Piccolo mondo antico/Parte seconda/Esüsmaria, sciora Lüisa!
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte seconda - Per il pane, per l'Italia, per Dio | Parte seconda - Ombra e aurora | ► |
CAPITOLO X.
Esüsmaria, sciora Luisa!
Nelle prime ore pomeridiane del 27 settembre Luisa ritornava da Porlezza con alcune carte da copiare per il notaio. In quel tempo gli scogli fra S. Michele e Porlezza erano affatto selvaggi, non avevano la sottile briglia che ora li doma. Luisa s’era fatta tragittare in barca per quel breve tratto e poi aveva preso, a piedi, la stradicciuola che come tutte quelle del mio piccolo mondo, antico e moderno, non comporta altri metodi di viaggiare; la stradicciuola graziosa e perfida che cerca ogni mezzo di non arrivar mai dove il viandante vorrebbe. A Cressogno passa sopra la villa Maironi che nemmanco si vede. «Se la incontrassi!» pensava Luisa con un ribollimento del sangue; ma non incontrò nessuno. Sull’erta di Cressogno al Campò il sole bruciava.
Quando si trovò nel fresco, alto vallone che chiamano il Campò, sedette all’ombra del colossale castagno che vive ancora, ultimo di tre o quattro venerabili patriarchi. Guardava le case del suo nativo Castello appollaiate a tondo sopra un alto spuntone di scogli ombrosi e pensava alla povera mamma compiacendosi che almeno ella fosse in pace, quando sentì esclamare: «Oh cara Madonna!». Era la süra Peppina che veniva pure da Cressogno, disperata di non aver potuto trovare uova né a S. Mamette né a Loggio né a Cressogno. «Adess el me coppa el Carlo! El me mazza addirittüra, cara lee!» Avrebbe voluto andare anche a Puria, ma era mezza morta di stanchezza. Che paesi da cani! Che strade! Quanti sassi! «quand pensi al me Milan, cara lee!» Sedette anche lei sull’erba presso Luisa, le disse un mondo di tenerezze e volle che indovinasse con chi avesse parlato di lei, allora allora. Ma con la signora marchesa! Ma sicuro! «Ah cara lee! S’ciao!» Pareva che la Peppina avesse gran cose a dire e non osasse e ne provasse una molestia in gola, volesse pur farsele strappare. «Che roba!», esclamava ogni tanto «Che roba! Che discors! S’ciao, s’ciao!» Luisa taceva sempre. Allora l’altra cedette a quel gran prurito e buttò fuori ogni cosa. Era andata dal cuoco della signora marchesa per farsi prestare delle uova e la signora marchesa, udita la sua voce, aveva voluto assolutamente vederla, trattenerla a chiacchierare, e lei si era sentita nel cuore come una ispirazione del cielo che le diceva: parla di quella povera gente! Forse è il momento buono. Parla della Maria, «de quel car belee, de quel car ratin, de quel car strafoi!». Ah era stata una ispirazione del diavolo e non del cielo. Aveva cominciato a parlarne, voleva dire quanto era bella, quanto era cara, e quella gran meraviglia di un gran talento così spropositato; e lei, la bruttona, con una faccia «che ghe disi nagòtt», a interrompere: «lasci stare, signora Bianconi; so ch’è molto male educata e altro non può essere». Aveva provato allora a toccare un altro tasto, la disgrazia del signor ingegnere rimasto cieco d’un occhio. E la marchesa: «quando non si è onesti, signora Bianconi, il Signore castiga». Qui la Peppina, guardando Luisa, si pentì delle sue chiacchiere, si pose ad accarezzarla, ad accusarsi d’aver parlato, a dirle che si desse pace. Luisa l’assicurò ch’era tranquillissima, che di nulla si sorprendeva più da parte di quella persona. La Peppina volle ad ogni modo darle un bacio e partì brontolando fra sé molti «poer a mi!» col vago sospetto di aver fatto, senza uova, una gran frittata.
Luisa si alzò, si voltò a guardar verso Cressogno stringendo il pugno. «Almeno uno scudiscio!», pensò. «Almeno frustarla!» L’idea di un incontro, la vecchia idea che l’aveva fatta balzar di passione quattro anni prima, la sera del funerale di sua madre, la stessa idea che le era balenata testè, nel passar da Cressogno, la riafferrò violenta, le fece dare un passo verso la discesa. Si fermò subito e ritornò lentamente indietro, si avviò verso S. Mamette, arrestandosi ogni tanto a riflettere, con la fronte scura e le labbra strette, a sciogliere qualche nodo nelle fila di una tela che veniva tessendo nel suo segreto.
A Casarico andò dal professore per offrirgli un ritrovo a casa sua con la fidanzata per l’indomani alle due. Nel congedarsi gli domandò se possedesse ancora le carte Maironi. Il professore, meravigliato della domanda inattesa, rispose di sì e ne aspettava una spiegazione; ma Luisa partì senz’altro. Le premeva di esser a casa, non potendo far conto per la custodia di Maria nè sullo zio nè sulla Cia e fidandosi poco della servetta licenziata. Trovò la Maria sul sagrato, sola, e sgridò la Veronica. Poi andò in camera, si pose a scrivere a Franco.
Scriveva da cinque minuti quando udì un bussar leggero alla finestra dello stanzino attiguo. Quella finestra guarda sopra una scaletta che mette dal sagrato a certe stalle e quindi ad una scorciatoia per Albogasio Superiore. Luisa andò nello stanzino e vide all’inferriata il viso rosso, scalmanato della Pasotti che le fece segno di tacere e le domandò se avesse visite. Udito che no, la signora Barborin diede due frettolose occhiate in alto e in basso, corse giù per la scaletta ed entrò in casa tutta trepidante.
Povera donna, era in terreno proibito e non aveva in mente che lo spettro di Pasotti furibondo.
