Parte prima del Re Enrico IV/Atto secondo
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
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ATTO SECONDO
SCENA I.
Rochester. — Un’osteria.
Entra un vetturale con una lanterna in mano.
Vett. Olà! oh! Se non son le quattro del mattino, voglio essere appeso. Il carro di San Carlo1 è già in via e il nostro cavallo non è ancora caricato. Su, su, stalliere!
Stal. È presto, è presto.
Vett. Pregoti, Tommaso, sella bene il mio giumento e ugnigli il dorso con un po’ di burro; la povera bestia è tanto scorticata da far pietà. (entra un altro vetturale)
2° Vett. I piselli e le fave sono qui bagnati come il diavolo, e questo è appunto il mezzo per ingenerar vermi nel ventre delle nostre povere rozze: questa casa è tutta in disordine, da che lo stalliere Robin morì.
1° Vett. Povero garzone che non gustò mai pace da che il prezzo dell’avena aumentò: cotesta fu la cagione di sua morte.
2° Vett. Credo che l’albergo sia il più immondo che trovar si possa sulla via della capitale. Son coperto d’insetti come una tinca.
1° Vett. Come una tinca? Per la messa, non credo vi sia re nella cristianità che mai fosse meglio punto di quello ch’io nol sia stato dal primo canto del gallo in su.
2° Vett. Pel Cielo, essi non ne danno mai vasi, onde n’è forza ricorrere al gabinetto: ciò è che popola di insetti le stanze.
1° Vett. Su stalliere, su dunque spicciati, e il diavolo ti porti.
2° Vett. Ho un presciutto e due balle di zenzeveri da recare a Londra, fino alla strada di Charingcross.
1° Vett. Affè! e noi abbiamo polli nei nostri canestri che muoiono di fame; su dunque, maledetto stalliere, e la peste ti consumi! Forsechè non hai occhi? Forse che sei sordo? Se io non bramassi tanto di fenderti il cranio, come di bere un fiasco, vuo’ diventare un bifolco. — Vieni e sii appiccato. — Non hai alcuna fiducia di te? (entra Gadshill)
Gad. Buon giorno, vetturali. Che ora è?
1° Vett. Credo, siano due ore.
Gad. Pregoti, prestami la tua lanterna onde io vegga il mio cavallo e la scuderia.
1° Vett. Adagio, ve ne supplico; so una celia che ne val due di sì fatte.
Gad. Pregoti, dammi tu dunque la tua.
2° Vett. A qual uso, se ti piace? Dammi la tua lanterna, egli dice? In verità vorrei vederti prima strangolato.
Gad. Mariuoli di vetturali, a qual ora fate conto di giungere a Londra?
2° Vett. Abbastanza presto per coricarci a lume di candela, te ne fo fede. — Vieni, compagno Mugs, ci tocca svegliare quei messeri; verran di buon grado in compagnia perchè hanno un gran carico. (escono i vetturali)
Gad. Garzone, olà!
Gar. (dal di dentro) Son pronto, son pronto.
Gad. Sta bene, e rispondi con ciò come il tagliaborse parato sempre al malefizio. Esci, esci, malandrino. (entra il garzone)
Garz. Buon giorno, messer Gadshill: quel che vi dissi iersera è sicuro. Vi è un tal gentiluomo di campagna procedente da Kent, che ha recato con sè trecento marchi d’oro. L’ho udito io stesso dirlo a cena a un uomo di sua compagnia, a una specie di cassiere del re, che porta con sè una grandissima valigia. Dio sa quello che è. Essi si sono già alzati e hanno ordinato uova e burro. Fra poco partiranno.
Gad. Viva il Cielo! Se non incontreranno i cherici di san Nicola2, ti do questa testa.
Garz. No; non la vuo’: serbala per il carnefice; perocchè so che tu onori san Nicola così sinceramente, quanto può farlo un malandrino.
Gad. Che vuoi tu dirmi col tuo carnefice? Se mai sarò appiccato, formeremo un bel paio di vittime. Perocchè se mi si appicca, il vecchio sir Giovanni mi terrà compagnia, e tu sai bene che egli non è tisico. — Oh, vi sono ancora altri Troiani3, de’ quali non dubiti, e che, pel solo piacere di sollazzarsi, si presteranno a far onore alla professione; onde, se le cose dovessero scoprirsi, riparerebbero a tutto. Non è già colla canaglia delle pubbliche vie, con mariuoli da dieci soldi, nè con staffieri fracidi di birra, ch’io sono associato; ma è con la nobiltà, con persone dabbene, con borgomastri, con ricchi cassieri, persone tutte pronte prima ad agire che a parlare, prima a parlare che a bere, prima a bere che a pregare, o se pregano, pregano solo la loro santa protettrice, la repubblica a cui intendono, non rispettando la proprietà.
Garz. Come! intendono alla repubblica?
Gad. Sì, sì, avvegnachè la giustizia sta solo in lei. Ma allegrati, garzone, chè avrai parte al bottino, quanto è vero ch’io sono un uomo onesto.
Garz. Promettimelo piuttosto da buon ladro.
Gad. Al demonio. Di’ allo stalliere di condur fuori il mio cavallo. Addio, infangato ribaldo. (escono)
SCENA II.
La strada vicino all’albergo.
Entrano il principe Enrico e Poins; Bardolfo e Pito a qualche distanza.
Poins. Venite, appiattatevi, appiattatevi; ho tolto il cavallo a Falstaff che è corrugato come un pezzo di taffettà gualcito.
P. Enr. Stammi vicino. (entra Falstaff)
Fal. Poins, Poins, sia appicato, Poins.
P. Enr. Pace, maledetto sacco da cenci: che strepito fai?
Fal. Dov’è Poins, Enrico?
