cerco altro piú fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’innorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo». Lo stesso animo, non altrettanto felicemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tuttavia, nel ’26, nell’Epistola al Pepoli:
Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtú del caro immaginar non perde
Per volger d’anni; a cui serbate eterna
La gioventú del cor diedero i fati...
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(si ricordi il Cantico del Gallo silvestre);
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infino all’ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, né degli aprichi
Campi il sereno e solitario riso,
Né degli augelli mattutini il canto
Di primavera, né per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d’arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso.
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch’io riponga
L’ingrato avanzo della ferrea vita
Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell’eterne cose...
In questo specolar gli ozi traendo
Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero.
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