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salto dalla rupe di Leucade»1. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione eroica. O filosofare, dunque, come Ottonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al tedio, e riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce ne liberi.
 E lo stesso giorno2 che finiva di scrivere il Dialogo di Colombo e Gutierrez (25 ottobre 1824) il Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano al suo bellissimo Elogio degli uccelli: lirica stupenda, sgorgatagli dal pieno petto, al guizzo d’una immagine lieta e ridente: di queste creature amiche delle campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro e rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il canto e il volo; «in guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto; donde ella si spandesse all’intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori». Cosi viva è l’intuizione della gioia gentile che il Poeta riceve da questa vaga immagine degli uccelli, che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: «Io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita». Non ha cantato qui anch’egli la gioia?
 E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vibrante gli dirà l’ultima parola di questa filosofia della vita, attenuando bensí il tono della lirica precedente, e smorzando l’entusiasmo, al quale mai come

  1. Cfr. Pens., I, 193.
  2. Cfr. sopra pag. VI, n. 1.