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xlviii


VIII.

Amore è dunque la prima e l’ultima parola delle Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa, come dicemmo, nel 32, nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ricomincia, e promette, e risveglia le speranze. Ma il passeggero in cui s’incontra, oppone la sua fredda riflessione a quell’impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che «quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura». La vita che si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla: vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce, e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque? Il Leopardi non conchiude; ma la conclusione è quella che viene dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché futuro; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con queste due facce: a vedersela innanzi, qual’è, una miseria disperante; a viverla, a viverci dentro col nostro cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il nostro amore, una beatitudine divina. Il 1632 fu per Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo: non però luminosa immagine della fantasia, come nell’Ultimo Canto, ma vita del cuore stesso di Giacomo.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta