Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte III - Capitolo I | Parte III - Capitolo III | ► |
II.
Una volta Regina aveva sognato un’eclisse di sole. In quel momento, nel leggere la paginetta di Gabrie, ella ricordò quel sogno, perchè si riprodusse in lei la stessa impressione di crepuscolo pauroso, di silenzio terribile e di aspettazione.
Fu un attimo. E passato l’attimo ella rivide la luce del sole, sentì ancora la vibrazione della vita, s’accorse che ogni cosa al mondo aveva conservato il proprio aspetto, la medesima posizione, e che nulla infine era mutato. Ma ella non era più la stessa: intorno a lei, da vicino e da lontano, era riapparsa la luce: entro di lei restava il crepuscolo.
Rimise il quadernetto sul tavolo, riprese le violette, l’involtino, il libro e se ne andò. Più tardi s’accorse che ella se n’era andata per sfuggire alla tentazione volgare di interrogare Gabrie, e di costringerla magari con la violenza a dire come aveva intuito o da chi aveva sentito parlare dell’orrendo segreto. In quel momento, come sempre, l’orgoglio la sostenne, rigido e gelato come il ferro che sostiene la creta delle statue.
La donnina muta corse dietro la visitatrice che se ne andava, e le fece dei cenni che l’altra non capì. Quella figurina da bimba mascherata destò in Regina una specie di ripulsione feroce. Perchè viveva quell’essere? perchè la natura o la società stessa non sopprimeva tutta la gente deforme, inutile, debole?
Per tutto il resto della sua vita Regina ricordò con disgusto profondo, come se là dentro le fossero apparse tutte le cose più turpi e più miserabili della vita;, l’appartamentino quieto del suonatore, le scale aspre, i pianerottoli equivoci, l’atrio polveroso del casone di via San Lorenzo. Non ci tornò mai più.
Ripercorse la via piena di sole, la piazza, i viali, automaticamente, come una sonnambula.
— Ne parlerò subito con Antonio, rideremo assieme, — pensava. Ma intanto si accorgeva che un turbamento profondo la dominava, e invece di rientrare nel giardino, ove l’aspettava la balia, si sedette nella prima panchina del viale a destra, in faccia alle Terme.
Perchè non rientrava nel giardino? Perchè non richiamava subito la balia, per ritornare assieme a casa? Non poteva.
Ad un tratto le parve di udire un rombo lontano, come un treno che passasse, col suo palpito enorme, in una via remota ed invisibile.
— Dio mio, Dio mio, che è?
Una signora con una gran treccia rossa attortigliata sulla nuca le passò davanti, guardandola intensamente, e si voltò prima d’allontanarsi.
Regina si passò una mano sul viso, e capì che era pallida e stravolta: e s’accorse che il rombo lontano e il palpito ansante venivano dal suo mondo interiore, dal suo cuore agitato.
Allora si scosse tutta, come un uccello appena destato, e volle tornare alla realtà. Si trovò sul grembo il mazzolino, il libro, il pacchettino. Perchè li aveva ripresi? Ebbene, sì, per una istintiva, vendetta verso Gabrie, che le aveva messo quella spina nel cuore.
— Come sono piccola! — pensò. — Che colpa ne ha lei se... ciò è vero? Ma può esser vero? E perchè? E perchè non mi son domandata subito questo perchè?
Ah, perchè era inutile domandarselo!
Ella lo sapeva questo terribile perchè: ancor prima che l’inutile domanda venisse formulata dalle sue labbra, il perchè era echeggiato nel suo sangue, di vena in vena, fino agli abissi rombanti del cuore.
Egli si era venduto. Regina non ne dubitò un solo istante, come non le passò neppure in mente il pensiero assurdo che egli potesse essere stato, prima di sposarsi, l’amante disinteressato della vecchia ricca.
Egli si era venduto. Si era venduto per lei, come e per quello che si vendono le donne: per ottener denaro, per procurarle una casa bella, e la luce, e il sole, e i pezzi di stoffa, e gingilli, e guanti, e sottane di seta... e tutte le cose che ella gli aveva domandato; tutte le cose che ella gli aveva rimproverato di non saperle dare.
— Oh, miserabile! Fanciullo stupido, essere debole e vile... io tornerò a casa, ora, e ti prenderò a schiaffi, come si fa coi bambini cattivi. Tu dovevi capirmi... tu dovevi capirmi...
Ma mentre ella singhiozzava fra sè queste ed altre recriminazioni, sentiva che le sue recriminazioni erano vane e sciocche: ben altre parole di verità le risuonavano in fondo al cuore, travolgendolo in un turbine minaccioso. Era lei l’essere debole e vile. Lei che non aveva capito la serietà e la fatalità della vita: ed ora la vita la schiaffeggiava come una bambina cattiva ch’ella era stata.
