Operette morali (1918)/Proemio
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PROEMIO
I.
Se si volesse considerare le Operette morali come una raccolta delle varie parti, in cui il libro a primo aspetto ci si presenta diviso, sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla terza edizione iniziata a Napoli nel 1834. «Queste Operette», egli diceva, «composte nel 1824, pubblicate la prima volta in Milano nel 1827, ristampate in Firenze nel 1834 coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggero, e di quello di Tristano e di un Amico, composti nel 1832; tornano ora alla luce ricorrette notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco scritto nel 1825, del Copernico, e del Dialogo di Plotino e di Porfirio, composti nel 1827»1. Intanto, non tutte le Operette furono pubblicate la prima volta a Milano nel ’27; giacché tre di esse, come «primo saggio», avevan già visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’Antologia2, e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle che nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore al ’25, al ’27 e al ’32, furon composte nel 1824; perché l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne fa sicura testimonianza con le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13 dicembre di quell’anno3. Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui fu prima concepito, o ne cadde il motivo fondamentale e inspiratore nell’animo del Leopardi. Giacché con qual fondamento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a documento di quel periodo spirituale che si suole infatti attribuire agli anni tra il canto Alla sua donna (settembre 1823) con i Frammenti dal greco di Simonide (appartenenti probabilmente a quello stesso tempo), e l’epistola Al Conte Carlo Pepoli (marzo 1826), o Il Risorgimento (aprile 1828), se quei pensieri che sono caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più remota? Fu già osservato4 che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati senza indicazione di tempo»5, è segnato un «Dialogo della natura e dell’uomo, sul proposito di quella parlata della natura all’uomo, che Volney le mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme»6: dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e di un’Anima; il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto. Pure nello stesso foglietto, segue un «Trattatello degli errori popolari degli antichi Greci e Romani» (che non può essere la stessa cosa del Saggio), e quindi, subito dopo: «Comento e riflessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è delle ultime operette del ’24. Ora, se questi appunti sono pertanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da comporre? O egli non aveva neppur composto i Detti memorabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva?
Comunque, in altra serie di appunti, relativi tutti, come par probabile, a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade; Egesia pisitanato; Natura ed Anima; Tasso e Genio; Galantuomo e mondo; Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma accanto a un altro dialogo, Galantuomo e mondo, che l’autore abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel ’24, senza condurlo tuttavia a termine7; e la sua prima idea deve pertanto risalire almeno al 1822. E secondo lo stesso documento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre quattro operette, due del ’24, e due del ’27. Giacché, oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico, qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisatanato la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio8; e nel Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez9; e in Misénore e Filénore quella del Dialogo di Timandro e Eleandro10. E il documento certamente dimostra che del Plotino e del Copernico, scritti entrambi, come s’è veduto, nel ’27, non solo il concetto, ma anche la forma in cui il concetto si presentò alla mente del Leopardi, non è posteriore alle Operette del 24.
E c’è altro. Stando alla cronologia attestata dai documenti, l’Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate del 1824: ma un’analisi molto accurata dei singoli Detti, riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in questo scritto «liberamente il Leopardi raccolse dal suo Zibaldone gli appunti più singolari e umoristici; certo intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche parte del materiale accumulato giorno per giorno»; sicché s’è creduto di poter conchiudere che nell’Ottonieri al Leopardi «venne fatto un centone, non un’operetta come le altre organicamente intessuta»11. Scegliamo infatti un paio d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap. III dell’Ottonieri si legge:
Diceva che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’inconsideratezza sia molto più comune della malvagità, della inumanità e simili; e da quella abbia origine un numero assai maggiore di cattive opere: e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno veramente altro che inconsiderati.
Idee che fin dall’11 settembre 1820 il Leopardi aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri, scrivendo:
La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l‘apparenza e produce gli effetti della malvagità e brutalità. E merita di esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo e sensibile, vedemmo un giovinastro che con un grosso bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci penare il suo servitore alla pioggia ec.), e avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo facciamo cosí alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo. Cosí la trascuranza prende utto l’aspetto e produce lo stessissimo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia che fare col tuo carattere12.
Voltando appena pagina, nell’Ottonieri si torna a leggere:
Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo inclinati e soliti a presupporre in quelli coi quali ci avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi veri, o che noi c’immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta memoria per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.
E anche questo pensiero, quantunque in forma compendiata a mo’ di appunto, era già nello Zibaldone fin dal 23 luglio 1820:
Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordinaria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a qualunque altra cosa.
E poiché il numero di questi riscontri è tale che pochi si possono dire i luoghi dell’Ottonieri di cui non si trovi la prima prova nei Pensieri degli anni anteriori, non sarà da dire che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma definitiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sembrato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro anni prima?
Né la domanda vale pel solo Ottonieri. Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già nei Pensieri scritti tra il ’20 e il ’2313. Caratteristico questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini:
Come le città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città grandi; perciò le piccole... sogliono tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stessa fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e l’altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e di studi, si trova abitare in luogo piccolo, l’esservi al tutto unica, non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del luogo... E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la terra ch’io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito
di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o favella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.Mirabile pagina, piena di verità, che trae origine da riflessioni personali e autobiografiche già dal Leopardi segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820:
II.
