a una porta, ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso supino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti»: sciagurato padre, che per disperazione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: quantunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto».
Il tedio della vita! Ecco la scoperta che si è fatta andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i due dialoghi seguenti hanno questo argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra che la vita non è bene da se medesima, e non è vero che ciascuno la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama come «istrumento o subbietto» della felicità, che è ciò che veramente vale. E questa, guardata più da vicino, si vede consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle affezioni e passioni e operazioni; e insomma, non nel puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l'inerzia e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita degli uomini «fu sempre non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio». La vita vacua, che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso Metafisico che ha cominciato negando che la felicità sia vivere, «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicità, in fondo, è si nella vita; ma la vita (il Leopardi così sente) non è vita; è la morte; quella morte di cui si è acquistata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che non è propriamente morte, ma la morte sentita; la morte nella coscienza dell’uomo, che non conosce altra realtà che l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore perché è tedio: quel vuoto dove dovrebbe essere il pieno; la morte al posto della vita.
E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del Tasso,