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lei a quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.
 E in conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo «di cedere inesperto». Cederebbe il suicida egoista, non il magnanimo che spande la sua persona nell’amore, e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae, alla miseria di Saffo e dell’Islandese. Quanta differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante o quella che s’incontra nella Moda, al principio delle Operette; e questa morte, a cui l’animo si volge desioso alla fine delle Operette stesse! Il filo aureo che dall’una conduce all’altra è già nella Storia del genere umano: Amore figlio di Venere Celeste.