Parte prima del Re Enrico IV/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO


SCENA I.

Bangor. — Una stanza nella casa dell’arcidiacono.

Entrano Hotspur, Worcester, Mortimero e Glendowen.

Mort. Codeste promesse son belle, i nostri compagni sono sicuri, e l’impresa nostra ci dà le più liete speranze.

Hot. Lord Mortimero, e voi cugino Glendower, volete che ci assidiamo? E voi pure, zio Worcester..... maledizione! Non ho più la carta.

Glend. Eccola. (spiegando un mappamondo) Assiditi, cugino Percy, o piuttosto mio valente Hotspur: imperocchè ogni qualvolta Lancastro, parlando di te, ti chiama con questo nome, il suo volto impallidisce; e mandando un profondo sospiro ti vorrebbe già nel cielo.

Hot. E voi tutti in inferno quante volte ode proferire quello di Owen Glendower.

Glend. Nol posso biasimare: nel giorno della mia nascita la faccia del firmamento scintillò di meteore infiammate, di croci di fuoco, e nel punto medesimo in cui viddi la luce il globo della terra tremò vilmente di paura fino alle ime sue profondità.

Hot. Sta bene; avrebbe tremato non meno, quand’anche non foste nato, e che invece di vostra madre fosse stata la sua cagnuola che avesse partorito.

Glend. Ti dico che la terra tremò quando nacqui.

Hot. Ed io vi dico che, se credete che la terra abbia tremato per paura di voi, la terra e la mia anima non si rassomigliano.

Glend. Il cielo era tutto in fuoco, e il nostro globo oscillava.

Hot. Ebbene, la terra avrà tremato di spavento, vedendo il cielo in fuoco, e non per terrore della vostra nascita. Spesso la natura inferma produce strani fenomeni: spesso la terra, madre feconda, è tocca e tribolata da convulsioni intestine, cagionate dall’aere impetuoso che chiude ne’ suoi fianchi, e che aprendosi a forza un passaggio, commuove quest’antica e venerabile genitrice, ne rovescia i campanili e le torri muscose. Certo alla nascita vostra la nostra madre comune sarà andata soggetta a un tale accesso, e per la veemenza de’ suoi dolori avrà tremato. [p. 182 modifica]

Glend. Cugino, vi sono uomini da cui non tollero contraddizioni. — Permettetemi di ripetervi che alla nascita mia la vôlta dei cieli si coprì di forme fiammeggianti, che le capre accorsero atterrite dall’alto delle montagne, e i grandi armenti spaventarono le pianure coi loro strani e dolorosi muggiti. Tutti quei segni additarono in me un uomo straordinario; e tutti gli avvenimenti della mia vita mi sollevano al disopra del volgo. Qual è il mortale vivo, fra tutti quelli che chiude il mare romoreggiante intorno alle prode d’Albione, che vantar si possa d’avermi avuto a discepolo? Presentami uno fra i figli delle donne che insegnar mi possa la mia strada fra i sentieri ispidi della scienza, o che seguir possa i miei voli nella ricerca dei segreti più reconditi?

Hot. Credo bene non vi sia alcun uomo che parli meglio il gallese. — Vuo’ andare a pranzo.

Mort. Pace, cugino Percy, lo metterete in furore.

Glend. Posso chiamare gli spiriti dal fondo dell’abisso.

Hot. Ed io pure; nè uomo v’è che noi possa; ma verranno essi allorchè gli chiamerete?

Glend. Saprei insegnarti a comandare a Lucifero.

Hot. Ed io a te di far arrossir il diavolo, dicendo la verità. Se avete potenza di obbligarlo a venire, fatelo comparir qui; e vi giuro che a me basterà l’animo di porlo in fuga. Oh, finchè vivete, dite sempre il vero, e fate onta al demonio.

Mort. Su, su, cessate da questi vani propositi.

Glend. Tre volte Bolingbroke mi ha opposto un esercito, che tre volte ho cacciato nudo e malconcio dalle sponde dell’Ivo e del sabbioso Severno.