P. Enr. È salito fino alla cima del colle, andrò a cercarlo.
Fal. Convien ch’io sia maledetto per andar sempre a rubare in compagnia di colui. Lo scellerato mi ha trafugato il cavallo e l’ha legato non so dove; se fo quattro passi quadrati di più non mi resterà lena. Su, su: non dubito che in onta di tutto io non muoia di morte naturale, se mi salvo dalla corda dopo aver ucciso quel malandrino. Son ventidue anni che dico fra me tutti i giorni e a tutte le ore che voglio rinunziare alla sua compagnia, e nondimeno ne sono ammaliato: sì, vuo’ essere appeso se il ribaldo non mi ha data qualche droga che mi costringe ad amarlo. Poins! Enrico! La peste vi soffochi entrambi. — Bardolfo!... Pito!... morrò prima di fame che fare un passo di più per rubare. Vuo’ divenire il maggior mariuolo, che non abbia più per masticare che un dente in bocca, se non varrebbe meglio il diventare uomo onesto e l’abbandonar costoro. Otto verghe di cammino dubbioso corrispondono per me a settanta miglia; e quei scellerati dal cuor di pietra lo sanno! Maledizione su di loro, perchè non si intendono e non sono schietti l’uno coll’altro! (si ode un fischio) Il diavolo vi porti tutti, quanti siete; datemi il mio cavallo, canaglia; datemi il mio cavallo e siate appiccati.
P. Enr. Taci, cianciatore! Chinati coll’orecchio a terra e ascolta se si ode l’avvicinarsi di qualche viaggiatore.
Fal. Avete le leve per rialzarmi quando mi sarò chinato? Pel Cielo! Non trasporterò di più a piedi questa mia povera carne per tutto l’oro che è nello scrigno di tuo padre. Che intendi tu dire schernendomi così?
P. Enr. Non sai quello che gridi, cavaliere pedestre.
Fal. Te ne prego, mio buon principe Enrico, fammi riaver il mio cavallo; buon figlio di re.
P. Enr. Al diavolo il tristo! Son io il tuo stalliere?
Fal. Va, strozzati colla tua giarrettiera ereditaria! se sarò preso, ti accuserò per questo. Se non farò fare ballate sopra voi tutti e in tuoni da trivio, vuo’ che un bicchier di vino di Spagna mi serva di veleno. Quando la celia è tanto spinta, e massimamente a piedi, io la detesto. (entra Gadshill)
Gad. Fermati.
Fal. Così fo, mio malgrado.
Poins. Oh, è il nostro can da presa; conosco la sua voce. (entra Bardolfo)
Bard. Qual novelle?
Gad. Incamuffatevi, incamuffatevi; su, presto, mettetevi le maschere; vi è denaro del re che discende dalla montagna, indirizzato allo scacchiere di Sua Maestà.
Fal. Mentite, mariuolo; esso va alla taverna del Monarca.
Gad. Ve n’è abbastanza per porci tutti in condizione...
Fal. Di essere appesi.
P. Enr. Signori, voi quattro li attaccherete di fronte nell’angusto della via; Ned, Poins ed io li aspetteremo qui: se sfuggono al vostro scontro, cadranno nelle nostre mani.
Pit. Ma quanti sono?
Gad. Dieci o dodici.
Fal. Pel Cielo! Non potranno allora invece derubar noi?
P. Enr. Quanto è codardo questo sir Giovanni Punch!
Fal. In fede mia non sono Giovanni di Gaunt, vostro bisavolo; ma non sono neppure un codardo, Enrico.
P. Enr. Ebbene, si vedrà alla prova.
Poins. Amico, il tuo cavallo sta dietro alla siepe; allorchè ne abbi bisogno, lo troverai colà. Addio, e tienti fermo.
Fal. Ora non potrei io ucciderlo, dovessi anche poscia essere flagellato?
P. Enr. Ned, dove sono i nostri abiti?
Poins. Qui vicino, seguitemi. (escono il principe Enrico e Poins)
Fal. Adesso, miei signori, ad ognuno secondo il merito suo; ognuno alle sue bisogne. (entrano vari viaggiatori)
1° Viagg. Vieni vicino; il mozzo condurrà i nostri cavalli fino al basso del colle: andiamo un poco a piedi per affrancarci sulle gambe.
I ladri. Fermatevi.
Viagg. Iddio ci benedica!
Fal. Ferite: atterrateli, sgozzateli. Ah! maledetti! Ribaldi che vi cibate di presciutto! Costoro ne odiano, miei amici: atterrateli, spogliateli dei loro velli.
1° Viagg. Oh, siamo perduti noi e quello che possediamo per sempre.
Fal. Dio vi danni, ricchi impinguati; voi siete perduti. Su, su, vecchi avari, vorrei che i vostri magazzini fossero qui! Su, maiali, su! Vorreste forse che i giovani non vivessero! Voi siete giudici di pace, dite! Vi faremo giurare sull’anima nostra. (tutti i ladri escono conducendo i viaggiatori; rientra il principe Enrico e Poins)
P. Enr. I ladri hanno legate quelle oneste persone: ora, se noi potessimo rubare ai ladri e andarcene a Londra, vi sarebbe materia di sollazzo per una settimana; sì, rider se ne potrebbe tutta la vita.
Poins. Ascondiamoci, li odo venire. (rientrano i ladri)
Fal. Animo, miei signori, dividiamo il bottino e risaliamo a cavallo prima che spunti il di. Se il Principe e Poins non sono due veri codardi, non è vi equità nel mondo: non v’è maggior valore in Poins che in un’oca selvatica.
P. Enr. La borsa.
Poins. Scellerati. (avventandosi sopra di loro, che dopo aver ricambiati alcuni colpi, fuggono abbandonando il bottino).
P. Enr. Non faticammo molto per averlo. Ora, allegri e a cavallo. I ladri sono dispersi e così pieni di spavento, che non osano neppure ravvicinarsi l’uno all’altro: ognuno prende il suo compagno per lo sceriffo. Partiamo, buon Ned. Falstaff suda sangue e ingrassa ad ogni passo questa sterile terra. Se il riso non me lo vietasse ne avrei pietà.
Poins. Come ruggiva il malandrino! (escono)
SCENA III.
Warkworth. — Una stanza nel castello.
Entra Hotspur leggendo una lettera.