Né soltanto la cronologia diventa un problema di difficile soluzione, quando si entri nella via di simili riscontri. I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento del pensiero del Leopardi astratto dalla forma che esso ha nelle Operette, guardando alla quale è facile scorgere, p. es., la superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l’Ottonieri non sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldone. E si badi, d’altra parte, a non intendere né anche questa forma in astratto, come la forma speciale del tal passo delle Operette, il quale abbia un antecedente più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur cosi intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente diversa). Anche questa è una forma astratta, perché la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò componendole. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si prescinda da questa unità, e si cominci a indagarne il contenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, dalla cui somma risulta per chi se ne lasci sfuggire lo spirito. Che è quello che è stato fatto per le prose leopardiane da tutti i critici che se ne sono occupati, ora considerando e giudicando le singole operette ad una ad una, ora sminuzzando ciascuna di esse in una serie di frammenti facilmente rintracciabili in altri scritti dello stesso Leopardi, in verso e in prosa (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta inutilmente se stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del sec. XVIII (in confronto dei quali svanirebbe poi tutta l’originalità dello scrittore). Il maggior critico che il Leopardi abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e confronti, fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò della necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera nell’accento personale, nell'impronta propria, onde ogni vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto, nell'unità, dove soltanto è possibile che sia l'anima e l’originalità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per cosi dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa a sé, invece di cercare il Leopardi di tutte le operette, che sono un’opera sola. Sta in primo luogo di fatto che, ad eccezione del Venditore di almanacchi e del Tristano, onde nel ’32 l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle sue Operette, tutte le altre pullularono dall’animo del Leopardi nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che ’l Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quando ei vagheggiava il suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Timandro; e meditava insomma quegli stessi pensieri, che presero corpo nelle Operette del ’24: con le quali infatti, poiché nel ’27 l’ebbe scritte, l’autore senti che dovevano accompagnarsi. Il 21 giugno del '32 all’amico De Sinner, che gli chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a Parigi, scriveva: «Ho bensì due dialoghi da essere aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano. Di queste due prose voi siete il padrone di disporre a vostro piacere: solo bisogna ch’io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero facilmente pubblicarsi in Italia»15. Ma avvertiva subito, che da soli questi dialoghi non potevano andare; e il 31 luglio tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle Operette morali, al quale erano destinate»16. Quanto al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; quindi immediatamente posteriore alle altre prose compagne; e anteriore ad ogni tentativo fatto dall’autore per pubblicare le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e totali
fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo materialismo professatovi, che le Censure non avrebbero lasciato passare. Ma, lasciando per ora da parte queste cinque operette (Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi alle prime venti, è certo che queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che le singole operette potessero venire in luce alla spicciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare nella raccolta delle sue Opere, che un editore amico voleva fare allora in Bologna; e, andata a monte quell’edizione, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani, al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore: con tanto desiderio di vedere stampata la sua opera, che il 16 gennaio del ’26 già scriveva impazientito al Papadopoli: «I miei Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo manderò a Milano»17. Ma da Firenze scrivevagli il Vieusseux il primo marzo: «Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 dell‘Antologia, ora pubblicato, ch’io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccellenti scritti. Sento che queste Operette morali verranno probabilmente pubblicate costà, e ne godo assai pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un giornale»18. Quella prima pubblicazione dunque, non fu altro che un saggio. Del quale il 5 giugno il Leopardi scriveva all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi stampati nell’Antologia non avevano ad essere altro che un saggio, e però furono così pochi e brevi. La scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per primo19»: affermando così che tra i suoi dialoghi c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto. Proponendo quindi la stampa dell’opera intera all’editore Stella di Milano, cominciava a scrivergli: «Ha ella veduto il numero 61 dell’Antologia, gennaio 1826? È penetrato, ed ha avuto corso in cotesti Stati? Vi ha ella veduto il Saggio delle mie operette morali? Le parlai già in Milano [agosto-settembre 25] di questo mio manoscritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei?... Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve ne ha parecchie di un tuono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io l’ho più caro de’ miei occhi»20. Questa lettera è del 12 marzo 26. Il 22 di quel mese lo Stella rispondeva: «Ho letto il Saggio; ed ella ha ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto». Il fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, quantunque l’editore credesse di non poterne tuttavia sperare anche l’approvazione per la stampa21. Avrebbe provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il Leopardi subito a riscrivergli, il 26: «Confesso che mi sento molto lusingato e superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette mie Operette morali. Il manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne l’editore... La prego a darmi una risposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà»22. Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ricoglitore i dialoghi usciti nell’Antologia; «de’ quali», scriveva all’autore il 1° aprile, «poi formerò un opuscolo a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non pel pregio certamente»23. Onde il 7 il Leopardi affrettavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella si assumesse l’edizione del libro intero; che il 26 si disponeva a inviargli: «Debbo però pregarla caldamente di una cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più di perder la testa che questo manoscritto, e però la supplico a non avventurarlo formalmente alla Censura senza un’assoluta certezza, o che esso sia per passare, o che sarà restituito in ogni caso»24. E il prezioso manoscritto partì infatti sulla fine del mese per Milano25, e lo Stella potè il 13 maggio informare l’autore d’averlo ricevuto; e il 27 gli scriveva: «Nei brevi ritagli di tempo che mi restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi allettano... altrettanto temo che trovar debbano degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore per poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di tutte in piccola forma»26. Ancora uno smembramento delle care Operette? La proposta ferì al vivo l'animo del Leopardi, che, a volta di corriere, il 31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’è altro mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istantemente la prego ad aver la bontà di rimandarmi il manoscritto al più presto possibile. O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi consta fatiche infinite, pubblicata a brani...»27. Furono infatti pubblicate in volume l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava, conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti operette, nate come venti capitoli di un'opera sola.