Pasotti era a Lugano. Oh Signore, sì, era a Lugano! Dato a Luisa quest’annuncio, la disgraziata creatura cominciò a stralunar gli occhi e a contorcersi. Pasotti era a Lugano per il gran pranzo dell’indomani, per le provviste. Come, Luisa non sapeva di questo pranzo? Non sapeva chi ci sarebbe venuto? Ma la marchesa, la signora marchesa Maironi! Luisa trasalì.
La Pasotti fraintese l’espressione dei suoi occhi, credette leggervi un rimprovero e si mise a piangere con le mani sul viso, a dirsi nelle mani, scotendo quei due poveri riccioloni neri, che ci aveva una rabbia, una rabbia! Avrebbe vissuto un anno a pane ed acqua piuttosto che invitar a pranzo la marchesa! Questa del pranzo era certo una gran croce per lei, in causa di tanti pensieri, della fatica di preparar tante cose e delle tremende strapazzate di Pasotti; ma la croce suprema era di far dispiacere a Luisa! Almeno fosse una croce buona da offrire al Signore! Ma no, ci aveva troppa rabbia. Era venuta apposta per dire alla sua cara Luisa quanto soffriva per questo pranzo.
«Perdònem, Lüisa», diss’ella con la sua voce velata che pareva venire da una vecchia spinetta chiusa. «Ghe n’impodi propri no, propri no, propri no!»
Eran sedute accanto sopra un canapè. La Pasotti si levò di tasca un fazzolettone, se ne coperse gli occhi con una mano e con l’altra cercò, senza volgere il capo, quella di Luisa. Ma Luisa si alzò, andò alla scrivania e scrisse sopra un pezzo di carta: "A che ora viene la marchesa? Che via tiene?". La Pasotti rispose che il pranzo era alle tre e mezzo, che la marchesa doveva scendere verso le tre allo sbarco della Calcinera, che Pasotti vi si sarebbe trovato a riceverla con quattro uomini e la famosa portantina che aveva servito nel secolo scorso per un arcivescovo di Milano.
Luisa ascoltò attentissimamente ogni cosa, in silenzio. Prima di andarsene, la Pasotti le disse che sarebbe stata felice di baciare quel caro amore della Maria ma che temeva non sapesse poi tacere. Qui la buona donna si cacciò mezzo il braccio sinistro in tasca, ne cavò una barchetta di metallo, pregò Luisa di darla alla sua figliuola nel nome di un’altra vecchia barca sdruscita che non voleva essere nominata. Poi scappò giù per le scale e scomparve.
Luisa tornò alla lettera incominciata per Franco e dopo aver meditato lungamente con la penna in mano, la ripose senz’avervi scritto parola, prese le carte del notaio, si mise a copiare.
A pranzo non parlò mai. Il pranzo fu triste anche perché la Cia fece un’osservazione inopportuna sulla mancanza di formaggio nella minestra che così non poteva piacere al suo padrone; e il suo padrone s’arrabbiò, le disse ch’era una fatua e che se la minestra era senza formaggio, lei era senza sale. «Già», mormorò la Cia, «s’arrabbia solo con me.» L’argomento suggeriva tante cose amare e inutili a dire che nessuno parlò più. Solo Maria uscì, dopo qualche minuto, a osservare con una piccola aria di sapienza: «perché non abbiamo denari, non è vero, mamma, non bisogna mettere il formaggio nella minestra?». Sua madre la baciò e le disse di tacere. La piccina tacque, contenta di se stessa. La finestra era aperta, si udirono alcune voci schiamazzar forte nella strada verso la scalinata del Pomodoro e Luisa riconobbe quella di Pasotti che certo ritornava allora da Lugano con le provvigioni e parlava così forte apposta, per farsi udire a casa Ribera.
Dopo pranzo lo zio Piero sedette nella sua poltrona, in loggia, e si prese Maria sulle ginocchia. Luisa uscì sola in terrazza. In faccia al Bisgnago dorato dal sole, la costiera della Valsolda era quasi tutta nell’ombra. Lontano lontano il santuario della Caravina brillava sulla punta verde protesa oltre i sassi del Tention e gli oliveti di Cressogno, fuori dell’ombra, nel lago ceruleo. Luisa guardava laggiù con una espressione di contentezza fiera. Ah signor Pasotti, se il vostro pranzo è una vendetta, l’avete pensata male!
La sua risoluzione era presa. Glielo offriva il destino questo incontro con la vecchia canaglia! Non ebbe un dubbio né uno scrupolo. La passione da tanto tempo concepita, accarezzata e covata, aveva accumulato in lei quella forza che, quando è piena, trasforma di colpo il pensiero in atto, per modo che ne par tolta la responsabilità dell'agente e n’è invece solamente risospinta più indietro, ad un primo interno moto di consenso alla tentazione.
Sì, l’indomani, o allo sbarco, o sulla Calcinera, o sul sagrato dell’Annunciata ell’affronterebbe la marchesa con disprezzo, le romperebbe la guerra in faccia, la consiglierebbe di guardarsi perché si volevano adoperare contro di lei tutte le legittime armi. Sì, le direbbe così e così farebbe, da sé, da sola, poiché Franco non voleva. Se Franco aveva promesso qualche cosa, ella non aveva promesso niente. Rientrò in loggia, si mise a discorrere con lo zio, a scherzare con Maria, più allegramente che non avesse fatto da molti mesi. Più tardi scrisse un biglietto all’amico avvocato V. pregandolo di venire appena gli fosse possibile. Voleva saper da lui come avrebbe potuto usare delle carte possedute dal Gilardoni. Quindi si rimise a copiare per il notaio di Porlezza. Maria non era contenta di tanto scrivere che faceva la mamma; però, quando la mamma le disse che scriveva per mettere il formaggio nella minestra dello zio, s’affrettò a dire: «e anche nella mia, non è vero, mamma?». Appena fu posta a letto, vedendo che la mamma tornava a scrivere, le venne in mente di chiedere se la nonna di Cressogno avesse il formaggio nella minestra. «Ne ha troppo», rispose Luisa, «e bisogna cavarglielo perché non le faccia male.»