Hot. Quanto a me, milord, sarei ben lieto di farne parte per l’affezione che porto alla casa vostra. — Sarebbe lieto? E perchè non lo è? Per l’affezione che porta alla nostra casa? Si vede bene ch’egli ama ancor più la sua nobiltà. — Continuiamo: l’impresa che tentate è pericolosa. È vero: ma pericoloso ancora è l’esporsi al freddo: pericolo il mangiare e il bere: ed io vi dico, mio imbelle lord, che dal seno di questa spina, il pericolo, trarremo un bel fiore, cioè la nostra sicurezza. — L’impresa vostra è pericolosa: gli amici di cui parlate non sono sicuri: le circostanze stesse non appaiono favorevoli, e tutto il vostro partito non è abbastanza forte per controbilanciare quello di un sì potente avversario. — Dite voi da senno? Io vi rispondo che siete un solenne pusillanime, e che mentite. — Che sciocco è costui! Pel Cielo! la nostra trama è mirabilmente ordita: i nostri amici sono fedeli e costanti; la congiura è stupenda! Che anima addiacciata ha quest’uomo! Allorchè milord di York approva il disegno e tutta la condotta, costui... pel Cielo, se l’avessi ora fra le mani, vorrei rompergli il capo col ventaglio della sua dama! Non entrano nella congiura mio padre, mio zio, ed io? Eduardo Mortimero, York e Glendower? Non sonvi inoltre i Douglas? Non ho io lettere di tutti in cui promettono di raggiungermi armati il nono giorno del mese prossimo? E alcuni di essi non son già accorsi? Qual dannato mentecatto è dunque lo scrittore di questo foglio? Ah! temo che nell’ansia della sua viltà, ei non vada dal re e non gli riveli tutto. Oh se potessi spartirmi in due per andare a dare una gotata al mariuolo e invitarlo a sì onorevole azione! Vada al demonio! Dica ogni cosa al re, se lo vuole, noi siamo apparecchiati: io partirò stanotte. (entra lady Percy) Ebbene, Caterina? M’è forza il lasciarvi fra due ore.
Lad. Oh mio caro signore, perchè siete così solo? Per quale offesa ho meritato io d’essere, da quindici giorni, sposa bandita dal letto del mio Enrico? Dimmi, amore, qual’è la cagione che ti toglie la brama di ogni piacere, e ti priva anche delle dolcezze d’un pacifico sonno? Perchè affiggi gli occhi in terra? Perchè tremi sì di sovente, allorchè sei assiso solo? Perchè è dileguata la freschezza del tuo colorito? Chi ti fa abbandonare i miei tesori, la tua giovinezza, la tua salute e i diritti d’una sposa, in preda a cupe meditazioni e alla più atroce malinconia? Durante i tuoi sonni leggeri e pieni di commozione, io veglio accanto a te, e ti odo proferire racconti di guerre: parole incitatrici al tuo corsiero bollente: voci di: coraggio! Al campo! e t’intrattieni di sortite, di ritirate, di trincee, di tende, di palizzate, di fortezze, di parapetti, di cannoni, di colubrine e di tutte le venture d’una guerra ostinata. Tali pensieri agitano tanto il tuo sonno, che la tua fronte ne è inondata da goccie di sudore grosse come le bolle d’acqua che salgono alla superficie di un ruscello fremente; e strani moti animano i muscoli del tuo viso, simili a quelli di uomo che rattiene il fiato in grandissima foga. Oh, che sintomi son codesti! Gravi cure ingombrano la mente del mio signore, e convien ch’io le conosca se è vero che ei mi ami.
Hot. Olà! olà! È partito Guglielmo con quell’involto? (entra un domestico)
Dom. Sì, milord, è già più d’un’ora.
Hot. Butler ha ricondotto quei cavalli dallo sceriffo?
Dom. Ne ricondusse uno, non è che un istante.
Hot. Qual cavallo! Un cavallo color di spica matura forse?
Dom. Appunto.
Hot. Quel corsiero sarà il mio trono, e vo’ ad assidermivi tosto. Oh speranza4. Di’ a Butler di menarlo nel parco. (il dom. esce)
Lad. Ma ascoltatemi, milord.
Hot. Che volete, mia giovine donna?
Lad. Chi vi trascina lungi da me?
Hot. Il mio cavallo, mio amore, il mio cavallo.
Lad. Su, cessate, schernitore malvagio. Non v’è animale in natura tocco da male più funesto di quello che vi divora. Sull’anima mia, vuo’ conoscere il pensier vostro, Enrico: lo voglio. Dubito che mio fratello Mortimero non sia mosso per sostenere i suoi diritti e che non v’abbia scritto perchè lo assecondiate. Ah se dovesse andare...
Hot. Tanto lontano a piedi, mi stancherei, mio amore.
Lad. Voi celiate; desistete: rispondete direttamente alla mia dimanda. In fede io vi romperò le dita, Enrico, se non mi dite la verità.
Hot. Lasciatemi, lasciatemi: fine alle beffe. — Amore?... Io non t’amo, io non mi curo più di te, Caterina. Questo non è un mondo in cui si possano spendere le ore in sollazzi, e logorarsi le labbra a furia di baci. Conviene che abbiamo il naso sanguinoso e la testa rotta, e allora saremo sicuri d’esser ben ricevuti da per tutto. Su dunque; il mio cavallo. — Che dici, Caterina? che vuoi?
Lad. Tu non puoi più amarmi? Tu più non mi ami? Ebbene, non amarmi: perocchè se non mi ami più, non amerò più me stessa. Mi dicesti che più non mi ami? Ah! lo dicesti con senno?
Hot. Via, vuoi tu vedermi salire a cavallo? allorchè sarò in sella, ti giurerò che ti amo senza misura. — Odi, Caterina: non vuo’ più che tu mi parli del luogo in cui vado. Vado dove m’è forza andare; e debbo assolutamente lasciarti stasera, mia dolce amica. So che sei una donna di senno, ma non più ch’essere lo possa la sposa di Percy. So che sei fida e costante; ma sei pur sempre donna: e in quanto alla cautela, alcuna signora non conserverà mai meglio un segreto di te: perocchè suppongo che il mio non lo rivelerai, ignorandolo: ed ecco fin dove giunge la mia confidenza in te, vaga Caterina.
Lad. Fino a ciò giunge?
Hot. Non un dito più in là. Ma odimi, amica mia. Dove io vado tu pure andrai: io parto oggi e tu dimani. Sei paga, Caterina?
Lad. Forza è bene ch’io lo sia. (escono)
SCENA IV.
Eastcheap. — Una stanza nella taverna della testa del Cinghiale.
Entrano il principe Enrico e Poins.