Mort. Ecco la carta. L’arcidiacono l’ha divisa in tre parti e queste sono perfettamente uguali. — L’Inghilterra dal Trento fin qui al sud e all’est, mi è assegnata. Tutta la parte dell’ovest, compresovi il paese di Galles al di là del Severno, e tutte le terre fertili che stanno fra questi limiti, diverranno di Owen Glendower. — A voi, cugino, è riserbato il regno del nord, partendo dal Trento. I trattati son di già stesi. Dopo averli segnati e suggellati con suggello immutabile, opera che bisogna compiere questa notte, voi, cugino Percy, ed io e il mio degno lord Worcester, partiremo insieme per andar a raggiungere vostro padre e le schiere Scozzesi al ritrovo che ne fu dato a Shrewsbury. Mio padre, Glendower, non è per anche pronto; ma del suo soccorso non avrem necessità che fra quindici giorni. Intanto voi avrete avuto il tempo (a Glend.) di radunare i vostri vassalli, i vostri amici e i nobili del vostro vicinato. [p. 183 modifica]

Glend. Prima che tal tempo sia trascorso, vi avrò raggiunto e le vostre donne verran meco sotto la mia scorta. Conviene ora dipartirsene scortamente senza dir loro addio, perocchè una tal separazione costerebbe un torrente di lagrime.

Hot. Parmi che la mia porzione al nord non eguagli la vostra in latitudine. Vedete (additando la carta) come questo fiume serpeggia fra le mie terre migliori, e qual’immensa mezza luna vi descrive; quest’angolo è enorme. Vuo’ si svii da questi luoghi questo molesto canale; perchè le onde chiare del Trento scorrano per un letto diritto e non vaghino più qual meandro per rapirmi i miei più ricchi domimi.

Glend. Non debbono più vagare così? Come nol farebbero?

Mort. Poi osservate com’esso continua nel suo corso, allontanandosi da voi, mercè tal abbandono vi rende col continente opposto, tutto che dall’altro vi toglie.

Worc. Su, via, con poca spesa si svierà qui il fiume e voi guadagnerete, dal lato del nord, questa lingua di terra che renderà diritto il suo corso.

Hot. Questo è ciò ch’io voglio, e che si farà con poco dispendio.

Glend. Ma io non acconsento.

Hot. Voi non acconsentite?

Glend. No, e nol farete.

Hot. Chi mi dirà no?

Glend. Io.

Hot. Ditelo dunque in guisa ch’io non l’intenda. Ditemelo in gallese.

Glend. Milord, so parlar bene inglese al pari di voi. Imperocchè sono stato educato alla corte d’Inghilterra, e fin dalla mia più tenera giovinezza ho cantato sull’arpa romanze inglesi, aggiungendo grazie alla lingua, merito a voi ignoto.

Hot. Di ciò io mi allieto con tutto il cuore con me medesimo; meglio mi piacerebbe di essere condannato a non saper esalare altri suoni che gli acri della civetta, che a recitare la parte del giullare. Preferirei di udire lo stridere di un candeliere di rame strisciante sul pavimento, o qualunque altro aspro accordo pinttostochè poesie di vergognosa libidine. Parmi nulla vi sia di più infesto di quest’ultima cosa.

Glend. Su, via, si svierà il corso al Trento.

Hot. La cosa è a dovere: darei tre volte tante terre al primo de’ miei amici che mi avesse fatto un servigio: ma trattandosi di mercato, contenderei per la decima parte di un capello. Gli articoli son segnati? Partirem noi? [p. 184 modifica]

Glend. La luna luce in tutto il suo splendore; potrete partir questa notte. Io intanto solleciterò il cancelliere e disporrò la vostra donna al distacco. — Temo che mia figlia non ne perda la ragione, tanto essa ama il suo diletto Mortimero. (esce)

Mort. Vergogna, cugino Percy! Perchè contraddite sempre così mio padre?

Hot. Non so attenermene. Qualche volta ei mi mette in collera, parlandomi del topo e della formica; del mago Merlino e delle sue profezie; di un drago e di un pesce senza pinne; di un grifone dalle ali logore e di un corvo in muda, di un leone adagiato, di un gatto danzante, o di una quantità d’altri insulsi e vani racconti, ai quali mi è impossibile il prestar fede. Che vi dirò io di più? La notte scorsa ei m’intrattenne almeno nove ore, coll’enumerazione dei diavoli che gli son soggetti: e sebbene io gli dicessi: meraviglioso! continuate; pure non ne ho udita una parola. Ah, egli è noioso come un cavallo zoppo o una donna sdegnata che vi fa ingiuria! più infesto, più insopportabile che nol sia il soggiorno d’una capanna piena di fumo! — Io preferirei il vivere di latte e d’aglio in qualche molino romito, lungi dagli uomini, che udirlo incessantemente parlarmi alle orecchie, nella casa di piacere più dolce di tutta la cristianità, e alla mensa imbandita delle vivande più delicate.

