carte.
“Oh Jeanne, Jeanne, quale lettura! Quale tenera, pacata commozione in principio e poi quale calda, torbida tempesta!
“S’indovina che mio zio non si servì mai della cartella e che dopo la morte di lui, avvenuta all’ Isola Bella, pochi mesi prima che io nascessi, se n’è servita la povera mamma come di un reliquiario.
“Prima mi vennero alle mani alquante lettere scambiate fra lei e mio padre quando mio padre era emigrato e mia madre con la mia sorellina, con lo zio e la sua governante dimorarono a Oria, stentando la vita egli a Torino e loro qui. Son lettere piene di vita e di freschezza, specialmente quelle di mia madre, che mi hanno fatto spesso sorridere per certi tocchi di vivace comicità, per certi schizzi di figure umane tanto vive ch’ella vi butta giù alla brava, senza pretese, mentre mio padre adopera un linguaggio più letterario. La figura patriarcale dello zio Piero, la figura soave della piccola Ombretta, come la mia sorellina Maria è chiamata in queste lettere, n’escono così piene di bontà e di grazia! Ah! e anche così semplici! Sentivo, leggendo, come una nostalgia di quel mondo povero e puro e un disgusto del nostro; non solamente di quello tanto moderno dove vivi tu ma di quell’altro pure dove fui allevato io, del mondo Scremin con la sua vecchia parrucca e la sua vecchia cipria, con le sue grettezze segrete e le sue livree pubbliche. Ma poi un’altra rivelazione mi sorprese e mi commosse; la rivelazione di un profondo dissidio religioso tra mio padre e mia madre. Mi pare che mia madre avesse presso a poco le idee alle quali sono venuto io adesso. Invece mio padre era un fervido credente. Ma quanta vita nella sua fede, quanta purezza, quanto calore, quanto umile, tenero amore per la sua compagna incredula! Niente la superbia di chi si pretende solo possessore della verità; fede, semplice fede, fede di uno che crede come una pianta piega verso il sole, perchè non potrebbe fare altrimenti. Quindi trovai lettere dello zio e della nonna Rigey, meno interessanti. Poi una busta con una ciocca di capelli di mia sorella. Quale commozione dopo aver letto di lei quello che avevo letto, povera piccina! Ma più ancora pensando a mio padre e a mia madre che a lei. Poi un’altra busta con la scritta di pugno della mia povera mamma: Preziose reliquie.
“L’apro; un poco di cenere in un foglietto bianco. Preziose reliquie! Cosa potevano essere? Pensai e mi venne in mente questo, non so dire con quale tremito di riverenza: le lettere di amore di mio padre. Ah che cosa, Jeanne, che parole, che cenere casta e santa! Che unione è stata quella di mio padre e di mia madre, quanto era dolce questo mio pensiero e quanto era amaro! Mi son sentito come soffocare, prender via dal mondo dei vivi, portar là dentro fra quelle ombre di un mondo passato.
Dovetti aprir la finestra, star lì un pezzo con le mani alle imposte, respirar l’aria notturna, sentendo la realtà delle cose presenti senza pensare a niente. Non vi erano più che due carte da guardare. Fui incerto se leggerle o no, mi pareva di essere esausto, di non poter più accostarmi a quelle reliquie con attenzione degna. Vinse un sentimento di ossequio. La prima delle due carte era di affari, molto importante, tale da poter influire profondamente sulla mia vita. Ora non è il momento di parlarne. L’altra era un foglietto aperto, con questa intestazione di pugno della povera mamma:
“Parole scritte da lui per mia preghiera, un giorno felice.
“Jeanne, sono brevi, ma io non le posso trascrivere. Forse lo potrò un giorno; nello stato presente dell’animo mio, tenebroso e tempestoso, non ne son degno. Non voglio dare la mia mano alla parola religiosa di mio padre e sentire che non posso darle impero nella mia mente. Il “giorno felice” era il 15 ottobre 1859. Le anime di mio padre e di mia madre si erano ricongiunte nella stessa fede, in un atto sincero di culto, nel giorno di S. Teresa, onomastico della povera nonna Rigey. Mio padre si sentiva meglio, speranze fallaci rinascevano in lui e intorno a lui; le sue parole sono soavissime e vi ho parte anch’io che stavo per nascere.
“Quando il foglio mi cadde di mano e io mi volsi per un istintivo moto alla finestra aperta, a guardar le cose stesse che avevano guardato mio padre e mia madre, ecco ancora il fievole suono delle campane grandi che parevano incommensurabilmente lontane. Oh Jeanne, io vi ho sentita la voce di mio padre, tanto triste, tanto severa! Comprendi?
“Partirò sabato col primo battello, per Lecco e Rovato. Vorrei pure informarmi di tante cose, prima, di tante persone del tempo passato. Addio! Come penso io a te e all’avvenire? Lo so io ancora? E sarebbe stato degno, sarebbe stato possibile ch’io tacessi con te tutte queste cose e la mia dolorosa tempesta interna?„
Le Fate, che in quel momento, felici della loro serata trionfale, ne parlavano, facendosi spogliare, alle cameriere dormigliose e loro lodavano, per pungerne l’amor proprio, l’acconciatura di Jeanne, non sospettavan certo che lei, la maggior trionfatrice, chiusa la persona in una veste da camera, sciolti i capelli magnifici, piegata la fronte sopra le mani congiunte a coprire una lettera, piangesse, come la notte, un silenzioso pianto.