Pagina:Leopardi - Operette morali, Gentile, 1918.djvu/28


xxiv

nito, nessun piacere tale che appaghi il nostro desiderio naturale. Onde il vivere sentendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra vita; e se vivere è sentire, «assolutamente parlando», il non vivere è meglio del vivere.
 La vita non ha valore: questa è l’ultima conclusione che a rigore discende da quella premessa che la felicità o valore della vita consista nel diletto, che non può essere altro che limitato, e quindi mai mero diletto, senza misura di amarezza.

IV.

Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che pongono l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna d’esser vissuta: poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma.
 Ed ecco il problema e il tormento dell’anima del Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro1 che uno risuscitasse per sapere quello che penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uomini morti e la natura viva, muta e indifferente. Questo problema è affrontato nel primo Dialogo del nuovo gruppo, della Natura e di un’Anima, dove la natura dice all’anima dandole la vita: «Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e

  1. «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli» (pag. 44).