«Oh no, cavarglielo, poveretta!»
«Taci, dormi.»
Ma la bambina non si addormentò.
Dopo un pezzetto parve a Luisa di udirla piangere. Si alzò, andò a vedere. Piangeva veramente, sottovoce.
«Cos’hai?»
«Il papà!», singhiozzò la povera piccina. «Il mio papà!»
«Verrà, cara, verrà presto il tuo papà. Dormi e fa un bel sogno che viene papà insieme col Re Vittorio Emanuele e che la mamma e la Cia fanno un bel risotto, che ti piace tanto, e che tu dici: viva il Re! e che il Re dice: niente affatto, viva invece Ombretta Pipì e il suo papà! Fa questo sogno, sai.»
«Sì, mamma, sì.»
L’indomani il professore Beniamino capitò a Oria un’ora prima di quella che Luisa gli aveva indicato. Dopo il sì di Ester l’uomo era trasfigurato. Pareva molto più giovane di prima. Il colore giallognolo della sua pelle, irradiato da una rosea luce interiore era scomparso quasi del tutto, non gli si vedeva più che sul cranio dove Luisa si attendeva che tornassero a spuntare, un giorno o l’altro, i capelli. Egli non camminava, non respirava più come prima. Il passo e il respiro erano sempre inquieti, nervosi, rotti da sussulti che rispondevano al balenar d’immagini, Dio sa di quali immagini, sotto quel cranio lucido. Gli occhi non è a dire come brillassero. Solo quando guardavano Ester si stringevano, si velavano di una tenerezza pia, come se il professore avesse avuto paura di incenerire la diletta saettandole addosso senza precauzioni tutto il fuoco dell’anima. Esser guardata a quel modo non piaceva a Ester; e Luisa, la consigliera del professore, ebbe il coraggio di dirgli che non bisognava guardar la sua fidanzata stringendo gli occhi come fanno i cani affettuosi.
Il poveruomo promise che avrebbe cercato di non farlo più e lo fece ancora. Luisa era sempre il suo nume tutelare, l’oracolo che interrogava persino per sapere come dovesse comportarsi nei colloqui con la fidanzata. Nella sua umiltà egli era felice di venir accettato per un sentimento di stima. Pensare ch’Ester potesse amarlo d’amore gli pareva una presunzione ridicola. Per questo egli temeva sempre di sbagliare, con lei, di offenderla. Un dubbio che lo tormentava era questo: sarebbe o non sarebbe da arrischiare un bacio? Appena venutogli questo dubbio, l’aveva sottoposto a Luisa e Luisa, la sapienza incarnata, gli aveva risposto: «no, adesso è troppo presto. Bisogna che il primo bacio non venga nè troppo presto nè troppo tardi.»
La possibilità del «troppo tardi» parve terribile e insopportabile al professore, il quale, ne’ suoi colloquii con l’oracolo, dopo averlo consultato su cento diverse cose, capitava regolarmente ogni volta alla domanda fatale: «e sto basìn?» Luisa in parte ci si divertiva per la sua propensione a cogliere il comico anche nelle persone cui voleva bene; in parte dubitava realmente di una ripugnanza fisica che si manifestasse in Ester, data l’occasione, con violenza e mandasse tutto a monte. Ella si accorse, per fortuna, che il professore pareva sempre meno brutto alla sua fidanzata. Perciò quando lo vide comparire così per tempo, sapendo che più tardi lo avrebbe lasciato solo con Ester per andare a incontrar la nonna, le venne subito in mente che quello poteva essere il giorno del «basìn.» Ma il professore si presentò tutto accigliato. Aveva cattive notizie. A S. Mamette si diceva che fosse stato arrestato e condotto a Como il medico di Pellio, che gli avessero trovato lettere e note compromettenti per altre persone fra le quali si nominava don Franco Maironi.
«Per Franco non ho angustie» disse Luisa. «Del resto, senta, professore; vuol dire che porremo nel conto dell’imperatore d’Austria anche il dottore di Pellio ch’è bello grosso e pesa un mucchio di libbre, ma non pensiamo a malinconie in giorno come questo. Oggi è il giorno del Suo basìn.»
«Ah sì? Ah sì?» fece il professore, tutto rosso e ansante. «Dice davvero, signora Luisina? Dice davvero?»
Sì, ell’aveva parlato sul serio. Gli spiegò che se Ester veniva come aveva detto, alle due, li avrebbe, dopo una mezz’ora, lasciati soli. In loggia c’era sempre lo zio ma non conveniva seccarlo. Potevano restare in sala.
«E allora, con buon garbo, si fa il colpo» diss’ella. «Ma prima io voglio avere da Lei una promessa.»
«Che promessa?»
«Mi occorrono le famose carte.»
«Quando vorrà.»
«Guardi che le domando io, non Franco.»
«Sì, sì, quello che Lei fa è tutto bene. Domani Le porterò le carte.»
«Bravo.»
Luisa discorreva con la sua calza tra le mani, sferruzzando sempre, con un’apparenza di tranquillità ilare che non riusciva a coprir del tutto la sovreccitazione interna, predisposta dal giorno prima, cresciuta coll’insonnia, crescente a misura che si avvicinava il momento di partire. Nello stesso tono scherzoso della sua voce vibrava una corda insolita. Ne’ suoi capelli, sempre correttissimi, era un’ombra di disordine, come il tocco di un lieve soffio che le avesse sfiorata la fronte. Il professore non si accorse di nulla e andò in loggia a discorrere con l’ingegnere, a prendere consiglio anche da lui per una darsena che intendeva costruire in capo al suo giardino onde potervi tenere una barchetta. Maria era pure in loggia e pigliò molto interesse a questa futura barchetta del signor Ladroni. Gli raccontò che ne possedeva una anche lei, corse a prenderla per fargliela vedere e il professore scherzò, la pregò di accompagnarlo a Lugano con la sua barca. «Sei troppo grande, tu!» diss’ella. «La mia bambola sì che la condurrò a spasso in barca!» «Ma cosa mai!» fece lo zio. «Quella barca lì è buona per andare al fondo.»