All’unità della quale ei certamente mirò nell’ordinamento definitivo che fece delle singole parti, quando le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come tenesse a rilevare e al Giordani l’inversione avvenuta nei tre dialoghi ceduti all’Antologia. Il Timandro doveva essere l’ultimo, egli avverte. Infatti era stato scritto dopo il Tasso; ma era stato pure scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico28 era quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella edizione milanese del ’27. E invero un’apologia del libro; e l’apologia non poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che nell’atto di licenziare il suo libro l’autore voleva che se ne facesse. Ma, dall’ordine cronologico a quello ideale che il Leopardi ebbe da ultimo ragione di preferire, non soltanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura e di un Islandese, scritti successivamente, con un solo giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a cui il Leopardi pose mano appena finito quello della Natura e di un Islandese. È ovvio che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed è ovvio del pari la ragione non poter consistere se non negli scambievoli rapporti onde questi dialoghi eran legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari scritti devono per lo più esser nati già con questi rapporti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germogliava via via nella sua spontaneità organica; ma dove una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e il risorgere di un’ispirazione che pareva esaurita, traeva l’autore a tornare su se stesso, è pur naturale che l’ordine cronologico non corrispondesse allo svolgimento e alla coerenza del pensiero. Cosi il Tasso, scritto appena levata la mano dall’Islandese, nasce come un anello che salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico; e se tra il 14 e il 24 giugno l’autore scrive il Timandro, bisogna pensare che, saldato così l’Islandese agli antecedenti dell’opera, egli dovette per un momento credere di aver esaurito il suo tema, e di potersi arrestare a quella fiera rappresentazione finale dell’Islandese: e quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro. Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse più riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Parini, e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre: altre sei operette in tutto, che s’è condotti a pensare formino un gruppo distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Timandro, del motivo ispiratore delle operette.
III.
Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’organismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero. Come è pur vero che quando tale unità sia bene messa in luce con lo studio interno del libro, può anche apparire inutile affatto tutto questo preambolo, indirizzato ad argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine non meno vero che non si trova quel che non si cerca; e che l’unità delle Operette leopardiane, ritenute generalmente una semplice raccolta, aumentabile (con la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, come tutti fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non si è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne essenziale.
Intanto, lo spostamento osservato del Timandro, epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scorgere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli scritti, così come vennero quasi rampollando l’uno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epilogo, la Storia del genere umano, che, per il suo distacco formale dal resto delle operette (è la sola infatti che abbia la forma di un mito), e la sua rappresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del genere umano, a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può a ragione considerare come un prologo; le diciotto operette intermedie formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’è veduto, da una ripresa dall’ispirazione originale, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie, quasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo della Natura e di un Islandese. Precede, e inizia la trilogia, un primo gruppo, aperto dal Dialogo d’Ercole e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui all’eroe della potenza classica, della forza, Ercole, sottentra un eroe della potenza dello spirito secondo le superstizioni moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo, Farfarello. Disposizione simmetrica, sulla quale non giova di certo insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o fortuita quando si osservino gl’intimi rapporti spirituali onde sono insieme collegate, in tale ordinamento, le diverse operette.
Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo formino per avventura un solo ritmo. E cominciamo dal primo gruppo.
Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche ora il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco. Ma la Terra da allora è diventata leggerissima; e quando Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più meravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli «batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla»; e quanto al ronzare. Ercole non vi ode uno zitto. È già gran tempo, dice Atlante, «che il mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre». È lo stesso grido, come si vede, de La sera del dí di festa:
Ecco è fuggito |
Perché questo silenzio e questa morte? Lo dirà la Moda, sorella germana della morte, alla Morte stessa: poiché solo i frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i «lacci dell’antico sopor»29, che, pel Poeta, non stringono soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio», onde il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e riscoperti dai filologi: «... In tutto non siam periti?»30. E la Moda spiega infatti alla Morte: «A poco per volta, ma il piú in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è piú morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte».
Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto il vigore degli animi. In compenso si fabbricano macchine, e il secol morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei Sillografi ne fa la satira nel suo bizzarro bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa, quale fu una volta: l’amicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella donna, che fu l’ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come «la sua donna» da esso il Leopardi:
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza31.
Ebbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio». Questa è la morte dell’uomo: la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degli ideali che già fecero virtuoso e magnanimo l’uomo antico, morto con Bruto minore; il quale non può sopravvivere alla maledizione scagliata alla stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei campi dell’inquiete larve. Onde se un romano, e sia Catilina, può credere, secondo Sallustio, d'infiammare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma dell'onore, della gloria, della libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’umanità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo, a norma di rettorica, richiederebbe. La patria? Non si trova più che nel vocabolario. La libertà? Guai a profferir questo nome: di essa, dice il Leopardi, che ne sa anche lui qualche cosa32, «non si ha da far conto». La gloria? Piacerebbe, se non costasse scomodo e fatica. Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa «che gli uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni occasione la patria, la libertà, la gloria, l’onore». Sicché il testo è da restituire, per travestirlo alla moderna, facendo dire a Catilina: Et quum proelium inibitis memineritis, vos gloriam, decus, divitias praeterea spectacula, epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris portare.
Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno! Quella vita, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spirito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». Mancati tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le vie di far contro la propria natura»: studiandole tutte con quell’«irrequieto ingegno, demenza maggiore» che «quell’antico error», di cui «grido antico ragiona», onde fu negletta la mano dell’altrice natura, come il Leopardi aveva appreso dal Rousseau.
Oh contra il nostro |
Morto l’uomo; e «le altre cose... ancora durano e procedono come prima». E l’uomo che presumeva che il mondo tutto fosse fatto e mantenuto per lui solo! Il Folletto crede invece fosse fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi! La vanità umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco: gli uomini «sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre... e le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare...». La saggia, l’altrice natura non si commuove allo sterminio che l'ardimento conduce l'uomo a far di sé.