Mort. Vuolsi convenire, che è un gentiluomo di un raro merito; mirabilmente istrutto e profondo nelle scienze occulte; prode come un leone e amabilmente affabile, ricco e generoso, come le miniere dell’India. Volete ch’io vel dica, cugino? Egli ha nel maggior conto il vostro carattere, e fa violenza e se stesso tollerandovi, allorchè lo contraddite. V’impegno la mia fede che non v’è alcun uomo sotto il cielo che avesse potuto provocarlo, come voi avete fatto, senza esporsi al pericolo di pentirsene. Ma non contraete di ciò l’abitudine, ve ne supplico.

Worc. In verità, milord, errate; e colla vostra ostinatezza, dacchè siete giunto, avete fatto abbastanza per spingere la sua pazienza agli estremi. Bisogna assolutamente, milord, che impariate a correggervi di tal difetto. Qualche volta esso mostra grandezza, coraggio, gioventù e fuoco, ed ecco il maggior vantaggio che ne possiate ritrarre: ma più spesso ancora chiarisce una contumacia furiosa, una mancanza di rispetti, e di modi sociali, orgoglio, alterigia, presunzione e sdegno: e il più piccolo di tali difetti in un gentiluomo gli fa perdere i cuori, e lascia sulle altre sue doti una macchia che gli toglie la stima che gli sarebbe dovuta.

Hot. Bene sta, miei signori, eccomi a scuola! La vostra cortesia [p. 185 modifica]vi renda lieti. — S’avanzano le nostre mogli, facciam loro i nostri addii. (rientra Glendower colle signore)

Mort. Ecco ciò che mi cruccia a morte e mi empie di collera. Mia moglie non sa parlare inglese, nè io gallese.

Glend. Mia figlia piange; essa non vuol dipartirsi da voi: vuol essere una eroina e seguirvi alla guerra.

Mort. Buon padre, ditele ch’ella e la mia zia Percy ci seguiranno dappresso sotto la vostra scorta. (Glendower parla a sua figlia in gallese, ed essa gli risponde nel medesimo linguaggio)

Glend. È disperata; la sua ostinatezza è invincibile, nè v’hanno ragioni che la persuadano. (lady Mortimero parla al suo sposo in gallese)

Mort. Intendo i tuoi sguardi: ho versato assai nell’amabile idioma che esce dal puro cielo de’ tuoi grandi occhi, e, se la vergogna non mi rattenesse, ti saprei rispondere debitamente. — Sì; intendo i tuoi baci, e tu i miei: ed è un dialogo tutto di sentimento. — Ma io ti prometto, amica mia, di non perdere un momento, fino a che imparato non abbia la lingua tua: perocchè nella tua bocca il gallese ha tante grazie, quante ne potrebbe aver la più bella canzone che cantata fosse da una vaga regina, all’ombra amena di un faggio.

Glend. Se voi v’intenerite, essa perderà la ragione. (lady Mort. parla di nuovo)

Mort. Oh, io sono l’ignoranza stessa di questa lingua.

Glend. Essa vi prega di assidervi sopra questo molle strato di giunchi, e di riposare l’amato vostro capo sul seno di lei, intantochè vi canterà la romanza che più vi piace. All’incantesimo della sua voce, il dio del sonno scenderà sulle vostre palpebre e infonderà nei vostri spiriti un dolce sopore; talchè i vostri sensi essendo come sospesi fra la veglia e il sonno, voi gusterete quel delicato riposo che somiglia al crepuscolo che separa il dì dalla notte, un’ora prima che il celeste carro del sole cominci in oriente il suo corso fiammeggiante.

Mort. Acconsento con tutto il cuore e l’udrò cantare. Durante tal tempo verrà trascritto, credo, il nostro trattato.

Glend. Su, assidetevi. I musici, che suoneranno per vostro diporto, stanno negli spazi dell’aere, lungi mille leghe da voi, e nondimeno a un cenno compariranno: assidetevi e state attento.

Hot. Vieni, Caterina: tu ami di assiderti voluttuosamente sopra i cespi. Adagiati dunque ond’io possa riposare il mio capo sopra il tuo seno. [p. 186 modifica]

Lady. P. Cessate, nomo capriccioso. (Glendower proferisce alcune parole in gallese e quindi si ode la musica)

Hot. Oh, comincio ad avvedermi che il diavolo intende il gallese, nè sono più sorpreso del suo buon umore. Per la Beata Vergine, è un valente musico!

Lady. P. Dovreste dunqne voi pure esserlo; imperocchè anche voi siete retto da bizzarri umori. Sa, assidetevi, giovine folle, e ascoltate pacificamente la canzone gallese di questa dama.

Hot. Amerei molto meglio, mia vaga amica, di udir gli urli di un irlandese.

Lady. P. Vuoi aver la testa rotta?

Hot. No.

Lady. P. Dunque taciti.

Hot. Neppur questo farò: somiglio alle donne nella contraddizione.