«No!»
«Sì!»
Ombretta si impazientì e corse in camera per provar la barchetta nel catino, ma nel catino non c’era acqua e la piccina ritornò in sala, mogia mogia, con la sua barchetta in braccio, e non andò più dallo zio.
Ester capitò al tocco e tre quarti. Disse che aveva udito il tuono e che perciò era venuta prima. Il tuono? Luisa uscì subito sulla terrazza a guardar il cielo. Minacce grosse non ne vide. Sopra il Picco di Cressogno e sopra la Galbiga il cielo era tutto sereno fino ai monti del lago di Como. Dall’altra parte, sopra Carona, sì, era scuro, ma non poi tanto. Se la marchesa non venisse per paura del tempo! Prese il piccolo vecchio cannocchiale che stava sempre in loggia. Non si vedeva niente. Già, era troppo presto. Per arrivare alla Calcinera alle tre, la marchesa, colla pesante gondola, doveva partire verso le due e mezzo; Luisa ritornò in sala dov’erano Ester, il professore e Maria. Avrebbe preferito che Maria restasse in loggia con lo zio, ma la signorina Ombretta, quando veniva gente, si appiccicava sempre a sua madre, stava lì tutta occhi, tutta orecchi. Luisa pensò che al momento di partire l’avrebbe mandata via e intanto la tenne con sè. Già, i fidanzati stavan da parte e discorrevano quasi sottovoce.
Alle due Luisa uscì ancora sulla terrazza, guardò col cannocchiale se per caso la gondola spuntasse al Tentiòn. La marchesa poteva forse antecipare, per il cattivo tempo. Nulla. Guardò poi a ponente. Il cielo non era più scuro di prima. Solamente, fra il monte Bisgnago e il monte Caprino, sopra la leggera insenatura che chiamano la Zocca d’i Ment, era fumato su dalla Vall’Intelvi e si affacciava fermo un nuvolone azzurrognolo, sinistro come un sopracciglio aggrottato sopra un occhio cieco. Pareva aver veduto il branco dei compagni torvi che si affacciavano al lago sopra Carona e voler essere della partita anche lui. Luisa cominciò a sentirsi inquieta, ad aver paura che la marchesa non venisse. Andò in giardinetto a guardar il Boglia. Il Boglia non aveva che nuvole bianche, leggere. Ritornò in sala e trovò Maria piantata davanti al professore e ad Ester, che ridevano, molto rossi in viso, l’uno e l’altra. «Sei malata?» aveva detto la piccina ad Ester. — No; perchè? — Perché vedo che ti tasta il polso. — Le cose erano avviate bene, pareva.
Luisa portò via la piccina, le proibì di avvicinarsi mai più a quei signori. Un momento dopo passò lo zio Piero, disse che andava di sopra a scrivere alcune lettere e avvertì Luisa di badare alle finestre della loggia, perchè veniva un temporale. «Addio, signorina Ombretta!» diss’egli. «Addio, signor Pipì!» rispose la bambina, petulante. Egli se ne andò, ridendo.
Luisa, che oramai durava fatica a star ferma, uscì per la terza volta sulla terrazza, guardò col cannocchiale. Il cuore le diede un balzo; la gondola spuntava al Tentiòn.
Erano le due e un quarto.
Una persona che veniva da Albogasio s’era fermata a discorrere sul sagrato con qualcuno che scendeva dalla scaletta sul fianco di casa Ribera. Diceva: «è passata giù in questo momento col signor Pasotti, la portantina. C’è dietro una quantità di ragazzi».
Il cielo era coperto, adesso, anche sul Picco di Cressogno e sulla Galbiga. Solo i monti del lago di Como avevano ancora un po’ di sole. La minaccia del furioso vento temporalesco che in Valsolda si chiama Caronasca si era fatta più seria. Sopra Carona il color delle nuvole andava confondendosi a quello dei monti. Il nuvolone della Zocca d’i Ment era diventato turchino cupo e anche il Boglia cominciava ad aggrottar le ciglia. Il lago era immobile, plumbeo.
Luisa aveva stabilito di partire quando la gondola fosse arrivata in faccia a S. Mamette. Ritornò in sala. Maria le aveva obbedito in parte, non s’era mossa dal suo posto, ma vedendo che il professore faceva ad Ester un discorso lungo e animato, gli aveva chiesto:
«Le racconti una storia?»
In quel punto entrò Luisa.
«Sì, cara» fece Ester ridendo «mi racconta una storia.»
«Oh anche a me, anche a me!»
Un sordo fragor di tuono. «Va, Maria, cara» disse Ester. «Va nella tua camera, va a pregar il Signore che non venga un brutto temporale, una brutta grandine!»
«Oh sì sì, vado a pregar il Signore!»
La piccina se n’andò, con la sua barchetta, nella camera dell’alcova, impettita e seria come se in quel momento la salvezza della Valsolda dipendesse da lei. La preghiera, per lei, era sempre una cosa solenne, era un contatto col mistero, che le faceva prendere un’aria grave e attenta come certe storie d’incantesimi e di magie. Ella salì sopra una sedia, disse le poche orazioni che sapeva e poi si atteggiò come vedeva atteggiarsi in chiesa le più devote del paese, si mise a muover le labbra com’esse, a dire una preghiera senza parole. Colui che allora l’avesse veduta conoscendo il terribile segreto dell’ora imminente avrebbe pensato che l’angelo della bambina fosse in quel momento supremo accanto a lei e le sussurrasse di pregare per qualche altra cosa che i vigneti e gli uliveti della Valsolda, per qualche altra cosa più a lei vicina, ch’egli non diceva, ch’ella non sapeva e non poteva mettere in parole: avrebbe pensato che negl’inarticolati bisbigli di lei vi fosse un riposto senso tenero e tragico, il docile abbandono di un’anima dolce ai consigli dell’angelo suo, al voler misterioso di Dio.