La testa le ardeva e le pulsava, quasi realmente qualcuno l’avesse schiaffeggiata. Quanto tempo stette seduta sulla panchina? La gente passava e la guardava: i giovanotti si voltavano, uno le sorrise, dopo aver ammirato le sue scarpette verdoline e l’orlo della sottana emergente fra i volanti della gonna.
Ella pensava che dentro il giardino la balia l’aspettava, ma non poteva muoversi. Attraverso il velo della sua angoscia vedeva la gente che passava, gli alberi, le rovine rivestite di verzura; e una tenda gialla fra le rovine, e due colombi coperti di macchie grigie, che si baciavano fra l’edera, ed i fili telegrafici che intagliavano l’azzurro vivido del cielo; vedeva gli annunzi che coprivano l’angolo delle Terme, distingueva una scena di caccia su una réclame enorme, leggeva delle parole inutili — Odol, Odol, Odol — che poi le rimasero impresse stranamente nella memoria, vedeva degli operai che lavoravano nello sfondo della piazza, e di cui non dimenticò mai più il color rosa terreo delle camicie; seguiva con lo sguardo lo scintillìo delle ruote delle vetture... Questa scena semplice, alla quale ella aveva assistito centinaia di volte, le destava un’inquietudine profonda, l’attirava, l’assorbiva: ma ad un tratto le parve che quest’interessamento strano se lo creasse lei, per indugiarsi, per non rientrare nel giardino ed allontanare l’ora del ritorno a casa. Aveva paura di rientrare nella casa il cui ricordo le destava una specie di raccapriccio: tutto era lurido là dentro, tutto, tutto, tutto...
Ecco, ella avrebbe voluto spogliarsi; avrebbe voluto strappare dal morbido corpicino della sua bimba, puro come una rosa appena sbocciata, i vestiti della vergogna e della prostituzione; poi prendersela così, nuda sul seno ignudo, e fuggire con lei, fuggire, fuggire...
Fuggire! L’idea antica tornava: ma questa volta Regina avrebbe voluto fuggire in un luogo molto più lontano del suo paese, al di là di un fiume che non si rivarca mai più.
*
Ella rimase più di mezz’ora seduta sulla panchina. La gente passava sempre più frettolosa; i bambini abbandonavano il giardino: anche la balia di Caterina doveva essersene andata. L’erba odorava; nell’aria passava un alito caldo e snervante. Quell’odore d’erba, quel tepore voluttuoso che ondulava nell’aria profumata, acuivano in Regina, come li acuisce una musica flebile, i ricordi e le sensazioni. Nella mente turbata i pensieri passavano a ondate, quasi inafferrabili eppure tutti pungenti. Un solo ricordo insisteva, spariva e tornava, più chiaro degli altri, ardente e triste. Ed era tutto una rivelazione, anzi la sola rivelazione plausibile, perchè gli altri ricordi, per quanto Regina li richiamasse e cercasse di afferrarli e di interrogarli, non le rivelavano ciò che ella desiderava e temeva di conoscere.
Ella si domandava come Gabrie avesse potuto penetrare il segreto: non bastava l’intuizione d’una mente osservatrice, nè lo sguardo di due occhi sani e maligni. Qual segno palese era apparso a Gabrie? Dove aveva ella scoperto il segreto? Nel viso impassibile di madame, o nel viso di Antonio? O negli occhi di Marianna? O era una cosa già pubblica? Regina non aveva mai potuto neppur dubitare, e non ricordava il minimo segno rivelatore. Solo qualche parola, qualche frase le ritornava ora nella memoria, e prendeva una forma che ella stessa, nel suo turbamento, giudicava esagerata.
— Tutto è possibile! — le aveva detto un giorno Marianna, col suo cattivo sorriso.
— Anche i ciechi talvolta vedono.
Ed ella era stata più cieca d’un cieco. Ella non aveva veduto, forse perchè non aveva mai dubitato e non s’era mai guardata attorno. Ricordava ora il disgusto quasi fisico che madame Makuline le aveva destato fin dal primo momento della loro conoscenza: rivedeva il salottino disordinato e triste di Arduina, il cielo umido, la sera melanconica: la vecchierella vestita di nero, riparata sotto una porta, col cestellino di limoni di un giallo verdolino. Nell’ombra, densa come una nebbia fuligginosa, il profilo di Antonio spiccava nero e quasi misterioso. Il viso pallido ed immobile della principessa, con le grosse labbra grigiastre, appariva in quello sfondo di ombra come una luna scialba fra le nuvole d’un sogno. Chissà da quanto tempo la vecchia sensuale, il vecchio corpo d’astro morto, attirava nella sua orbita fatale, nella sua atmosfera torbida, l’uccello allegro e amoroso che le volteggiava attorno incoscientemente! Incoscientemente? No. Antonio s’era rattristato, quella sera, vedendo la donna: egli doveva allora sentire tutto il disgusto del desiderio di lei. Ma un giorno abbominevole era poi giunto... La moglie era fuggita, rimproverandogli la sua povertà, ed egli, cieco, umiliato e vinto, si era venduto.