Lady. P. Ora Iddio ti conduca!

Hot. Al letto di una bella signora.

Lady. P. Che significa ciò?

Hot. Silenzio! Ella canta. (romanza gallese cantata da Lady Mort.) Su, Caterina, vuo’ che tu ancora canti.

Lady. P. No, in verità.

Hot. No, in verità? Mio amore, i vostri giuramenti rassomigliano a quelli di una inzuccherata borghese. No, in verità! Quant’è vero ch’io vivo! ecc. Tali parole son troppo leggiere! Si direbbe che, nelle vostre corse, non abbiate mai varcato le pianure di Finsbury1; giurami, Caterina, da quella donna che sei; e lascia andare la tua verità, e le effeminate espressioni tanto di moda fra i cortigiani e i loro gretti imitatori. Canta.

Lady. P. Non vuo’ cantare.

Hot. Hai senno; il canto è il cammino più breve per ire al precipizio. — Se gli articoli son trascritti, partirò fra due ore, e voi venite quando verrete. (esce)

Glend. Andiamo, andiamo, lord Mortimero, siete così lento quanto l’impetuoso Percy è sollecito. Intanto che qui restammo, il nostro trattato si compì, e ci rimane solo da suggellarlo.

Mort. Andiamo. (escono) [p. 187 modifica]

SCENA II.

Una stanza nel palazzo.

Entrano il re Enrico, il Principe di Galles e Lôrdi.

Enr. Lôrdi, lasciateci soli: fra il principe di Galles e me deve correre un colloquio senza testimonii: pensate a non allontanarvi però, che fra un momento avremo mestieri della vostra presenza. (i Lôrdi escono) Io non so se Iddio, per qualche fallo da me commesso, ha decretato ch’ei nutrirebbe del mio sangue lo strumento della sua vendetta e il flagello mio: ma tu mi fai credere a ciò. Quando questo non fosse, come potrebbero inclinazioni sì vili, sentimenti sì abietti, condotta sì biasimevole, passioni sì basse per piaceri tanto ignobili e compagni rotti ad ogni vizio, quali son quelli a cui ti sei unito, essersi associati alla nobiltà del tuo sangue, e occupare pur per un istante il tuo regio cuore?

P. Enr. Se Vostra Maestà si degna porgermi ascolto, farò opera di scolparmi di tutti i miei trascorsi, e sono sicuro che mi detergerò delle macchie che mi si vengono apposte. Ma per attenuare i miei errori lasciatemi almeno chiedervi una grazia; è che se anniento mille menzogne calunniatrici, spacciate da parassiti che straziano sorridendo, da vili trafficatori e tessitori di fole da cui troppo spesso assediate sono le orecchie dei re, divenga questo un titolo per ottenere col mio sincero pentimento il perdono di alcuni falli troppo veri, in cui m’ha imprudentemente trascinato la mia focosa giovinezza.

Enr. Iddio ti perdoni. Ma permettimi, Enrico, di meravigliarmi delle tue tendenze che mostransi del tutto diverse da quelle dei tuoi avi. Tu hai vergognosamente perduto il tuo seggio nel consiglio, che il tuo giovine fratello oggi riempie; hai perduto l’amore della Corte; tutta la speranza della tua giovinezza è distrutta, nè v’è uomo che prevedendo il tuo avvenire non presagisca la tua caduta. Se io fossi stato così prodigo della mia presenza, e mi fossi così di sovente prostituito alla vista degli uomini, abbandonato a sì vil prezzo a compagnie volgari, l’opinion pubblica, che mi ha condotto in trono, sarebbe rimasta fedele a quegli che ne era possessore, e mi avrebbe lasciato in un esilio senza gloria, mortale sconosciuto, privo di ogni splendore. Ma poichè io apparivo di rado, non potevo incedere fra il popolo accalcato intorno a me. Straordinario come una cometa, ero contemplato con ammirazione, e tutti i padri dicevano ai figli: [p. 188 modifica]eccolo! è quello! Quello è Bolingbroke! È così che mi sono fatto amare e mi sono adornato d’una modestia, che mi ha cattivati i cuori di tutti, e m’ha fatto acclamare, presente il re. Con quest’arte ho saputo conservare la meraviglia di me: e la mia persona, come una veste pontificale, non si è mai esposta agli sguardi che veduta non fosse con sorpresa. Così la mia apparizione diveniva un tripudio pel popolo, e la riserva di cui usavo, ne accresceva la solennità. Il re intanto correva per la città in compagnia di frivole persone, di spiriti vani e leggeri che brillavano un istante e si estinguevano tosto. Mescolandosi imprudentemente con quella schiera beffarda, ei poneva a repentaglio la sua grandezza, lasciava profanare il suo augusto nome da sarcasmi, abusare di sè con detrimento di fama, scopo agli scherni di giovani insensati, e procedente di pari passo col primo malandrino che osava camminare con lui, talchè detto si sarebbe ch’ei si fosse annoiato alle ciurme. Che accadde? Col troppo possedere il proprio re e vederlo sotto i suoi occhi, il popolo se n’è stanco; e Riccardo che, mostrandosi più di rado, avrebbe abbagliato colla sua maestà, non fu più veduto che con occhio indifferente, tanto l’abitudine ne aveva dissipato l’incanto. In breve: ognuno era satollo della sua vista. Ora tu sei, Enrico, in ugual condizione. Tu hai perdute le prerogative del tuo grado avvilendole con un indegno abbassamento, e tutti gli occhi sono fastiditi della tua troppa presenza, eccetto i miei che hanno desiderato di vederti ancora, e cui tal vista empie di lagrime.