P. Enr. Ned, te ne prego, esci da questa stanza scomunicata, e fa ch’io rida un poco.
Poins. Dove fosti, Enrico?
P. Enr. Con tre o quattro malandrini in mezzo a sessanta o ottanta botti. Ho toccata la corda più bassa dell’umiltà; ed eccomi confratello in vita e in morte di una masnada di garzoni da taverna, che potrei chiamar coi loro nomi cristiani di Tom, di Dick, di Francis, e che giurano diggià sul loro paradiso che quantunque io non sia ancora che il principe di Galles, son nondimeno il re della cortesia: nè orgoglioso mi trovano come Falstaff, sibbene, umile, stordito, buon fanciullo; talchè quando sarò re d’Inghilterra non avrò a dire che una parola per disporre di tutti i mozzi d’Eastcheap. Costoro chiamano il mescer molto, tingere in iscarlatto; e quando prendete fiato bevendo gridano olà! e vi comandano di passar oltre, e di vuotare il fiasco. Infine ho fatto tanti progressi in un quarto d’ora, che posso sfidare a bere il primo calderaio della provincia, e ciò usando del suo proprio gergo. Ned, io ti assicuro che perdesti assai non trovandoti meco a quel convegno, e per addolcire il tuo dolore, ti fo presente di questo pezzetto di zucchero che mi pose dianzi fra le mani un valletto, che non seppe mai dire in sua vita altre parole inglesi se non che: otto scellini, sei soldi, parato ai vostri servigi, signore, in un col grido acuto: subito; subito; un fiasco di birra, ecc., o mille altre frasche di tal tenore. Ora, Ned, per far passare il tempo aspettando che Falstaff giunga, va ad appostarti a qualche camera vicina, intantochè io farò alcune dimande al mio povero mozzo, per sapere con qual disegno mi diè questo zucchero; nè tu cessare di chiamare Francis, onde ei non abbia altro a dirmi che, subito, subito. Vattene costà appresso e mostrerò un brano della scena.
Poins. Francis! (chiamando)
P. Enr. A meraviglia.
Poins. Francis. (esce; entra Francis)
Fran. Subito, subito, signore. — Bada al giardino, Ralf.
P. Enr. Vien qua, Francis.
Fran. Milord.
P. Enr. Quanto tempo hai ancora da servire, Francis?
Fran. Ancora cinque anni, ed è appunto egual tempo...
Poins (dal di dentro chiamando). Francis!
Fran. Subito, subito, signore.
P. Enr. Cinque anni! Pel Cielo è un lungo contratto con le cazzeruole e le pentole. — Ma avresti tu il coraggio, Francis, di farla da codardo col tuo brevetto da studente, e di volgere i talloni per sottrarti alla tua sorte?
Fran. Oh signore; giurerei su tutti i libri d’Inghilterra che avrei nel mio cuore.....
Poins (dal di dentro). Francis?
Fran. Subito, subito, signore.
P. Enr. Che età hai tu, Francis?
Fran. Lasciate che ci pensi. — Il dì di san Michele avrò.....
Poins (dal di dentro). Francis!
Fran. Subito, signore. — Pregovi, aspettatemi un istante, milord.
P. Enr. No, ascoltami, Francis. — Lo zucchero che tu mi desti valeva almeno un soldo.
Fran. Oh Dio! Milord, vorrei ne fosse costati due.
P. Enr. Ti darò mille ghinee in cambio; dimandamele quando vorrai, e ti saranno sborsate.
Poins (dal di dentro). Francis!
Fran. Subito, subito.
P. Enr. Subito, Francis? no, Francis; ma bensì dimani, Francis; ovvero giovedì; o pur quando vorrai. Ma, Francis.....
Fran. Milord?
P. Enr. Vuoi tu rubare questo giubboncello di cuoio coi bottoni di cristallo, colle mostre pavonazze, e a cui si addicono capelli tagliati in tondo, anello d’agata, calze di lana e giarrettiera di flanella?
Franc. Oh signore! Milord, che volete voi dire?
P. Enr. Ah m’accorgo che il vin dolce è la vostra sola bevanda, e perciò, o Francis, la vostra bianca camicia si lorderà: in Barberia la cosa non verrebbe a tanto.
Fran. Che, signore?
Poins (dal di dentro). Francis!
P. Enr. Via di qui, mariuolo: non odi che ti dimandano?
(qui entrambi cominciano a chiamarlo, talchè il mozzo si rimane confuso, non sapendo da qual parte andare; entra un taverniere) |
Tav. Che! Te ne stai là immoto, e non odi che ti vogliono. Bada all’ospite che è dentro. (Francis esce) Milord, il vecchio sir Giovanni, con una mezza dozzina di compagni, sta alla porta: debb’io lasciarli entrare?
P. Enr. Fateli restar soli un momento, e quindi aprite. (il Tav. esce) Poins! (rientra Poins)
Poins. Subito, subito, signore.
P. Enr. Mariuolo, Falstaff col resto della masnada stanno alla porta: ne trarrem diletto?
Poins. Da sovrani, mio garzone. Ma ditemi dunque, qual bella scommessa avevate fatta col povero mozzo? Quale ne fu l’esito?
P. Enr. L’esito è che ora provo tutta quella maggiore allegria che mai addolcisse la vita di un mortale, dai vecchi giorni del buon uomo Adamo fino alla nascita di quello che comincieremo a ingenerare a mezza notte. (rientra Francis con alcuni fiaschi di vino) Che ora è Francis?
Fran. Subito, subito, signore.
P. Enr. Non è piacevole il vedere un uomo che sa meno parole che non ne sappia un pappagallo, quantunque figlio d’una femmina? Tutta la sua industria sta nel salire e discendere la scale, e la sua eloquenza non si distende più in là del pagamento di uno scotto. Non sono ancora della tempra di Percy, dell’Hotspur5 del Nord, che uccide sei o sette dozzine di Scozzesi prima d’asciolvere, quindi si lava le mani e dice a sua moglie: oh quanto sono fastidito di questa vita inerte. Ho necessità di occuparmi. — E se ella gli risponde: mio caro Enrico, quanti ne hai uccisi oggi? — Date da bere, ei le dice, al mio cavallo da guerra; e un’ora dopo soggiunge: circa quattordici; una cosa da nulla, una cosa da nulla. — Te ne prego, fa venire Falstaff; reciterò la parte del Percy, e quel dannato maiale compirà quella di donna Mortimero. Vino, grida l’ubbriaco, l’udite? Fate entrare il maledetto, fatelo entrare. (entrano Falstaff, Gadshill, Bardolfo e Pito)
Poins. Ben venuto, Giovanni. Dove sei stato?