Fu certo, fu (né d’error vano e d'ombra |
Amica è la natura a chi si contenta della vita spontanea e irriflessa, quale appunto la vita della natura. Lo svegliarsi dell’intelligenza (scellerato ardimento!) è il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di ristaurare la sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa35; e Malambruno che invoca gli spiriti d’abisso, che vengano con piena potestà di usare tutte le forze dell’inferno in suo servigio, lo riapprende da Farfarello, impotente a farlo felice per un momento di tempo. La felicità è la vita che si viva sentendo che mette conto di viverla: è la vita col suo valore. E il Leopardi par che la intenda come un diletto infinito; il cui bisogno nasce dall’infinito amore che ogni uomo ha di se stesso, ma non può esser mai soddisfatto, perché nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro desiderio naturale. Onde il vivere sentendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra vita; e se vivere è sentire, «assolutamente parlando», il non vivere è meglio del vivere.
La vita non ha valore: questa è l’ultima conclusione che a rigore discende da quella premessa che la felicità o valore della vita consista nel diletto, che non può essere altro che limitato, e quindi mai mero diletto, senza misura di amarezza.
IV.
Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che pongono l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna d’esser vissuta: poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma.
Ed ecco il problema e il tormento dell’anima del Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro36 che uno risuscitasse per sapere quello che penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uomini morti e la natura viva, muta e indifferente. Questo problema è affrontato nel primo Dialogo del nuovo gruppo, della Natura e di un’Anima, dove la natura dice all’anima dandole la vita: «Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice». Giacché, come poi le spiegherà, «nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle anime importa maggior sentimento dell’infelicità propria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo «ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il più perfetto»; e però è il più infelice. Onde il meglio è per l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle doti che possono nobilitarla, e farsi «conforme al più stupido e insensato spirito umano» che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo.
Di guisa che quella morte dell’umanità che nei dialoghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco apparire il destino dell’uomo: la cui storia non può avere altra conchiusione che la rinunzia e negazione della propria umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda, non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra che il linguaggio umano e relativo allo stato degli uomini, che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e che insomma non ha base in natura quello che gli uomini considerano come pregio della loro vita, e che non trovano più, e riconoscono quindi mera illusione.
Ma il concetto più direttamente è trattato nella Scommessa di Prometeo: scommessa da lui perduta con Momo (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui il Leopardi guarda la vita nella sua vanità): perduta, perché Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere dell’universo, «la migliore opera degl’immortali», gli era fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antropofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a Londra vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta, ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso supino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti»: sciagurato padre, che per disperazione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: quantunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto».
Il tedio della vita! Ecco la scoperta che si è fatta andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i due dialoghi seguenti hanno questo argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra che la vita non è bene da se medesima, e non è vero che ciascuno la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama come «istrumento o subbietto» della felicità, che è ciò che veramente vale. E questa, guardata più da vicino, si vede consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle affezioni e passioni e operazioni; e insomma, non nel puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l'inerzia e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita degli uomini «fu sempre non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio». La vita vacua, che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso Metafisico che ha cominciato negando che la felicità sia vivere, «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicità, in fondo, è si nella vita; ma la vita (il Leopardi così sente) non è vita; è la morte; quella morte di cui si è acquistata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che non è propriamente morte, ma la morte sentita; la morte nella coscienza dell’uomo, che non conosce altra realtà che l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore perché è tedio: quel vuoto dove dovrebbe essere il pieno; la morte al posto della vita.
E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal '20, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui «miserando esemplo di sciagura»:
O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa |
Torquato Tasso medesimo che non trova nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago immaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio; e non si lagna già del dolore, ma della noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli pare abbia la stessa natura dell’aria: «riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Cosi tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà voto alcuno; cosi nella vita nostra non si dà voto»; e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte di dolore e parte di noia. E la vita tutta uguale, monotona del povero prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte alla immutabile natura — si viene via via votando così del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della tristezza grave del tedio.
L’uomo prigioniero della natura ritorna nell’ultimo dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’ uomo: al povero Islandese, che la vien fuggendo per tutte le parti della terra, e se la vede sempre innanzi, e sopra, incubo schiacciante: e l’ha innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di forma smisurata, seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con lo sguardo fisso e intento. — Perché, le chiede il povero errante, tu sei «carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir cosi, del tuo sangue e delle tue viscere», e «per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi?» — «Se io vi diletto o vi benedico, io non lo so», risponde la Natura. La vita dell’universo è un circolo perpetuo di produzione e distruzione. — Ma, riprende l’Islandese, poiché chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà distrutto, «dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?» — E prima di aver la risposta l’Islandese è mangiato dai leoni, già cosi rifiniti e maceri dall’inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo, è la Natura che ha detto a principio all’anima: — Sii grande, e infelice; — perché la vita è infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché vuota; e non può non esser vuota, se l'uomo è di fronte a questa Natura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata e senza valore appena si stacchi dalle cose con la sua coscienza, e vi si contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come dice il primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire) non ha posto nella natura, che è poi tutto. E perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio.
V.
E qui potè parere al Leopardi, come osservammo, di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro. Ma poi considerò che la sua dimostrazione non era veramente compiuta. Il dolce canto non era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare l’animo addolorato? Gino Capponi, l'amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande Recanatese37 scrisse una volta38: «Il Leopardi comincia uno de' suoi Dialoghi, inducendo la natura che scaraventa nel mondo un’anima con queste parole: — Vivi e sii grande ed infelice. — Io per me credo proprio il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole... È cosa facile esser grandi uomini, se basti a ciò esser infelici, ed il Leopardi insegnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva imparata egli quando produsse quelle canzoni per cui sta in alto il nome suo». E il De Sanctis doveva osservare più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei fini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riempiuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca immaginazione, che gli procuravano uno svago e gli facevano materia di diletto quel stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e appunto perchè può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c'è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro?»39. Ma nè il Capponi, nè il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al Leopardi. È suo, e del 1820, questo pensiero vero e profondo: «L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria»: e suo è quest’altro che lo precede: «Hanno questo di proprio le opere di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un animo grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie... servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro che la morte, gli rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta»40.
Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il raziocinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno di riprendere la dimostrazione. Il Leopardi non affronta nelle Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che risorge dalla sua più fiera negazione. Ma sente oscuramente questa difficoltà, non superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto l’argomentare della sua filosofia non genera la convinzione che ne dovrebbe derivare: la convinzione che arma la mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla misera Saffo «il velo indegno», per rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il crudo fallo del cieco destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro i grandi, «sono ricompensate abbondantemente dalla fama, delle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che essi lasciano di sé ai loro posteri».
Ebbene, questa gloria, che già non arride all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser «vissuto ozioso e disutile, e morto senza fama», come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser «nato alle opere virtuose e alla gloria». Questa gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei grandi infelici, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro infelicità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli riecheggia la lode stessa, che il grande tributa egli alla propria grandezza nella coscienza felice del suo genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna e soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede illuminata la propria opera. Il Leopardi, nudrito la mente dei concetti classici e delle idee materialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte le miserie, in quell’eco esterna, in quel consenso che in fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia superstite della grandezza spirituale, veduto in questa forma: l’anima grande e infelice è destinata essa alla gloria? o la sua speranza è fallace, come tutte quelle che ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze?41 Ed ecco il Parini, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel mondo presente agli occhi del Leopardi, da farla apparire meta inattingibile. Onde vien meno anche questa aspettazione, e al grande non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga, con animo forte, adoprandosi nella virtù, perchè la natura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.
Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual porto rimane allo stanco spirito umano? Vivere infelice? E sia; ma se non si può nè anche farsi un monumento della propria infelicità?
Sola nel mondo, eterna, a cui si volve |
La risposta viene dai morti, che si svegliano per un quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale vivono immortali; senza speme, ma non in desio, come le anime del limbo dantesco:
Profonda notte |
Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza sentimento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente avrà pace, e in cui ti può giungere in un languore di sensi senza patimento, com’è degli ultimi istanti della vita, quando sopravvive solo un senso «non molto dissimile dal difetto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono
addormentando». Dolce morte liberatrice! — Ma prima che la morte ci abbia sciolti dal tedio? — Filosofare, come Filippo Ottonieri, il socratico, che «spesso, come Socrate, s’intratteneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata dall’occasione». E per tal modo filosofava sempre, non per farne trattati (che, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofia in iscritto e irrigidirla in formule che non risponderanno più ai mutevoli bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, senza vane querimonie: come aveva detto Spinoza: non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere. Questo l’ideale dell’Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile, e morrà senza fama, ma «non ignaro della natura nè della fortuna sua». E con la sua pacata magnanimità e la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate, anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sapere, e quindi, per lui, del potere umano. L’Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e persona.
Ma, oltre la filosofia, non v’è altro rimedio alla noia? Sì: c’è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Cristoforo Colombo, in una bella notte vegliata sull’oceano sterminato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, «ha posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una semplice opinione speculativa» che può fallirgli. Ma, «quando altro frutto non venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose, che altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi, come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittandosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone; restavano per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero questo effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo, avuto cara la vita, che prima avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna navigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade»42. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione eroica. O filosofare, dunque, come Ottonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al tedio, e riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce ne liberi.
E lo stesso giorno43 che finiva di scrivere il Dialogo di Colombo e Gutierrez (25 ottobre 1824) il Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano al suo bellissimo Elogio degli uccelli: lirica stupenda, sgorgatagli dal pieno petto, al guizzo d’una immagine lieta e ridente: di queste creature amiche delle campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro e rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il canto e il volo; «in guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto; donde ella si spandesse all’intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori». Cosi viva è l’intuizione della gioia gentile che il Poeta riceve da questa vaga immagine degli uccelli, che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: «Io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita». Non ha cantato qui anch’egli la gioia?
E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vibrante gli dirà l’ultima parola di questa filosofia della vita, attenuando bensí il tono della lirica precedente, e smorzando l’entusiasmo, al quale mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la morte a cui ogni parte dell’universo s’affretta infaticabilmente, ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rinfrancatore. Sensazione già nota al Poeta:
La mattutina pioggia, allor che l’ale |
Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno: «Il di rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. «Ad ogni modo», dice il Gallo, la terribile voce voce che riempie di sé il mondo, e canta questa corsa universale alla morte, «ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il piú comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti piú che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell’anima la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga». Ed ecco, dunque, la speranza risorgere ogni giorno, anche se la sera fini nella disperazione; e se il Gallo
silvestre paragona la vita dell’universo al giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e alla vita umana che muove dalla lieta giovinezza incontro alla vecchiezza e alla morte; e se termina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura sarà spenta, e «un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso»; il dolce gusto della speranza mattutina e giovanile non è distrutto: perché quel tempo è molto remoto, e (secondo avverti piú tardi l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mattino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo.VI.
Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono, quanto e come si può secondo il Leopardi, quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostruiscono, movendo dall’estrema ruina in cui è caduta anche la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo le prime due edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del secondo gruppo, poiché l’autore tra la Storia del genere umano e il Timandro non volle piú lasciare il Sallustio; e lo rifiutò e gli sostituí il Frammento di Stratone, collocato al diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il primo gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un’Anima, e il secondo il Parini. E il Frammento, lí sulla fine dell’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpetrazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripiegatosi su se medesimo, diede della propria intuizione filosofica: concezione, sullo stile delle teorie cosmologiche greche piú antiche, di un universo governato da pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in fondo a ogni concetto pessimistico del Leopardi: onde si tenta suggellare, nell’intenzione del Poeta, l’immagine di quella Natura che eternamente passa, e che negli ultimi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile e spaventoso».
Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti operette primitive anche nell’edizione di Firenze del ’34, quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano; e si noti che in questa edizione invece non poté entrare il Frammento di Stratone molto probabilmente per le difficoltà già accennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo scritto crudamente materialistico, che sia tra le Operette. Il che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu scritto verso il maggio del ’2545 (quando il Leopardi aveva tuttavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e avrebbe già fin d’allora pensato ad incorporarvelo, se quest’aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini della stampa del 34, e che sappiamo scritti a Firenze due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene ad aggiungere alle primitive Operette, senza fondervisi: come avverrà del Frammento, appena l’autore crederà di potere e dover tralasciare il Sallustio, e sostituirlo.
Perchè tralasciarlo? «Forse», risponde il Mestica46, «perché gli parve troppo scolastico e di materia non abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso contenuti siano conformi al suo filosofare». «Il dialogo ha poco movimento e scarso valore artistico», osserva lo Zingarelli47; «l’invenzione è misera, e sull’attrattiva dello strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar degli anni, il Leopardi non credé piú che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per opera di Cesare e dei cesariani». Piú si è accostato al vero questa volta il Della Giovanna48: «Forse egli si sarà pentito delle parole crudissime che usa parlando della libertà e della patria. É ben vero che anche altrove egli lamenta la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in modo piú vago». Il Sallustio in questo cinico pessimismo, contraddice al motivo fondamentale delle operette: logico nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei sentimenti piú profondi, onde la personalità del poeta abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva a un suo particolar significato siffatti pensieri. I quali non sono qui un sistema filosofico astratto, ma l’alimento segreto di un’anima che esprime se stessa in una poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità risuona all’anima del lettore come una musica, secondo che osservò un amico del poeta, il Montani49, appena potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo motivo fondamentale è facilmente riconoscibile nel preludio e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cornice la trilogia delle operette: ossia nella Storia del genere umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto estranee a quello spirito, che si può dir proprio di tutte le altre, ad eccezione dell’Elogio degli uccelli, dove pure qua e là s’insinua a frenare l’impeto lirico di gioia e d’entusiasmo: a quello spirito, che si può definire con le parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo in una lettera al Giordani del 6 maggio 1825 (del tempo in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo termine di questo suo stato d’animo): «Quanto al genere degli studi che io fo, come sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro piú fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’innorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo». Lo stesso animo, non altrettanto felicemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tuttavia, nel ’26, nell’Epistola al Pepoli:
Ben mille volte |
(si ricordi il Cantico del Gallo silvestre);
Della prima stagione i dolci inganni |
Questo era stato il suo ideale nelle Operette; speculare, scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che nel ’25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere di aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno al tutto irrigidito e freddo, non è ancora; non è eterna la gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente è un desiderio, un programma, un proposito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso, ogni tenero affetto, ignoto e strano. E questo sente bene e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Eleandro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda, fa alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace, ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente invece per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra, protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo): «Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva50. Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida» (aveva appena ventisei anni!); «non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile». Dove ognun vede che realmente certo invincibile pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle sue dottrine; e si ripiglia subito infatti: «Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per poca notizia che abbiate
de’ miei costumi, credo che mi possiate essere testimoni». L’amore degli altri si ribella alla negazione che se n’é voluto fare, e s’appella all’intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo Eleandro conchiude: «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro: io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al bene comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia».Dunque: ogni alto senso e tenero affetto, destato da queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gli occhi del Leopardi, il mondo di Stratone da Lampsaco, o la Natura dell’Islandese, come non è spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza; ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore del Poeta: che non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di quella Natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtú, dichiarandola un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a quell’altra Natura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire freddamente, si; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra della universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe voluto.
E nella Storia del genere umano, vero preludio alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto all’imo fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’apparire in terra della Verità, spunta egualmente una divina pietà al soccorso dell’infelicità intollerabile dei mortali: «La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infelicità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’intelletto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia appunto, della Verità. Ed ecco che Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità, propose agl’immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a se, indegni della sciagura universale». Tacciono tutti gli altri Dei; ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo massimo iddio», che «non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all’imperio della Verità». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché la gente umana ne è generalmente indegna, e perché gli dei molestissimamente sopportano la sua lontananza. Egli è dunque premio, che l’uomo conquista con la sua grandezza. La quale perciò è condannata sì all’infelicità del vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore. «Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce di tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi». Ed ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente, allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda del divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a respingere. «Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei». Non può, cioè, la nostra logica non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della virtù, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine: quella stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringagliardita dalla speranza, ecco, risorge per virtù dì questo Amore: «E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che è di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce, per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortali inesperti e incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia; ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe: tanto è da natura magnanimo e mansueto».
Qui non c’è satira, né riso, né fredda analisi; ma la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Eleandro: e raccoglie in questo suo magnanimo e mansueto amore tutta la infelicità degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con nodi divini, e della bellezza, e della libertà, e della patria, e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo.
Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la vita umana, questo è il vero spirito delle Operette morali. Pessimista, sì, ma alla Pascal, che disse: L’homme, n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser: une vapeur, une goutte d’eau, suffit pour le tuer. Mais, quand l’univers l’écraiserait, l’homme serait encore plus noble que ce qui le tue, parce qu’il sait qu’il meurt, et l’avantage que l’univers a sur lui, l’univers n’en sait rien; sicché la grandeur de l’homme est grande en ce qu’il se connaît misérable51. E il Leopardi nell’ agosto del '23, alla vigilia delle Operette, e quando il concetto di esse era già maturo: «Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà dell’ uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli, considerando la pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è minima parte degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza e profondamente sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose»52. E questa coscienza dell' umana grandezza e sovranità sulla trista natura egli non la smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme e in ogni singola parte che le costituisce, aver l'occhio a questo punto centrale, da cui s’irradia il calore e la luce onde sono tutte compenetrate. Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è fredda negazione, senza l’orrore, la ribellione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questa è, parmi, il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo.
VII.
Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad aggiungere alle prime Operette già formanti un organismo, l’ispirazione non era punto mutata. Giacché il Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore, la nullità del genere umano, ripigliando un’idea che contro i Timandri medievali attardati aveano già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle ceneri e Galileo nei Massimi sistemi; donde la conclusione necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di tutta la parte negativa delle Operette), che sia ragionevole uccidersi. Ed egli vince a furia di argomentare (movendo, com’è ovvio, da premesse, che son quel che sono, ma a lui paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma questi può opporgli una sapienza assai più profonda e più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro; che secondo natura uomo». Perché contro natura e contro umanità il suicidio, ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiamo orecchio, dice Plotino, «piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno ìnimica e malefica, che non siamo stati noi all’ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte E quantunque sia grande l’alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti. E credi a me che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vacuità delle cure, della solitudine dell’uomo: non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto della vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo» 53. E infine, conclude Plotino, questo senso, non l’intelletto, è quello che ci governa. Sicché è evidente che non la filosofia negativa che spazia dal Dialogo d’Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leopardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla natura e da questo «senso dell' animo».
Senso dell'animo, che è sempre amore per il Leopardi. Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare: «E perché», chiede Plotino, «anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie ; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del caso?». E dice la parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette, ma di cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’immagine di Bruto mancante ai funerali della sorella: praefulgebat eo ipso quod non visebatur: «E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per cosi dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, e certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo».
Dunque quella grandezza non è infelicità; perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe, se vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo dell'utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità di beatitudine in quanto amore, in cui l’uomo non distingue più sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa è la virtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso il Leopardi, che non è più il dolore incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo amore che ci stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita». Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce l’idea di questo mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. «E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora».
VIII.
Amore è dunque la prima e l’ultima parola delle Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa, come dicemmo, nel 32, nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ricomincia, e promette, e risveglia le speranze. Ma il passeggero in cui s’incontra, oppone la sua fredda riflessione a quell’impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che «quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura». La vita che si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla: vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce, e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque? Il Leopardi non conchiude; ma la conclusione è quella che viene dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché futuro; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con queste due facce: a vedersela innanzi, qual’è, una miseria disperante; a viverla, a viverci dentro col nostro cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il nostro amore, una beatitudine divina. Il 1632 fu per Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo: non però luminosa immagine della fantasia, come nell’Ultimo Canto, ma vita del cuore stesso di Giacomo.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella |
Infinita beltà parte nessuna |
Non meno supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia; onde ricorderà:
Or ti vanta, che il puoi... |
E cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu «notte senza stelle a mezzo il verno». Ma Saffo proruppe nel grido disperato: — Morremo! — e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. Leopardi scrisse invece Amore e morte; dove la morte non è più l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gentilezza fino alla donzella timidetta e schiva. E sorella d’Amore:
Bellissima fanciulla, |
Quando novellamente |
perché già a’suoi occhi la vita diviene un deserto:
A se la terra |
E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e mansueto animo, volgesi il Poeta con un sospiro di religiosa preghiera:
Bella morte, pietosa |
Non già che amore e morte abbian potere di cancellare la fatale infelicità: né che l'uomo e il Leopardi abbiano, mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le penne al suo pregare, lo troverà
Erta la fronte, armato, |
La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato crudele: ma già Leopardi aspetta sereno quel di ch’ei pieghi addormentato il volto nel virgineo seno; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa aspettazione della morte: vinto nella stessa vita. E questo è l’animo di Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bruciarlo: «non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento che viene dal cuore e vibra di commozione, «perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo: e tale mi credo; e tutti i giornali de’due mondi non mi persuaderanno il contrario ». Egli è flagellato dallo stesso fato di Amore e Morte: «e di più vi dico francamente ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa... Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole... In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri dall’antico dolor! E quest’invidia, questo desiderio intenso della morte, è fiducia confortata da una speranza che non fallirà, e che già allieta di sé l’animo sottratto per
lei a quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.E in conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo «di cedere inesperto». Cederebbe il suicida egoista, non il magnanimo che spande la sua persona nell’amore, e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae, alla miseria di Saffo e dell’Islandese. Quanta differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante o quella che s’incontra nella Moda, al principio delle Operette; e questa morte, a cui l’animo si volge desioso alla fine delle Operette stesse! Il filo aureo che dall’una conduce all’altra è già nella Storia del genere umano: Amore figlio di Venere Celeste.
Note
- ↑ Scritti letterari, ed. Mestica, II, 386; cfr. pag. 388.