Alle due e mezzo i nuvoloni torvi di Carona diedero un altro tuono cupo a cui subito risposero gli altri nuvoloni del Boglia e della Zocca d’i Ment. Luisa corse sulla terrazza. La gondola era in faccia a S. Mamette e veniva dritta alla Calcinera. Si vedevano benissimo i barcaiuoli far forza di remi. Mentre Luisa posava il cannocchiale, il primo colpo di vento strepitò per la loggia sbattendo usci, vetri e imposte. Atterrita dall’idea di indugiarsi troppo, Luisa chiuse in fretta e in furia, passò correndo per la sala, tolse l’ombrello, uscì senz’avvertir nessuno, senza chiuder la porta di casa e prese la via di Albogasio Inferiore. Passato il cimitero, nel luogo che chiamano Mainè, incontrò Ismaele.
«Dove la va, sciora Luisa, con sto temp?»
Luisa rispose che andava ad Albogasio e passò oltre. Dopo cento passi le venne in mente che non aveva avvertito la Veronica della sua partenza, che non le aveva detto di chiuder le finestre nella camera da letto e di badare a Maria. Pensò di mandarglielo a dire da Ismaele. Egli era già scomparso dietro la svolta del Camposanto. Si sentì nel cuore un impulso a tornar indietro ma non c’era tempo.
Il rombo del tuono era continuo, radi goccioloni battevano qua e là sul granturco, colpi di vento stormivano per i gelsi, a intervalli, precorrendo i turbini della Caronasca. Luisa aperse l’ombrello e affrettò il passo.
La furia della pioggia la colse nelle viuzze scure d’Albogasio. Non pensò a riparar dentro una porta, andò avanti imperterrita. Incontrò un frotta di ragazzi che scappavano dalla pioggia dopo aver inutilmente atteso sul sagrato dell’Annunciata il passaggio della marchesa in portantina. Nel breve tratto di via ch’è tra la casa comunale di Albogasio e la chiesa il vento le rovesciò l’ombrello. Ella si mise a correre, raggiunse quella lista di sagrato che guarda, dietro la chiesa, sulla cala della Calcinera. Là, protetta dalla chiesa contro l’impeto della pioggia e del vento, raddrizzò alla meglio l’ombrello e si affacciò al parapetto.
La chiesa dell’Annunciata posa sulla testa d’uno scoglio che dalle radici del Boglia sporge, male avviluppato di rovi e di caprifichi, sopra il lago e chiude da ponente la piccola cala della Calcinera. La lista di sagrato dov’era Luisa corre appunto su quel ciglio dello scoglio. Ell’avrebbe potuto seguir di lassù il cammino della gondola dalle acque di Cressogno fino allo sbarco; ma ora, infuriando l’acquazzone, un baglior bianco le nascondeva ogni cosa. Però se la marchesa non ritornava a Cressogno, doveva pure, in qualunque punto approdasse, passar poi di là, perchè lì, dov’è l’attacco dello scoglio sporgente con la costa, monta sul sagrato la scalinata della Calcinera, unica via per salire ad Albogasio Superiore sì dallo sbarco sottoposto che da S. Mamette o da Casarico o da Cadate.
In pochi minuti la violenza dell’acquazzone diminuì, i foschi fantasmi delle montagne cominciarono a disegnarsi nel fondo bianco. Luisa guardò giù allo sbarco. Non v’era gondola, non v’era portantina sulla riva, non v’era niente. Questo le diede noia. Possibile che la gondola fosse ritornata a Cressogno? Il fumo si diradò rapidamente, apparve Cadate, apparve sulla bocca della darsena del Palazz, bianco nella nebbiolina grigia, la poppa della gondola. Ecco, la marchesa si era rifugiata al Palazz e così aveva fatto anche Pasotti con la sua portantina e i portatori. Il temporale si poteva dir cessato, la portantina non tarderebbe a comparire.
Invece tardò dieci lunghi minuti. Luisa teneva fissi gli occhi sulla stradicciuola che svolta da Cadate nel seno della Calcinera. Non vi era dentro a lei nessun movimento di pensieri. Tutta l’anima sua guardava e aspettava; niente altro. Della gente le passò a sinistra salendo dalla Calcinera o venendo da Albogasio; ogni volta ella si coperse piegando l’ombrello, per non esser conosciuta o almeno per evitar saluti e conversazioni. Finalmente un gruppo di persone comparve sulla svolta. Luisa distinse la portantina, dietro la portantina Pasotti e don Giuseppe, poi, ultimi, i due barcaiuoli della marchesa. Non si mosse ancora, seguì con gli occhi la portantina che avanzava molto lentamente e chiuse l’ombrello perchè non pioveva quasi più. Ricomparvero cinque o sei ragazzi d’Albogasio. Ella disse loro bruscamente di andarsene. Indugiavano a obbedire ma un improvviso scroscio di pioggia, senza vento nè tuoni, li pose in fuga. La portantina toccava allora il piede della scalinata. Luisa si mosse.