Ed il ricordo più insistente di Regina, quello che meglio le rivelava l’orrore del fatto compiuto, era appunto l’arrivo di Antonio a Casalmaggiore, il viaggio lungo l’argine, l’impressione strana da lei provata nel rivedere il marito.
Tutto ora le appariva chiaro. Ecco perchè egli era mutato; ecco perchè i suoi baci erano disperati, quasi crudeli. Egli tornava a lei contaminato, fremente di angoscia come una fanciulla che s’è appena venduta a un lurido vecchione. Egli l’aveva baciata così per amore e per vendetta; per contaminarla dell’infamia ch’ella gli faceva commettere, e per dimenticare la stessa infamia.
Dopo... Dopo egli s’era forse abituato. Ci si abitua a tutto: anch’ella s’era abituata... S’abituerebbe ancora? Una frustata non l’avrebbe scossa di più di quest’idea. Balzò in piedi, percorse il viale ed entrò nel giardinetto quasi deserto, già sonnolento, ombreggiato appena dal velo delicato degli alberi rinascenti. La balia non c’era più. Automaticamente Regina uscì dall’altro cancello e si fermò sotto gli elci tutti spruzzati dall’oro pallido delle foglie nuove. Era quasi mezzogiorno. Doveva tornare a casa? Non era veramente questo il momento e il caso di fuggire sul serio, di non rientrare nella casa contaminata, di richiamare Antonio in un altro luogo e dirgli: poichè l’errore è stato comune perdoniamoci a vicenda, ma ricominciamo la nostra vita?
Sciocchezze; roba da romanzo! Nella vita reale certe cose non possono accadere, o non accadono mai a proposito.
Regina era fuggita una volta, abbandonando il nido puro che le sembrava troppo stretto; la sua fuga era stata un capriccio ridicolo, e perciò s’era compiuta. Ora invece, ora che la sua dignità e il suo onore le imponevano di non rimetter piede nella casa insozzata dalla vergogna più bassa, ora le riusciva impossibile ripetere la scena!
*
Affrettò il passo. La sua sottana frusciava, susurrava, ed ella provava una lieve irritazione nel sentire quel sospiro di seta che la circondava e la seguiva. Ma i suoi pensieri si schiarivano. A misura che scendeva per via Viminale le sembrava di ritornare completamente calma.
Bisognava vedere, esaminare, aspettare. Il mondo è maligno, le gente vive di calunnie o almeno di maldicenze. Non si condanna un uomo, solo perchè una studentessa pettegola ha raccolto sul suo quadernetto una malignità morbosa.
Era una piccolezza.
*
*
Benchè le sembri di esser ritornata calma, a momenti Regina si ferma, quasi colpita da un dolore fisico. Non può più avanzare: qualche cosa la tira indietro.
Ma poi il fascino o l’attrazione della casa la costringe ad affrettare il passo: ella va, va, quasi istintivamente, come i cavalli che sentono il luogo dove li aspetta il riposo ed il fieno.
Nell’angolo tra via Viminale e via Principe Amedeo ella si ferma, al solito, per guardare i cappelli esposti in una vetrina: ha bisogno di un cappello di mezza stagione e là appunto ce n’è uno, di paglia verde-argentea con un tralcio di cardi biancastri teneri, che è tutto un poema primaverile.
Ma un’ombra cupa le passa negli occhi appena ella s’accorge di essersi fermata. Per i cappelli... per le sottane di seta... per tutte queste cose miserabili, splendide e putride come l’involucro d’un serpente... per queste cose... egli.... Ma l’idea s’interrompe. No; non è vero niente! Bisogna prima accertarsi, prima di calunniare così! Cammina, Regina, fa presto. È mezzogiorno; egli deve essere tornato; la tavola è già apparecchiata. E se non fosse vero niente? S’accorgerà egli del turbamento di lei? Potrà ella nascondergli il suo turbamento? E se non è vero? Egli soffrirà: ella lo farà soffrire ancora, inutilmente. Ecco, ella prova per lui una pietà infinita; sia colpevole o no, egli è degno di pietà: ed intanto ella non si avvede che ella ha pietà di lui perchè la colpa risale a lei... Via Torino. Via Balbo, obliqua, deserta, macchiata dall’ombra degli alberi dei giardinetti pieni d’uccelli, con lo sfondo azzurro dipinto di case lontane. Una nuvola d’un grigio-roseo, un frammento di madreperla, passa sull’alto del cielo. Come tutto ciò è dolce!