Fal. Peste ai codardi; vendetta su di loro! vendetta, vendetta, e amen! Dammi un bicchier di vino, garzone. Piuttosto che condurre anche a lungo una tal vita, vuo’ mi si vegga a cucire con l’ago in mano e spender le ore rattoppando calze. Peste ai codardi! Dammi un bicchier di vino, mariuolo. — Forsechè non esiste più virtù sulla terra? (beve)
P. Enr. Non vedesti tu mai Titano leccare un piatto di butirro? Il compassionevole Titano, che si sfaceva alla dolce novella del figlio! Se lo vedesti, tu ne sei l’effigie.
Fal. Miserabile, il fango è in questo vino. Non v’è che frode in uno scellerato; ma un codardo è peggio cento volte di un bicchier di vino adulterato; uno scellerato codardo. — Segui la tua via, vecchio Giovanni; muori quando vorrai, perocchè se il coraggio, se la virtù vera non si sono dipartite dalla terra, vuo’ diventare un’aringa. Non vi sono tre persone oneste in Inghilterra che ancora non siano state appiccate; e una di queste diviene pingue e vecchia: Dio ci aiuti! aiuti questo mondo. Dico! vorrei essere un tessitore e potrei cantar salmi e qualunque altra querimonia. Peste ai codardi, io dirò sempre.
P. Enr. Ebbene, sacco da lana? Che cianci?
Fal. Figlio di un re! Se non ti cacciassi fuori del tuo regno con una spada da Arlecchino, e non conducessi innanzi a te tutti i tuoi soggetti come un gregge d’oche selvatiche, vuo’ non mi cresca più un pelo sul mento. Voi principe di Galles!
P. Enr. Come! Parto d’obbrobrio! Di che accenni?
Fal. Non siete voi un codardo? Rispondetemi a ciò; e Poins ancora!
Poins. Affè! se chiami codardo me pure, turpe volume di adipe, io ti pugnalerò.
Fal. Io chiamarti codardo! Vorrei prima che Lucifero vi strangolasse; ma darei mille ghinee per saper correre come voi. Voi avete le spalle abbastanza ben fatte, ed è per ciò che non vi spiace di mostrare il dorso. Chiamate ciò spalleggiare i vostri amici? Peste a siffatto spalleggiare! Amerò piuttosto chi mi affronti. — Datemi una tazza di vino. — Vuo’ morire, se oggi bevo.
P. Enr. Oh, inconseguente! Le tue labbra non sono ancora terse dell’ultimo sorso.
Fal. Ciò a nulla vale: e morte ai codardi, io dico. (beve)
P. Enr. Di che si tratta?
Fal. Di che? Eccoci qui in quattro che questa mattina avevamo prese mille ghinee.
P. Enr. Dove sono esse, Giovanni? dove sono?
Fal. Dove sono? Ci furono riprese: cento malandrini ci piovvero a un tratto addosso.
P. Enr. Cento?
Fal. Vuo’ essere dannato, se non lottai per due ore contro una dozzina di aggressori. È un caso che io mi sia salvo; ebbi otto colpi sul mio giubbone, quattro nelle calze; il mio scudo è traforato, la mia spada fatta simile ad una sega: ecce signum. Non mai meglio schermii dacchè son uomo: ma nulla valse. Peste ai codardi! — Dimandatene a costoro: se vi dicono più o meno del vero, son traditori, figli delle tenebre.
P. Enr. Parlate, signori; come avvenne la cosa?
Gad. Noi quattro piombammo sopra alcune dozzine.....
Fal. Almeno sedici, milord.
Gad. E legati gli avevamo.
Pit. No, no, legati non erano.
Fal. Che dici tu, miserabile? Erano tutti legati senza eccezione d’alcuno, o io mi sono un Giudeo, un samaritano Giudeo.
Gad. Mentre eravamo intenti a dividerci le spoglie, altri sei o sette uomini riposati ci si avventarono sopra.....
Fal. E slegarono gli altri che si unirono tosto ad essi.
P. Enr. Come! Combatteste voi dunque contro tutti?
Fal. Tutti? Non so cosa vogliate significare, ma se non ho lottato almeno contro una cinquantina di loro, vuo’ diventare un letamaio. Se non ve n’erano cinquantadue o cinquantatre sul povero vecchio Giovanni, che io non sia più un bipede.
Pit. Prego il Cielo perchè non ne abbiate ucciso alcuno.
Fal. Oh, tal preghiera vien troppo tardi! Ne ho conciati due: sono sicuro di averne ben conciati due, due malandrini vestiti di traliccio. Enrico, s’io mento, sputami in viso: chiamami cavallo. Tu sai bene com’io schermisca! Me ne stavo dunque in guardia colla spada così diritta, allorchè quattro di coloro mi vennero sopra.
P. Enr. Come quattro? Dianzi dicesti due.
Fal. Quattro, Enrico: dissi quattro.
Poins. Sì, ha detto quattro.
Fal. Quei quattro si presentarono di fronte, e intendevano sopratutto a me, del che io punto non mi curai, ma feci convergere sopra il mio scudo le loro sette punte.
P. Enr. Sette? Se pur vuo’ non ve n’erano che quattro.
Fal. In traliccio.
Poins. Sì, quattro vestiti in traliccio.
Fal. Sette, dico io per quest’elsa, o vuo’ essere uno scellerato.
P. Enr. Pregoti, lascialo dire; godrem di più fra poco. (sommessamente a Poins)
Fal. Mi odi tu Enrico?
P. Enr. Sì, e fo i miei appunti ancora, Giovanni.
Fal. Non obliarlo, perocchè ciò val il pregio di essere udito. Quei nove dunque vestiti di traliccio, di cui accennavo.....
P. Enr. Eccone due di più.
Fal. Spuntate che n’ebbi le spade, cominciarono ad arrestarsi; ma io gl’incalzavo da presso e rapido come il pensiero, sette degli undici atterrai.