P. Enr. Mio degno e rispettabile re, io vi prometto di comportarmi in modo più dicevole per l’avvenire.

Enr. Per tutto ciò che esiste nell’universo, quale tu sei oggi, tale era Riccardo, allorchè tornando di Francia, io approdai a Ravensburg, e quale io era allora, tale oggi è Percy. Pel mio scettro e per l’anima mia, Percy ha acquistati diritti più reali e più solidi al governo de’ miei Stati, che tu, ombra del successore del trono! Egli senza alcuna ragione, senza pur alcun colore di ragione o di pretese, riempie le nostre campagne di guerrieri armati; investe la gola minacciosa del leone in furore; e sebbene non abbia più anni di te, prorompe a battaglie cruenti e a mischie feroci guidando lôrdi incanutiti in guerra e prelati venerandi. Qual onore immortale non ha egli ottenuto contro il famoso Douglas, di cui gli alti gesti, le ardite escursioni e la gran fama nelle armi, toglievano a tutti i guerrieri il più bel posto e il titolo supremo di primo capitano del secolo, in quanti regni riconoscono Gesù? Ebbene, tre volte quell’Hotspur, quel giovine [p. 189 modifica]Marte ancora in culla, quell’eroe balbettante battè il gran Douglas, e svanì le di lui opere; ei lo fece una volta prigioniero per rimetterlo poscia in libertà, e crearsene un amico che oggi lo serve e ci sfida, e minaccia di sovvertire il nostro trono. Che rispondi a ciò? Percy, Northumberland, l’arcivescovo di York, Douglas, Mortimero, s’uniscono contro di noi e stanno già in armi. Ma perchè t’istruisco io di tali novelle? Perchè, Enrico, parlo io a te de’ miei nemici, a te che ne sei il più fatale, quantunque più presso al mio seno; a te che, per un timor servile, per una vile inclinazione o per una bizzarrìa del tuo carattere corrotto, non tarderai a ricevere gli stipendi di Percy, per combattere tuo padre, lambendo i piedi di quell’eroe, piaggiando al suo corruccio, e mostrando fino a qual segno sii degenerato?

P. Enr. Non vogliate crederlo: non mai vedrete arrivare un tale istante: e perdoni il cielo a coloro che dispersero sì lungi da me la stima e il cuore di Vostra Maestà! La testa di Percy sconterà tutti questi rimproveri; e al finir di un glorioso giorno oserò dirvi che son vostro figlio, presentandomi a voi livido di ferite, col viso coperto di sangue. Tal sangue terso una volta porterà con sè e cancellerà ogni mia vergogna passata. E quel giorno sarà lo stesso, qualunque sia il tempo nel quale venga, in cui quel giovine figlio della gloria e della fama, quel prode Hotspur, quel cavaliere oggetto di tutte le lodi e il vostro Enrico, al quale più non si pensa, si scontreranno. Sì, fossero tutti gli onori accumulati a migliaia sopra il tuo elmo, e ogni ignominia pesasse sulla mia testa, verrebbe tempo, in cui forzerei quel giovine guerriero del nord ad arrischiar tutta la gloria delle sue imprese contro le vergogne della mia vita. Mio buon sovrano, Percy non è che mio agente; tutta la gloria ch’ei raccoglie l’accumula per me e gliene farò rendere conto sì stretto che converrà mi ceda ad uno ad uno tutti i suoi onori fino all’ultimo, fino al più inavvertito. Ecco ciò ch’io prometto in faccia al cielo: e se il cielo mi seconda, scongiuro Vostra Maestà, onde quest’opera valga ad espiare la mia giovinezza e a rimarginare le piaghe della mia cattiva condotta. Se non riesco al mio intento, la vita cessando spegne con sè tutti gli obblighi e i doveri, e patirei mille morti prima che violare questo giuramento.

