Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
390 | parte ii - capitolo x |
dola fosse arrivata in faccia a S. Mamette. Ritornò in sala. Maria le aveva obbedito in parte, non s’era mossa dal suo posto, ma vedendo che il professore faceva ad Ester un discorso lungo e animato, gli aveva chiesto:
«Le racconti una storia?»
In quel punto entrò Luisa.
«Sì, cara» fece Ester ridendo «mi racconta una storia.»
«Oh anche a me, anche a me!»
Un sordo fragor di tuono. «Va, Maria, cara» disse Ester. «Va nella tua camera, va a pregar il Signore che non venga un brutto temporale, una brutta grandine!»
«Oh sì sì, vado a pregar il Signore!»
La piccina se n’andò, con la sua barchetta, nella camera dell’alcova, impettita e seria come se in quel momento la salvezza della Valsolda dipendesse da lei. La preghiera, per lei, era sempre una cosa solenne, era un contatto col mistero, che le faceva prendere un’aria grave e attenta come certe storie d’incantesimi e di magie. Ella salì sopra una sedia, disse le poche orazioni che sapeva e poi si atteggiò come vedeva atteggiarsi in chiesa le più devote del paese, si mise a muover le labbra com’esse, a dire una preghiera senza parole. Colui che allora l’avesse veduta conoscendo il terribile segreto dell’ora imminente avrebbe pensato che l’angelo della bambina fosse in quel momento supremo accanto a lei e le sussurrasse di pregare per qualche altra cosa