P. Enr. Oh, cosa orrenda! Undici uomini, vestiti di traliccio, meno due.
Fal. Ma Satana che entra in tutto, volle che tre sciagurati abbigliati di verde sopravvenissero alle mie spalle e mi allacciassero, senza, tanta era l’oscurità Enrico, senza ch’io me ne accorgessi.
P. Enr. Coteste menzogne somigliano al padre che le genera. Confesso, son grosse, parventi, palpabili. Oh stolida bestia, animale immondo, creatura da nulla, osceno sacco di sego.....
Fal. Come! Folleggi? Forse che la verità non è verità?
P. Enr. Come è possibile che abbi conosciuto che quegli uomini vestivano di verde, se tanta era l’oscurità che non potevi vedere la tua mano? Che rispondi a ciò?
Poins. Di’ la tua ragione, Giovanni, di’ la tua ragione.
Fal. Come! Per forza? No; se fossi condannato a tutte le torture del mondo per forza non parlerei. Parlar mio malgrado? Quand’anche le prove fossero così comuni come le more nelle siepi, non vorrei darne una a un uomo che la volesse per forza.
P. Enr. Non vuo’ lasciarlo più a lungo accumular peccati sopra peccati. Questo pingue vigliacco, questa massa informe il di cui peso schiaccia letti e cavalli, questa enorme montagna di carne.....
Fal. Al diavolo, tu, figura etica, pelle d’anguilla, lingua di bue disseccata, pertica agonizzante, ambulante giraffa... Oh Dio! perchè non ho bastante lena per nominare tutto quello che ti somiglia! auna da sartore, fodero da spada, strumento di chirurgia, misura da commesso.
P. Enr. Coraggio, riprendi fiato e poi torna alla carica; ma quando sarai stanco delle tue vili comparazioni, lascia ch’io ti dica soltanto queste due parole.
Poins. Odile bene, sir Giovanni.
P. Enr. Noi due vi abbiam veduti piombar in quattro sopra altri quattro e legarli, impadronendovi di ciò che possedevano. Ora nota, come questo semplice racconto vi confonderà tutti. Noi due, che qui vedi, assalimmo voi quattro, e vi togliemmo il bottino che vi possiamo mostrare entro questa casa: voi, Falstaff, salvaste la vostra pelle con sollecitudine pari a quella di ogni altro. Voi urlaste correndo misericordia, muggiste come un toro. — Ora, non sei tu un gran miserabile, avendo, come hai fatto, spuntata la tua spada, per venirci a narrare che tal cosa accadde mercè il tuo gran valore? Quale stratagemma, quale menzogna avrai per sottrarti alla tua onta così manifesta?
Poins. Udiamo, Giovanni; che cosa sai rispondere?
Fal. Pel Signore, vi avevo riconosciuti, come quegli che vi ha fatto. Ora, ascoltate un poco, miei signori. Avrei io dovuto uccidere l’erede di questo trono? Dovevo io combattere contro il principe legittimo? Voi ben sapete ch’io son prode come Ercole: ma anche per solo istinto il leone non azzannerebbe un discendente di re6. L’istinto è una bella cosa; è per istinto ch’io fui timido; non ne avrò che miglior opinione di me e di te finchè vivrò; di me come leone coraggioso, di te come vero principe. Ma infine, figli miei, son ben lieto che voi abbiate il denaro. Albergatrice, serrate le porte, vigilate questa notte, e pregherete dimani. Voi, amabili giovani, garzoni onesti e amanti della gioia, cuori sinceri, a voi si competono tutti i titoli delle elette brigate. Ebbene, starem lieti stanotte? Improvviseremo una commedia?
P. Enr. Di buon cuore; e l’argomento sarà la tua fuga.
Fal. Ah! Non più di ciò, Enrico, se mi ami. (entra l’ostessa)
Ost. Milord..... principe.....
P. Enr. Ebbene, madonna albergatrice, che mi di’ tu?
Ost. Signore, vi è un nobile della corte che vuol parlarvi: dice che viene per conto di vostro padre.
P. Enr. Dategli quello che occorre per farne un uomo regio7, e rimandatelo dalla mia genitrice.
Fal. Che uomo è cotesto?
Ost. Un uomo vecchio.
Fal. Che fa la gravità di un vecchio fuor del suo letto a mezzanotte? Debbo io andargli a rispondere?
P. Enr. Fallo, Giovanni, te ne prego.
Fal. In verità, lo rimanderò con un buon sacco. (esce)
P. Enr. Ora, signori, vi dico che vi batteste bene tutti; e voi pure, Pito, e voi anche, Bardolfo. Siete tutti leoni di coraggio, e se fuggiste, fuggiste solo per istinto, per non uccidere il principe legittimo. Vergogna, vergogna!
Bard. In verità, io fuggii quando viddi gli altri fuggire.
P. Enr. Dimmi ora da senno, perchè la spada di Falstaff è così malconcia?
Pit. Pel Cielo! egli volle così ridurla col suo pugnale, giurando che non si sarebbe mai più creduto in Inghilterra alla verità, se non riesciva a farvi pensare che quelle erano state tante stoccate, e stimolava noi pure a far lo stesso colle nostre spade.
Bard. Sì, ed anche voleva che ci soffregassimo il naso colle ortiche per farlo dar sangue e lordarcene i panni onde affermar poscia che era sangue dei nostri aggressori. Posso ben dire d’aver fatto ciò che da più di sette anni non aveva fatto, e arrossisco rammentandolo.
P. Enr. O miserabile, tu rubasti un bicchier di vino son più che tre lustri, e fosti preso in flagranti; dopo quel tempo tu hai sempre arrossito. Avevi fuoco e spada ai fianchi, e nullameno fuggisti? Dimmi, qual era il tuo istinto in ciò?
Bard. Signore, vedete voi quelle meteore? Vedete quelle esalazioni?
P. Enr. Sì.
Bard. A che credete che accennino?
P. Enr. A ubbriachezza e povertà.
Bard. Ad ira, Milord, se ben le esaminerete.
P. Enr. No, alla forca piuttosto, considerandole con attenzione. (rientra Falstaff) Ecco il nostro magro Giovanni, scheletro livido che si avanza. Ebbene, mia dolce creatura di bambagia, quant’è che non ti sei vedute le ginocchia?
Fal. Le ginocchia? Alla tua età, Enrico, ero più snello dell’artiglio di un’aquila; io mi sarei allora nascosto entro la gemma di un magistrato. Ah, non parlarmi, non farmi vivere fra i sospiri e i guai; ciò gonfia un uomo, come il vento un pallone. — Sonvi cattive novelle pel mondo: il cavalier Giovanni Braby arrivò dianzi per parte di vostro padre; convien che torniate tosto alla corte. Quel demonio del nord, Percy, e quell’altro Gallese che bastonò il diavolo a Maimon e disonorò il letto di Lucifero, forzando il principe delle tenebre a dichiararsi suo vassallo sulla croce di un pugnale..... che peste d’uomo è colui?
Poins. Oh! Glendower.
Fal. Sì, Owen, Owen appunto, e il suo genero Mortimero insieme col vecchio Northumberland, e quello Scozzese il più agile di tutti gli Scozzesi, Douglas, che cavalca a ritroso sopra le colline.....
P. Enr. Quegli forse che, correndo a briglia sciolta, uccide un passero di volo, con un colpo di pistola?
Fal. Sì quello. Ebbene, il malandrino ha cuore e non fuggirà. Ora egli se ne sta con Mordake e un migliaio di berretti turchini, con Worcester e con alcuni altri, la cui evasione ha fatto incanutire la barba di tuo padre. Adesso, dimmi, come vero è che tu sei l’erede presuntivo della corona, se si potevano scegliere tre nemici più terribili di quel fatale Douglas, di quel bollente Peroy, di quel satanico Glendower? Or, non temi tu? Il sangue tuo non ti si agghiaccia nelle vene?
P. Enr. No, in fede. Mi converrebbe il tuo istinto a ciò.
Fal. Sarai orribilmente garrito dimani, allorchè ti presenterai a tuo padre. Su, per amicizia per me, pensa un po’ a quello che gli devi rispondere.
P. Enr. Vediamo; mettiti al posto di mio padre, e interrogami sui particolari della mia vita.
Fal. Lo vuoi? Acconsento. Questa sedia sarà il mio trono, questo pugnale il mio scettro, e questo cuscino la mia corona.
P. Enr. Oh mio padre, il tuo trono è divenuto il seggio di un mendico!
Fal. Se ti rimane ancora una scintilla del fuoco della grazia celeste, vedrai come sarai commosso. — Datemi un bicchier di vino, onde ciò mi faccia diventar gli occhi rossi e si creda ch’io abbia pianto, imperocchè conviene che parli con calore e lo farò col tuono del re Cambise.
P. Enr. (prostrandosi). Eccomi alle tue ginocchia.
Fal. Eccoti il mio discorso. — Allontanatevi, miei lordi.
Ost. Piacevole scena, in verità.
Fal. Non piangere, dolce regina, perocchè le tue lagrime son sacre.
Ost. Oh come il padre compie bene la sua parte.
Fal. Per l’amor di Dio, miei lordi, guidate lungi questa mesta regina; perocchè i pianti le tolgono la vista.
Ost. A meraviglia! Ei recita meglio di tutti i commedianti che ho veduti.
Fal. Pace, amata botte; pace, cervello inebriato. — Enrico, non solo non so dove tu possa così far scorrere il tuo tempo, ma ignoro anche quali siano i tuoi compagni. Imperocchè sebbene la camomilla sia per natura alacre a germogliare quanto più è pestata; pure è forza di dire che ove venga divelta riman distrutta. Tu sei mio figlio; ho per crederlo la parola di tua madre e l’opinione mia; ma sopratutto il basso muoversi de’ tuoi occhi e il folle alzarsi del tuo labbro inferiore, me ne assicurano. Se dunque mio figlio sei, perchè vieni accennato a dito? Il lucido sole dei cieli è egli fatto per strisciare fra le siepi e viver di more selvatiche? Ciò non può essere. Ora il figlio del re d’Inghilterra dovrà chiamarsi un mariuolo, un tagliaborse? Alto è questo problema. — V’è una certa cosa, Enrico, di cui avrai certamente udito parlare, e che molte persone conoscono nel nostro paese sotto il nome di pece: codesta pece, secondo la sentenza di antichi autori, è una cosa che brutta e lorda assai: così pure accade della compagnia in cui ti piaci; e in questo momento, Enrico, io non parlo per vino bevuto, ma fra il pianto; non per gioia, ma per collera; non per parole, ma per segni di affezione, e nondimeno v’è un uomo onesto che ho di sovente veduto con te, ma di cui ignoro il nome.
P. Enr. Chi è costui, onorata Maestà?
Fal. Un uomo di buon aspetto, in fede; pingue, gioviale, grazioso, di nobile portamento. Credo avrà al più cinquant’anni, o, per la messa, sessanta..... Ah! Ora rammento; il suo nome è Falstaff. Ove quell’uomo fosse un libertino, la sua fisonomia ingannerebbe assai; perocchè, Enrico, si vede la virtù risplendere ne’ suoi occhi. Se dunque il frutto può conoscersi dall’albero e l’albero dal frutto, io ti dichiaro che virtuoso è quel Falstaff; serbalo per tuo amico, e bandisci tutto il resto. Ma dimmi, malvagio garzone, che hai fatto da un mese in qua?
P. Enr. È questo un parlar da re? Prendi il mio posto e vedrai come compirò la parte di mio padre.
Fal. Come! Depormi? Se tu eseguisci questa parte, la metà così gravemente, così maestosamente, tanto per la scelta dei vocaboli che pel colorito del gesto, appiccami pei talloni come una pelle di coniglio sventrato.
P. Enr. Bene qui mi sto.
Fal. Ed io qui: giudicate, miei signori.
P. Enr. Enrico? Di dove vieni?
Fal. Mio nobile signore, da Eastcheap.
P. Enr. Le querele, che mi son mosse per cagion tua, son gravi assai.
Fal. Pel Cielo, Milord, denno essere mendaci. — Oh, v’insegnerò come si reciti anche da giovine principe.