- ↑ N. 61, pp. 25-43. — VI
- ↑ Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G. Leopardi, Firenze, Barbèra, 1905, pp. 237-8 (cfr. pag. 222) e da me riscontrate tutte sul ms. autografo: Storia del genere umano (19 gennaio-7 febbraio 1824); Dialogo d’Ercole e di Atlante (10-13 febbraio); Dialogo della Moda e della Morte (15-18 febbraio); Proposta di premi (22-25 febbraio); Dialogo di un lettore di Umanità e di Sallustio (26-27 febbraio); Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (2-6 marzo); Dialogo di Malambruno e di Farfarello (1-3 aprile); Dialogo della Natura e di un’Anima (9-14 aprile); Dialogo della Terra e della Luna (24-28 aprile); La scommessa di Prometeo (30 aprile-8 maggio); Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (14-19 maggio); Dialogo della Natura e di un Islandese (21 -27-30 maggio); Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1-10 giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro (14-24 giugno); Il Parini, ovvero della gloria (6 luglio-13 agosto); Dialogo di Fed. Ruysch e delle sue Mummie (16-23 agosto); Detti memorabili di Filippo Ottonieri (29 agosto-26 settembre; e precisamente il cap. II ha la data del 3 settembre; il III, 9 settembre; il IV, 14 settembre; il V, 21 settembre; il VI, 24 settembre; il VII, 25 settembre); Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (19-25 ottobre); Elogio degli Uccelli (25 ottobre-5 novembre); Cantico del Gallo silvestre (10-16 novembre); Note (7-13 dicembre).
- ↑ Da N. Serban, L. et la France, Paris, Champion, 1913, pag. 256 n.
- ↑ Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle carte napoletane, 2 Firenze, Le Monnier, 1910, pag. VII.
- ↑ O. c., pag. 400.
- ↑ Vedi abbozzo negli Scritti vari, pp. 318-31. Il foglietto relativo, riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato è nelle Carte leopardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fasc. 12.
- ↑ Egesia infatti è ricordato nel Plotino: cfr. pag. 278.
- ↑ Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo a pag. 209; e Pensieri, I, 193.
- ↑ Questo dialogo infatti originariamente recava il titolo di Dialogo di Filénore e di Misénore: cfr. pag. 236.
- ↑ F. P. LUISO, Sui Pensieri di G. L., nella Rassegna Nazionale, 1 maggio 1899, pag. 119.
- ↑ Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, I, 334-5.
- ↑ V. tra gli altri , Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902-4, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. ital., XXXIV, 208.
- ↑ Pensieri, I, 359.
- ↑ Epistolario 6, Firenze, Le Monnier, 1907, vol. II, pag. 486.
- ↑ Epistolario, II, 496.
- ↑ Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47.
- ↑ Nell’Epist. del L., III, 237-8.
- ↑ Epist., II, 142-3.
- ↑ O. c., II, 110-1.
- ↑ O. c., III, 335-6.
- ↑ O. c., II, 118-9.
- ↑ O. c., III, 337-8.
- ↑ O. c., II, 131.
- ↑ O. c., II, 133.
- ↑ O. c., III, 346.
- ↑ O. c., II, 140.
- ↑ Cfr. sopra, p. VI, n. I.
- ↑ Sopra il monumento di Dante (1818), vv. 3-4.
- ↑ Ad Angelo Mai (1820), vv. 4-5. 27-8, 32-3.
- ↑ Alla sua donna (settembre 1823) vv. 7-13.
- ↑ A. D’ANCONA nel Fanfulla della domenica del 29 novembre 1895; C. CARDUCCI, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L., Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-8.
- ↑ Inno ai Patriarchi (luglio 1822).
- ↑ Inno cit., vv. 87-99.
- ↑ Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d’intendere il LOSACCO, Leopardiana, in Giornale storico della letter. ital., XXVIII (1896) pag. 275.
- ↑ «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli» (pag. 44).
- ↑ Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel volume La donna, Milano, Agnelli, 1872, pp. 380-81.
- ↑ Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbera, 1877, II, 445-6.
- ↑ Studio su G. L.. 3 Napoli, 1905, pag. 213.
- ↑ Pensieri, I, 351, 349. Cfr. lett. del 6 maggio 1825: «M’avveggo ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi altra fonte e fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per l’addietro, finché mi è rimasta nel cuore l’ultima scintilla, io non poteva comprendere»: Epist., I, 547-8.
- ↑ Dove, nel 1829, canterà:
O speranze, speranze; ameni inganni
Dalla mia prima età! sempre, parlando
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto.
Inutile miseria. - ↑ Cfr. Pens., I, 193.
- ↑ Cfr. sopra pag. VI, n. 1.
- ↑ La Vita solitaria (1821), vv. 1-10.
- ↑ Cfr. Chiarini, o. c. pag. 251.
- ↑ Scritti letter. di G. L., II, pag. 418.
- ↑ Operette morali di G. L., Napoli, Pierro, 1895, pag. 53.
- ↑ Le prose mor. di G. L., Firenze, Sansoni, pag. 276.
- ↑ Vedi la sua recensione nell’Antologia del gennaio 1828, N. 85, pp. 157-61 che incomincia: «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello o men significante ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso? — Quando l’Antologia, or son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora inedite... io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo della musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme unite, mi parve d’aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava qui nel piú quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a dì del Boccaccio) dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo amico piú non salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono musica altamente melanconica...». La recensione contiene piú d’una osservazione notabile. Fu scritta il 28 febbraio 1828. Sull’amicizia del L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi leopardiani, Firenze, Le Monnier, 1901, pp. 332-42.
- ↑ Ed ecco perché, scritto il dialogo, tenti di non doverlo piú intitolare, come aveva pensato da principio (cfr. pag. 236), di Misénore e Filénore: egli non era davvero quell’odiatore dell’uomo (μισ-ήνωρ) che poteva parere, né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista.
- ↑ Pensées, NN. 347 e 395 (Bruschwicg)
- ↑ Pensieri, V, 223; cfr. VII, 106.
- ↑ Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l'importanza che questo «senso dell’animo» ha nel sistema dello spirito leopardiano, come principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof. GIOVANNI NEGRI, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia, 1894-99), passim, e specialmente vol. V, pp. 173-17.
- ↑ Ultimo canto di Saffo (1822).
- ↑ Aspasia (1834).
- ↑ Amore e morte (1832).