Aveva l’occhio freddo, la persona eretta. Raccolta in un solo pensiero, disprezzò la pioggia scrosciante che le batteva sul capo e sulle spalle, che la cingeva d’un torbido velo e di strepito. Le piaceva, forse, quella passione delle cose intorno alla sua propria. Discendeva lenta lenta, con l’ombrello chiuso, stringendone forte il manico, come fosse stato la impugnatura d’un’arma. La scalinata è un po’ tortuosa, bisogna scendere alquanti scalini prima di vederne il fondo. Giunta sulla svolta, scorse la portantina, ferma. I due barcaiuoli pigliavano il posto di due portatori. Luisa discese fin dove si spandono sopra la scalinata i rami d’un gran noce. Lì si fermò, proprio nel momento in cui i portatori della marchesa cominciavano a salire. Tutto andava bene. Pasotti e don Giuseppe, salendo dietro la portantina con l’ombrello aperto, non potevano vederla. I portatori, giunti che fossero a lei, bisognava che si fermassero, che si facessero da banda per lasciarle il passo.
Quando si avvicinarono, riconobbe i due ch’erano alla testa della portantina, un fratello d’Ismaele e un cugino della Veronica. A quattro passi accennò loro, con un gesto imperioso, di fermarsi. Obbedirono immediatamente, posarono la portantina a terra e così fecero, senza saperne il perchè, i due portatori che seguivano. Pasotti alzò l’ombrello, vide Luisa, fece un atto di sorpresa, un cipiglio nero; afferrò don Giuseppe, lo trasse da banda per lasciarla passare, non sospettando che l’incontro fosse premeditato.
Ma Luisa non si mosse. «Ella non credeva incontrarmi, signor Pasotti» disse a voce alta. La marchesa mise il capo fuori, la ravvisò, si ritrasse dicendo con qualche vigor nuovo nella sua voce floscia:
«Avanti!»
In quel momento partirono dall’alto del sagrato acute, disperate strids: «Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!» Luisa non udì. Pasotti aveva irosamente gridato ai portatori «avanti!» e i portatori riprendevano le stanghe.
«Avanti pare!» diss’ella, risoluta di mettersi a fianco della portantina. «Non ho a dire che due parole.»
Se Pasotti e la vecchia marchesa avevano prima immaginato lagrime e suppliche, dovettero attendersi allora dal fiero viso e dalla vibrante voce ben altro.
«Parole, adesso?» fece Pasotti avanzandosi quasi minaccioso.
«Sciora Lüisa! Sciora Luisa!» si gridò da vicino con accento di strazio; e venne con le grida un rumor di passi precipitosi. Ma Luisa non parve udir niente. «Sì, adesso!» rispose a Pasotti con alterezza inesprimibile. «Io avverto, per mia bontà, questa signora....»
«Sciora Lüisa!»
Ella dovette pure interrompersi e voltarsi. Due, tre, quattro donne le furono addosso, stravolte, scarmigliate, singhiozzanti: «che la vegna a cà sübet! Che La vegna a cà sübet!». Le facce, i pianti, le voci la strapparon d’un colpo fuori della sua passione, del suo proposito.
Si avventò fra quelle donne esclamando: «cosa c’è!» Ed esse sapevano solo ripetere con gli occhi schizzanti dall’orbita: «Che La vegna a cà! Che la vegna a cà!»
«Ma cosa c’è, stupide?»
«La soa tosa, la soa tosa?»
Ella gridò come pazza: «la Maria? La Maria? Cosa? Cosa?» udì fra i singhiozzi nominar il lago, cacciò uno strido e, apertasi la via come una fiera, si slanciò su per la scalinata. Quelle donne non poterono tenerle dietro ma sul sagrato ce n'erano altre, malgrado la pioggia, che strillavano e piangevano.
Luisa si sentì mancare, precipitò a terra sull’ultimo scalino.
Le donne accorsero a lei, dieci mani la presero, la sollevarono. Urlò: «Dio, è morta?» Qualcuno rispose: «no, no.» «Il medico?» diss’ella ansando. «Il medico?» Molte voci risposero che c’era.
Ella parve riaver tutta la sua energia, riprese lo slancio e la corsa. Otto o dieci persone si precipitarono dietro a lei. Due sole poterono seguirla. Volava. Al cimitero incontrò Ismaele e un altro, gridò appena li vide:
«È viva? È viva?» Il compagno d’Ismaele ritornò indietro di corsa per andar ad avvertire che la madre veniva. Ismaele piangeva, seppe solamente rispondere: «Esüsmaria, sciora Luisa!» e fece atto di trattenerla. Luisa lo urtò freneticamente via, passò oltre, seguita da lui che aveva perduta la testa e adesso le gridava dietro, correndo: «l’è forsi nient! L’è forsi nient!» Pareva che la pioggia dirotta, continua, eguale, lo smentisse piangendo.
Giunta ansante sul sagrato di Oria, Luisa ebbe ancora la forza di gridare: «Maria! Maria mia!» La finestra dell’alcova era aperta. Udì la Cia che piangeva ed Ester che la sgridava. Alcune persone fra le quali il professor Gilardoni le uscirono incontro. Il professore teneva le mani giunte e piangeva silenziosamente, pallido come un cadavere. Gli altri bisbigliavano: «coraggio! speriamo!» Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse la vita con un braccio, la trasse su per le scale che eran gremite di gente, come pure il corridoio, al primo piano.
Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose di conforto. «Coraggio, coraggio! Chi sa, chi sa!» All’entrata della camera dell’alcova si sciolse dal braccio del professore, entrò sola.
Avevan dovuto accendere il lume perchè nell’alcova, causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombretta posava nuda sul letto cogli occhi semiaperti e la bocca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le labbra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dottore, aiutato da Ester, tentava la respirazione artificiale, portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fianchi, alternativamente, facendo pressioni sull’addome.
«Dottore? Dottore?» singhiozzò Luisa.
«Facciamo il possibile» rispose il dottore, grave. Ella precipitò col viso sui piedini gelidi della sua creatura, li coperse di baci forsennati. Allora Ester fu presa da un tremito. «No no!» fece il dottore: «coraggio, coraggio!» «A me!» esclamò Luisa. Il dottore l’arrestò con un gesto e fece segno ad Ester di sostare. Si chinò sul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca, respirò più volte profondamente, si rialzò, «Ma è rosea, è rosea!» sussurrò Luisa ansando. Il dottore sospirò in silenzio, accese un cerino, lo accostò alle labbra di Maria.
Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alzarono, si accostarono al letto palpitanti, trattenendo il respiro. L’uscio della sala era aperto; altri volti si affacciarono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accanto al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma. Una voce mormorò:
«Si muove.»
Ester, dritta dietro Luisa, scosse il capo. Il dottore spense il cerino. «Lana calda!» diss’egli. Luisa si precipitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia. Poi, quando Luisa ritornò con la lana riscaldata, egli da un lato, ella dall’altro si diedero a strofinar forte il petto e il ventre della piccina. Dopo un po’, vedendo il pallore, il viso contraffatto di Luisa, il medico fece segno ad una ragazza di pigliarne il posto. «Ceda, ceda» diss’egli perchè Luisa aveva fatto un gesto di protesta. «Sono stanco anch’io. Non è possibile.» Luisa scosse il capo senza parlare continuando l’opera sua con energia convulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le sopracciglia, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinò ad Ester di far riscaldare dell’altra lana per coprirne le gambe della bambina. Ester andò, fece lei perchè la Veronica, appena successo il caso, era sparita, non si trovava più. Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva il fatto, il come, il dove. Quando passò Ester tutti le domandarono: «e così? E così?» Ester fece un gesto sconsolato, passò senza rispondere. Poi le discussioni ricominciarono a mezza voce.
Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse rimasta nell`acqua. Durante la furia del temporale un tale Toni Gall si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Gli venne in mente che il battello del signor ingegnere fosse legato male e potesse fracassarsi ai muri della darsena. Discese a salti, vide aperto l’uscio della darsena ed entrò. Il battello ballava spaventosamente, inondato dagli sprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, si dimenava fra le catene e s’era posto di traverso, avendo la poppa quasi addosso al muro. In faccia all’uscio che mette dalla via pubblica nella darsena, corre un andito dal quale due scalette scendono all’acqua, la prima di fianco alla prora della barca, la seconda di fianco alla poppa. Il Toni Gall discese per la scaletta seconda onde accorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l’ultimo scalino, dov’eran sessanta o settanta centimetri d’acqua, vide fluttuare il corpicino di Maria col dorso a galla e il capo sott’acqua. Nel trarla dall’acqua scorse nel fondo una barchetta di metallo. Portò su la bambina gridando con la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e, per fortuna, anche il medico, che si trovava a Oria, aiutò Ester a spogliar la povera creatura che non dava segni di vita.
Con chi era ella stata prima di scendere in darsena? Con la Veronica no perchè la Veronica era stata veduta entrar nel ripostiglio dei vasi dietro la casa con la sua guardia di finanza prima che Luisa uscisse. Con Ester o con il professore neppure. Ester l’aveva mandata a pregare nella camera dell’alcova e poi non l’aveva veduta più. La Cia stava a lavorare e l’ingegnere a scrivere quando avevano udito le grida formidabili del Toni Gall. Maria doveva esser discesa in darsena dalla camera dell’alcova per mettere la sua barchetta nell’acqua e fatalmente avea trovato aperta la porta di casa, aperto l’uscio della darsena. Il Toni Gall era d’opinione che avesse passato qualche minuto nell’acqua perchè galleggiava discosto dal luogo dove la barchetta giaceva sul fondo. Egli descriveva per la centesima volta la sua scoperta spaventosa stando in sala con la Cia, con l’ingegnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozzavano meno lo zio Piero. Seduto sul canapè dove prima stavano il Gilardoni ed Ester, pareva impietrato. Non aveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchiere dol Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma taceva. La sua nobile fisonomia era piuttosto solenne e grave che turbata. Pareva ch’egli vedesse davanti a sè l’ombra del Fato antico. Neppure domandava notizie; si capiva che non aveva speranza. E si capiva che il suo dolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità passeggere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto, composto dell’uomo savio e forte.
Dall’uscio aperto dell’alcova venivan voci ora d’interrogazione ora di comando. Nessuno però potè dire, per un’ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa. Qualchevolta venivan pure voci trepide, quasi liete. Pareva a qualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor di vita. Allora tutti quelli ch'eran fuori accorrevano. Lo zio Piero volgeva il capo verso l’uscio dell’alcova e solo in quei momenti si disordinava un poco nel viso. Pur troppo vide ogni volta la gente ritornarsene lentamente, in un silenzio accorato. Passarono le cinque. Il tempo durando piovoso, la luce mancava.
Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa. Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il sangue nelle vene a tutti. Rispose la voce del dottore con un accento di premurosa protesta. Si seppe che il dottore aveva fatto un gesto come per dire: «oramai è inutile; desistiamo» e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro.
Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fitta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casa parve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio andavano diventando bui, vi si andò avvivando il debole chiaror di candele che usciva dall’alcova. La gente cominciò a ritirarsi, un’ombra dopo l’altra, silenziosamente, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato della via gli scarponi pesanti, passi senza voci. La Cia si avviò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all’orecchio se non volesse prendere qualchecosa. Egli la fece tacere con un gesto brusco.
Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla famiglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l’Ester e tre o quattro donne ch’erano nell’alcova, si udirono dei gemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano umani. Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una sedia e disse forte: «c’è qui il signor ingegnere?» «Scior sì» rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume. L’ingegnere non parlò nè si mosse.
Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Aliprandi che mi piace ricordare qui come un franco galantuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò al canapè dove sedeva lo zio Piero.
«Signor ingegnere» diss’egli con le lagrime agli occhi »adesso bisogna che faccia qualchecosa Lei.»
«Io?» rispose lo zio Piero alzando il viso.
«Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un padre. Questi sono i momenti del padre.»