Enr. Per esso moriranno centomila ribelli. Tu sarai preposto a questa guerra, e avrai tutta la mia fiducia. (entra Blunt) Ebbene, buon Blunt? I tuoi sguardi spirano l’impazienza.

Blunt. Gravi sono le cure di cui vengo a intrattenervi. Mortimero di Scozia ne fa istrutti che Douglas e i ribelli si congiunsero [p. 190 modifica]nel dì undici di questo mese a Shrewsbury. Se le promesse reciproche che si son fatte tengono, essi formeranno il partito più potente e più tenace che mai tramasse una cospirazione in un regno.

Enr. Il conte di Westmoreland partì oggi; e con lui sta, mio figlio, lord Giovanni Lancastro; perocchè tal comando fu da me dato son già cinque giorni. Mercoledì tu ancora partirai, Enrico. Giovedì ci metteremo noi stessi in campo: il nostro ritrovo sarà a Bridgnorth. Tu, Enrico, procederai per la provincia di Glocester; e secondo il nostro disegno, tutte le nostre schiere si riuniranno a Bridgnorth fra dodici giorni. Molte cure ci opprimono: per ora separiamoci. Ogni momento che perdiamo in indugi, accresce le forze del nostro nemico. (escono)

SCENA III.

Eastcheap. — Una stanza nella taverna del Cinghiale.

Entrano Falstaff e Bardolfo.

Fal. Bardolfo, non son divenuto orribilmente magro dopo quell’ultima gherminella? Non ti sembra ch’io sia decaduto, e fatto mingherlino? Vedi, la pelle mi sventola da tutte parti, come la veste notturna d’una vecchia matrona. Sono appassito, aggrinzito, paio una pera decrepita: onde farò penitenza finchè mi resta anche un po’ d’umano, avvegnachè fra breve non avrò più nè cuore, nè virtù, e mi mancherà la forza del pentimento. Se non ho dimenticato come è fatto l’interno di una chiesa vuo’ diventar secco come un grano di pepe o come il cavallo di un fabbricatore di birra. I compagni, i cattivi compagni hanno causata la mia perdita.

Bard. Sir Giovanni, siete sì tristo che non potete vivere lungamente.

Fal. Questo appunto è; onde cantami una canzone ben lasciva per rallegrarmi. Io ero saggio e nobilmente educato quanto un galantuomo deve esserlo; bestemmiavo, poco, non giuocavo ai dadi più di sette volte la settimana; non andavo in cattivi luoghi più di una volta ogni quarto d’ora: restituivo il denaro che prendevo a prestito (tre o quattro volte ciò m’accadde); vivevo bene e con buon ordine, come ora vivo senza regola e senza misura.

Bard. Ma voi siete sì pingue, sir Giovanni, che a forza dovete essere più largo di ogni senza misura.

Fal. Correggi il tuo volto e io correggerò la mia vita: tu sei il nostro ammiraglio, tu porti la lanterna a poppa, col tuo naso; tu sei il cavaliere della lampada ardente. [p. 191 modifica]

Bard. Pel Cielo, sir Giovanni, la mia faccia non vi offende.

Fal. No, ciò è vero, ne proferirei sacramento: e ne fo così un buon uso quale molte persone fanno di una testa di morto o di un memento mori. Non reggo mai il tuo viso ch’io non pensi tosto al fuoco dello inferno e al ricco malvagio che viveva nella porpora; imperocchè è lui che veggo! sì, eccolo là che brucia nella sua veste. Se esistesse in te la più piccola ombra di virtù, giurerei sul tuo volto; il mio giuramento sarebbe per quel fuoco: ma tu sei un uomo abbandonato da Dio, e senza la fiamma che si diparte da te, saresti un figlio delle tenebre. Allorchè corri sulle alture di Gadshill, fra gli orrori della notte, per prendere il mio cavallo, se non ti ho avuto in conto d’un fuoco folletto, converrò che il denaro non è più buono a nulla. Oh, tu sei una gioia perpetua, un eterno fuoco di allegrezza! Tu mi hai risparmiati più di mille marchi in torcie e fanali, allorchè passavamo insieme la notte di taverna in taverna: ma il vino poi che mi hai bevuto, m’avrebbe fatto acquistare i lumi a eguale buon prezzo, anche dal più caro droghiere di tutta Europa. Son più di trentadue anni che intrattengo le fiamme della tua maledetta salamandra; voglia il Cielo ricompensarmi.