P. Enr. Tu giuri, insensato garzone? Da questo momento in avvenire non osare più alzare gli occhi sopra di me: lungi tu sei dalla mia grazia. V’è un demone sotto forma di pingue vecchio, uomo-botte con cui tu stai, e del quale ti sei fatto un compagno. Perchè eleggesti a socio un tal sacco di fetidi umori, una tal valigia d’idropisia, un tal bue che rappresenta l’iniquità in capelli grigi, un tal malandrino che, sebbene decrepito, compiacesi pure nelle follìe? A cui giova egli? Ad assaggiare e tracannar vino. A che è proprio? A rompere e mangiare un pollo. Quale scienza ha? La frode e l’astuzia. In che è dotto? In ciò che è vizio e malvagità. Quali difetti gli appartengono? Tutti. Quali virtù? Nessuna.
Fal. Vorrei che Vostra Altezza non corresse più di quello che io possa seguirla. Che significa tutto questo?
P. Enr. Abbominevole è quel Falstaff; un corruttore della giovinezza è quel vecchio Satana dalla barba grigia.
Fal. Mio sovrano, quell’uomo io lo conosco.
P. Enr. So che lo conosci.
Fal. Ma il dire ch’egli è più malvagio che non son io, è un dir falso. Se è vecchio, non merita che maggior compianto; i suoi grigi capelli ne fan fede: ma ch’egli sia, col beneplacito di Vostra Riverenza, un seduttore di fanciulle, è quanto nego ricisamente. Se il vino e lo zucchero sono un delitto, Dio voglia aver pietà dei peccatori! Se un delitto è l’esser canuto e gaio, in fede v’è più d’un vecchio che anderà dannato. Se poi l’esser pingue porta con sè di dover essere odiato, allora le magre giovenche di Faraone avranno buon diritto all’amore altrui. No, mio buon signore, esiliate Pito, esiliate Bardolfo, esiliate Poins, ma l’amabile sir Giovanni Falstaff, il prode sir Giovanni Falstaff, l’onesto sir Giovanni Falstaff, l’egregio sir Giovanni Falstaff, tanto più commendevole in quanto ch’egli è il vecchio sir Giovanni Falstaff, non lo togliete al consorzio di Enrico. Se voi bandite il paffuto sir Giovanni, bandirete tutto il resto del mondo.
P. Enr. Così far voglio. (si ode battere: escono l’Ostessa, Francis e Bardolfo; rientra Bardolfo correndo)
Bard. Oh milord, milord, lo sceriffo sta alla porta colla più indegna squadra.
Fal. Vattene, mariuolo! Terminate la vostra parte; molte cose mi rimangono a dire in favore di quel Falstaff. (rientra l’Ostessa frettolosamente)
Ost. Oh Gesù, milord, milord!...
Fal. Oimè! Ecco il diavolo cavalcato ad un violino. Che v’è?
Ost. Lo sceriffo con parte del presidio sta alla porta e vengono per visitar la casa. Debbo io lasciarli entrare?
Fal. Odi tu, Enrico? Non iscambiare mai un buon pezzo di oro in un falso: tu sei veramente stolto, senza sembrarlo.
P. Enr. E tu codardo, senza istinto.
Fal. Nego la maggiore. — Se volete rifiutar l’accesso allo sceriffo, sia; se no, lasciatelo entrare. Se io non sapessi accogliere un malandrino così bene come un galantuomo, sarebbe stato inutile l’educarmi! Spero che vedrò cortesemente anche il carnefice, allorchè mi allaccierà le fauci.
P. Enr. Va a nasconderti dietro agli arazzi: gli altri ascendano le scale. Ora, miei signori, giova l’avere aspetto franco e buona coscienza.
Fal. Io ebbi un tempo entrambe queste cose: ma la data ne è remota, perciò mi asconderò. (escono tutti, tranne il principe e Poins)
P. Enr. Chiamate lo sceriffo. (entra lo sceriffo coi vetturali) Ebbene, sceriffo, che volete da me?
Scer. Anzitutto perdonatemi, milord. La voce pubblica denuncia in questa casa uomini di mal affare.
P. Enr. Quali uomini?
Scer. Uno di essi è ben conosciuto, mio grazioso signore, uom grasso e grosso.
Vett. Grasso come il burro.
P. Enr. Quell’uomo, vi assicuro, che non è qui, perocchè io gli affidai un ufficio. Ma vi do la mia parola, sceriffo, che dimani all’ora del pranzo lo manderò per rispondere a voi, o a qualunque altro a cui ciò si aspetti, sopra ogni cosa di cui potrà essere aggravato. Permettete perciò che vi preghi di ritirarvi.
Scer. Obbedisco, mio principe. Ecco due oneste persone che nel furto occorso perderono trecento marchi.
P. Enr. Può essere: ma se egli ha derubato questi uomini, ne sarà responsabile; addio.
Scer. Buona notte, mio nobile principe.
P. Enr. Credo sia buon dì; non è vero?
Scer. È questo l’augurio, milord; perchè penso volgano le due ore. (esce coi vett.)
P. Enr. Quel lubrico ribaldo è noto come la cattedrale di San Paolo. — Va, fallo escire.
Poin. Falstaff!.... si è addormentato dietro agli arazzi, e russa come un cavallo.
P. Enr. Udite con quanta fatica trae l’alito. — Frugategli nelle saccoccia — (Poin. obbedisce) Che trovasti?
Poin. Solo alcune carte, milord.
P. Enr. Lascia vedere cos’è: leggile.
Poin. (leggendo) Item, un cappone2 sc. Item, salsa4 sol. Item, vino, due galloni5 sc. Item, acciughe e birra2 sc. Item, pane1/2 sol.
P. Enr. Quale nefandità! Un mezzo soldo di pane per tanto vino! Serba le altre carte con cura; le leggeremo con maggior agio, e lasciamolo intanto dormire finchè sia dì. Dimani andrò alla corte: converrà che partiamo tutti per la guerra, e sarà mia cura il procacciarti un posto onorevole. Quanto a questo turpe volume di creta lo farò porre nell’infanteria, e non dubito che una marcia di duecento quaranta miglia non lo costringa a morire. Farò rendere con usura il denaro rapito. — Vieni a trovarmi a buon’ora dimani, Poins; e intanto ti sorrida il mattino.
Poin. Buon dì, mio caro signore. (escono)