«Lo lasci stare, il mio padrone» brontolò la Cia. «Non è buono per queste cose. Ci soffre e niente altro.»
Adesso si udivano, insieme ai gemiti, voci tenere e baci.
L’ingegnere puntò i pugni sul canapè e rimase un momento a capo chino. Poi si alzò, non senza stento, e disse al medico:
«Debbo andar solo?»
«Desidera che ci sia anch’io?»
«Sì.»
«Va bene. Del resto sarà inutile. Forzare non vorrei ma tentare bisogna.»
Il dottore mandò via le donne ch’erano ancora nell’alcova, poi si volse, dall’entrata all’ingegnere e gli fe’ segno di venire.
«Donna Luisa» diss’egli dolcemente, «C’è lo zio, il Suo caro zio, che viene a pregarla.»
Il vecchio entrò con viso pacato ma vacillando. Fatti due passi nella camera si fermò. Luisa era seduta sul letto con la sua bambina morta in braccio, la stringeva, la baciava sul viso e sul collo, gemeva, premendovi su le labbra, gemiti lunghi inesprimibili.
«Sì sì sì sì» diss’ella, quasi con un sorriso tenero nella voce. «È il tuo zio, cara, è il tuo zio che viene a trovar il suo tesoro, la sua Ombretta, la sua Ombretta Pipì che gli vuol tanto bene. Sì sì sì sì.»
«Luisa» disse lo zio Piero «quietati. Tutto è stato fatto quel che si poteva fare, adesso vieni con me, non star più qui, vieni con me.»
«Zio zio zio» fece Luisa con una voce grossa di tenerezza, senza guardarlo, stringendosi il cadavere sul seno, cullandolo. «Vieni qua, vieni qua, vieni qua dalla tua Maria. Vieni, vieni qua da noi che sei il nostro zio, il nostro caro zio. No, cara, no, cara, non ci abbandona mica il nostro zio.»
Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strappò un singhiozzo. «Lasciala in pace» diss’egli con voce soffocata. Essa non parve udirlo, riprese: «Andiamo noi, cara, andiamo noi dal nostro zio. Che ci andiamo, Maria? Sì sì, andiamo andiamo.» Si lasciò sdrucciolare dal letto a terra, si avviò verso lo zio stringendosi al petto col braccio sinistro la sua dolce morta, passò l’altro al collo del vecchio, gli sussurrò: un bacio, un bacio, un bacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo.»
Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpato amaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagrime. «Guarda, guarda, zio» diss’ella. «Dottore, porti qua il lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, che tesoro. Dottore!»
L’Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; ma quel dolore folle aveva qualche cosa di sacro che s’impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolo cadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quelle pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Maria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il riso e l’amore della casa.
«Guarda, zio, questo piccolo petto come l’abbiamo maltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto male con tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria, la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì.»
«Basta!» disse il dottore risolutamente, posando il lume sulla scrivania. «Parli pure alla Sua bambina, ma non a questa, a quella ch’è in Paradiso.»
L’impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la sua morta sul seno. «No!» stridette «no! no in Paradiso! È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela dò!»
Indietreggiò indietreggiò sin dentro all’alcova, tra il letto matrimoniale e il lettuccio, ricominciò i lunghi gemiti che non parevano umani. L’Aliprandi fece uscire l’ingegnere che tremava. «Passerà, passerà «diss’egli. «Bisogna aver pazienza. Adesso resto io.» In sala c’era Ismaele che prese il professore a parte.
«E avvertire il signor don Franco?» diss’egli. Si parlò allo zio, si decise di mandar un telegramma da Lugano, l’indomani mattina perchè oramai era troppo tardi, a nome dello zio, parlando di malattia grave. Ester scrisse il telegramma, in sala c’era un’altra persona, la povera Pasotti corsa lì mentre suo marito era andato ad accompagnare la marchesa a Cressogno. Ella singhiozzava, disperata d’aver dato quella barchetta a Maria. Voleva entrare da Luisa ma il dottore udendo pianger forte, uscì, raccomandò quiete, silenzio. La Pasotti andò a piangere in loggia. Con lei erano venuti il curato don Brazzova e il prefetto della Caravina che avevan pranzato a casa Pasotti. Più tardi venne il curato di Castello, l’Introini, piangendo come un ragazzo. Volle assolutamente entrare da Luisa malgrado il medico e s’inginocchiò in mezzo alla camera, supplicò Luisa di donar la sua bambina al Signore. «Che la guarda» soggiunse «che la guarda, sciora Lüisa, se la voeur propi minga donàghela al Signor, che ghe La dona a la soa nonna Teresa, a la Soa mammin de Lee, che ghe l’avarà inscì cara, sü in Paradis!»
Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e rispose con dolcezza: «L’à capii che ghe credi minga, mi, al so Paradis! El me Paradis l’è chi!»
L’Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e quegli uscì singhiozzando.
Il medico partì da Oria verso la mezzanotte insieme al professore. Tutta la casa taceva, neppur dall’alcova esciva più alcuna voce. L’Aliprandi aveva passate le ultime due ore in sala, col professore ed Ester, senza udir mai un grido nè un gemito nè un movimento qualsiasi. Era andato due volte a guardare. Luisa stava seduta sulla sponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l’Aliprandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuova dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima. Poichè Ester intendeva restare tutta la notte, le raccomandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la sua amica, di farla piangere e parlare.
A vegliare con Ester si trattenevano altre donne del paese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cinque. Lo zio Piero era andato a letto.
L’Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a guardar la finestra illuminata dell’alcova, ad ascoltare. Silenzio. «Maledetto lago!» fece il dottore, pigliando il braccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certo egli pensava così dicendo alla dolce creaturina che il lago aveva uccisa ma v’era pure nel suo cuore il dubbio che altri guai fossero in cammino, che l’opera sinistra delle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v’era una pietà immensa per il padre, per il povero padre che non sapeva ancora niente.