Bard. Pel Cielo! desidererei che il mio volto stesse nel vostro ventre.

Fal. Dio mi commiseri! Così sarei sicuro d’averne il cuore abbruciato, (entra l’ostessa) Ebbene, mio pollo, mia cara beccatrice? Avete fatto ricerca di chi vuotò le mie saccoccie?

Ost. Come, sir Giovanni? A che pensate voi? Credete forse che vi siano ladri in mia casa? Frugai per tutto; ho interrogato insieme con mio marito tutti i nostri inferiori: non mai in vita mia si perdè un pelo in questa osteria.

Fal. Mentite, padrona; perocchè Bardolfo vi si fece radere; ed io giurerei che le mie saccoccie vi son state vuotate. Itevene, siete una donna, itevene.

Ost. Chi, io? Io ti sfido; non mai fui chiamata così in casa mia.

Fal. Ite, vi conosco troppo.

Ost. No, sir Giovanni, non mi conoscete. Io sì conosco voi, sir Giovanni: voi siete mio debitore e vorreste oggi contender meco per non darmi nulla: ma fui io che vi comprai una dozzina di camicie e che le adattai al vostro dosso.

Fal. Tela da canavaccio, grossa tela da canavaccio; ne feci dono a certe fornaie che se ne valgono per portar la farina.

Ost. Come è vero ch’io son femmina, era tela d’Olanda da otto scellini. Poi mi dovete altro denaro ancora, sir Giovanni, pel [p. 192 modifica]vostro mantenimento, le vostre bottiglie e ventiquattro ghinee datevi in prestito.

Fal. Eccovi uno (indicando Bard.) che ne ha avuta una buona parte; ch’ei vi paghi.

Ost. Egli? Oimè è troppo povero; non ha nulla.

Fal. Come! povero? Mirate il suo volto. Chi chiamerete dunque ricco? Ch’ei faccia coniare il suo naso e le sue guancie; io non vi darò un obolo. Mi avreste forse in conto di un adolescente? Non sarò io libero di attendere ai miei agi nel mio albergo senza correr rischio di essere derubato? Ho perduto un suggello del mio avolo, che valeva almeno quaranta marchi.

Ost. Oh Gesù! udii molte volte il principe a dire che quel suggello era di rame.

Fal. Il principe è un mariuolo, un mercatante di menzogne, a cui darei cento colpi di bastone se fosse qui e osasse dir ciò.

(entrano il principe Enrico e Poins: Falstaff va loro incontro, suonando il piffero col suo bastone)

Fal. Ebbene, mio garzone? Spira realmente di costà il vento? Dobbiam noi marciare?

Bard. Sì; a due a due, alla maniera di Newgate2.

Ost. Milord, vi prego di ascoltarmi.

P. Enr. Che di’ tu madonna Quickly? Come sta tuo marito? Io l’amo assai, perchè è un onest’uomo.

Ost. Mio buon signore, ascoltatemi.

Fal. Pregoti, lasciala sola, e bada a me.

P. Enr. Che dici tu, ribaldo?

Fal. L’altra sera mi addormii qui dietro agli arazzi, e n’ebbi le saccoccie vuote: questa casa è divenuta un antro di ladri, le saccoccie vi corrono fieri pericoli.

P. Enr. Che ci perdesti, malandrino?

Fal. Vuoi tu credermi, Enrico? Tre o quattro obbligazioni di quaranta lire l’una, e un suggello del mio avolo.

P. Enr. Cose da nulla, oggetti da otto o dieci soldi.

Ost. Così io pur gli dicevo, milord; e gli soggiungevo ancora che aveva udito ciò da Vostra Grazia: ma egli, milord, parlava di voi da quell’indegno che è, e diceva che voleva bastonarvi.

P. Enr. Che! Così diceva?

Ost. Se ciò non è vero, non vi sia per me nè grazia, nè fede, nè salute.

Fal. Non v’è maggior fede in te, che non ne sia in un pagano; [p. 193 modifica]non maggior grazia, che non se n’abbia una volpe; e se devi essere salvata, il diavolo sarà redento. Vattene di qui, cosa...

Ost. Che cosa? Che cosa?

Fal. Cosa da pregarci Iddio standovi sopra.

Ost. Non sono tale da permettere che si preghi Iddio sopra di me; vorrei che lo sapessi; son moglie di un onest’uomo: e lasciando a parte la tua cavalleria, ti dico che sei un malnato a vilipendermi così.

Fal. E mettendo a parte la tua qualità di donna, ti dichiaro una bestia dicendo altrimenti.

Ost. Qual bestia? Quale?

Fal. Qual bestia? Una lontra.

