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zione di tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa, quale fu una volta: l’amicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella donna, che fu l’ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come «la sua donna» da esso il Leopardi:
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza1.
Ebbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio». Questa è la morte dell’uomo: la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degli ideali che già fecero virtuoso e magnanimo l’uomo antico, morto con Bruto minore; il quale non può sopravvivere alla maledizione scagliata alla stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei campi dell’inquiete larve. Onde se un romano, e sia Catilina, può credere, secondo Sallustio, d'infiammare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma dell'onore, della gloria, della libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’umanità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo, a norma di rettorica, richiederebbe. La patria? Non si trova più che nel vocabolario. La libertà? Guai a profferir questo nome: di essa, dice il Leopardi, che ne sa anche lui qualche cosa2,