P. Enr. Una lontra, sir Giovanni! perchè una lontra?

Fal. Perchè? Ella non è nè pesce, nè carne; un uomo non sa come impossessarsene.

Ost. Tu sei ingiusto, tu e qualunque altro che non conosca come io possa esser presa.

P. Enr. Dici il vero, ostessa; ei ti calunniò vilmente.

Ost. Così fa verso di voi, milord; diceva l’altro giorno che voi gli dovevate mille ghinee.

P. Enr. Malandrino, io ti debbo mille ghinee?

Fal. Mille ghinee, Enrico? Un milione: la tua amicizia vale un milione; e tu mi concedi la tua amicizia.

Ost. Ei vi chiamò furfante, e disse che voleva bastonarvi.

Fal. Lo dissi io, Bardotto?

Bard. Così diceste, sir Giovanni.

Fal. Sì, se egli disse che il mio suggello era di rame.

P. Enr. Lo dissi: osi tu persistere ora nella tua parola?

Fal. Enrico, tu sai bene, che s’io non vedessi in te che un uomo, l’oserei; ma essendo tu un principe, io ti temo quanto temerei il ruggito d’un giovine lioncello.

P. Enr. E perchè non come lo stesso leone?

Fal. È il re proprio che si deve temer come il leone. Credi tu, in coscienza, ch’io ti temessi, come temerei tuo padre? No, in fede mia: se questo fosse, vorrei che il mio cinto scoppiasse.

P. Enr. Oh, così ciò accadesse come anche al tuo ventre! Ma impudente, nel tuo maledetto seno non cape la più piccola dramma di verità o d’onore: esso è pieno soltanto di sporcizia. Accusare un’onesta donna d’averti vuotate le saccoccie: ma figlio di femmina impudica, se stavano in esse altro fuorchè conti di osteria o memorie di luoghi malvagi da te percorsi, vuo’ essere un miserabile: Oh! non hai tu vergogna? [p. 194 modifica]

Fal. Ascolta, Enrico, tu sai che nello stato d’innocenza Adamo fallì; e che puote far in questo secolo corrotto il povero Giovanni Falstaff? Tu vedi bene che v’è in me più carne che in ogni altro, per conseguenza più fragilità. — Confessate voi adunque d’avermi vuotate le saccoccie?

P. Enr. Pare di sì, secondo la storia.

Fal. Ostessa, ti perdono: va ad imbandir la colazione; ama tuo marito; veglia sui tuoi domestici; festeggia i tuoi ospiti; mi troverai mansueto quant’è di ragione; e vedi già che sono riconciliato. — Rimani ancora?... No, prego, vattene. (l’ostessa esce) Ora, Enrico, torniamo alle novelle di corte: al furto, garzone, come si rispose?

P. Enr. Mio dolce Rostbeef, convien ch’io sia sempre il tuo buon angelo. Il denaro è restituito.

Fal. Ma tali rendimenti non mi piacciono: ciò mi arreca un doppio supplizio.

P. Enr. Io sto in pace con mio padre e posso fare tutto quello che voglio.

Fal. Ruba dunque il tesoro regio e sia questa la tua prima opera; affrettati e segua ciò al tuo risvegliarti, anzichè ti sian lavate le mani.

Bard. Fâllo, milord.

P. Enr. Ho procacciato a te, mio Giovanni, un posto nella fanteria.

Fal. Mi sarebbe piaciuto di più fra i cavalli. Dove troverò io un altr’uomo che sappia rubare a dovere? Oh quanto pagherei un sagace ladro di venti o ventidue anni! ma sono sprovvisto di tutto. Dio nullameno sia benedetto! I ribelli non se la pigliano che colle oneste persone: lodi siano loro!

P. Enr. Bardolfo...

Bard. Milord.

P. Enr. Va a portar questa lettera a Giovanni Lancastro, mio fratello: quest’altra a milord Westmoreland. Animo, Poins, a cavallo: perocchè, tu ed io abbiamo ancora trenta miglia da fare prima del pranzo. Tu, mio amato sir Giovanni, vienmi a trovar dimani nella sala del Tempio, a due ore dopo il meriggio: là saprai qual è il posto che ti si assegna e avrai istruzioni e denaro. La campagna è in fuoco: Percy tocca al culmine della gloria; convien ch’egli od io discendiamo da più di un gradino. (esce con Poins e Bardolfo)

Fal. Onorate parole! Magnanimo mondo!..... ostessa la mia colazione, vieni.... oh! vorrei che questa taverna fosse il mio tamburo. (esce)


Note

  1. Luogo di ritrovo per gli abitanti di Londra.
  2. Prigione di Londra.