Regina scende rapidamente la via, sale rapidamente le scale: il cuore le batte forte, la sottana fruscia, ma ella non sente più alcun fastidio per tutto ciò.
Antonio non è ancora rientrato. La bimba dorme. Regina ha caldo: entra nella sua camera da letto, tutta azzurra, grande e fresca; e mentre si spoglia sente il cuore batterle forte, ma non più di dolore. Finalmente le pare di essersi svegliata da un brutto sogno, o d’aver avuto un forte dolore fisico che ora è cessato.
Ecco il passo d’Antonio su per le scale. Ella lo sente, e come sempre, quel rumore di passi le dà un sentimento di gioia. Ecco il noto rumore della chiavetta nella serratura, ecco il soffio di vita che pare animi tutta la casa quando egli rientra.
— Sei tornata ora? Che bella giornata! E Caterina?
— Dorme.
Egli si leva il cappello, si toglie il soprabito corto e lo butta sul letto: Regina raccatta le sue sottane e mentre le appende all’attaccapanni sente Antonio passarle vicino e sfiorarla con quell’alito di vita, di gioventù e di bellezza, ch’egli lascia sempre intorno a sè.
— Dio santo, ho fatto proprio un brutto sogno, — ella pensa, lavandosi il viso ardente, prima di mettersi a tavola.
*
Antonio uscì appena ebbe finito di mangiare: disse che doveva andare alla Borsa. E appena egli fu uscito Regina corse alla finestra, spinta da un dubbio oscuro, da un istinto incosciente e cieco. Vide il marito scendere col suo passo agile verso via Depretis, e allora si ritrasse vivacemente, colpita non dall’assurdità del suo dubbio, ma dal dubbio stesso.
No, a quell’ora egli non poteva andare dall’altra; e d’altronde, se fosse andato l’avrebbe detto.
Ma oramai il dubbio scorreva nel sangue di Regina; e accorgendosene, ella sentì un’oppressione cupa, mille volte più angosciosa, perchè più cosciente, dell’oppressione provata fino ad un’ora prima.
Allora si pentì di non aver trattenuto Antonio e di non avergli detto tutto.
— Ma a che? — pensò subito. — Egli mentirà, egli non vorrà certo dirmi niente.
Che fare, dunque, che fare?
Ella sedette sulla poltroncina ai piedi del letto e cercò di pensare, di calcolare freddamente.
Le appariva in tutta la sua puerilità la causa del suo dubbio: un foglietto scritto da una bambina maligna.
Ma ella sapeva che la verità talvolta si diverte a rivelarsi così per mezzo di scherzi crudeli: la legge occulta che guida il destino umano ha decreti strani ed incomprensibili.
In quell’ora Regina non sentiva voglia di filosofare, ma suo malgrado si rivolgeva qualche domanda.
Perchè accadeva tutto ciò che le accadeva? Perchè s’era ella un giorno ribellata contro il suo buon destino, e lasciata trasportare da un capriccio, e perchè questo capriccio, questa leggerezza femminile, da lei commessa quasi incoscientemente, aveva generato un dramma vero?
— Perchè dobbiamo soffrire — ella si rispose. — Perchè il dolore è lo stato normale dell’uomo. Ma io non voglio soffrire: voglio ribellarmi ancora. Anzitutto voglio vincere questo dubbio che ora mi avvelena, voglio conoscere la verità: e quando l’avrò conosciuta... che cosa farò?
Ella ragionava ed aveva coscienza di ragionare: questo le serviva di qualche conforto, od almeno le faceva sperare di non commettere più sciocchezze. Ma a momenti ella si domandava se non era già una sciocchezza il suo dubbio.
— Eravamo, siamo così felici ora! Ma io ho bisogno sempre di tormentarmi. Mi sembra di ragionare, ma il mio dubbio stesso è una pazzia. Però, forse io penso così per convincermi che niente è vero, mentre sento che tutto è vero...
— Forse ho paura di perdere la mia felicità, e voglio conservarla a tutti i costi, anche con una transazione vile della mia coscienza.
Ah, questo sì, questo pensiero le faceva perdere la ragione: allora ella diventava come l’ultima delle donne che si fosse trovata nel suo caso: non discuteva più.
Un tremito nervoso la scosse, le contrasse i nervi delle braccia, costringendola a chiudere i pugni.
— Tutto, tutto, tutto... la miseria, il dolore, lo scandalo... tutto, anche l’abbandono di Antonio... tutto, ma non l’infamia.
Gettò le braccia sul letto, nascose il viso, morsicò la coperta e pianse.
Piangeva e ricordava. Un’altra volta si era gettata sul letto e aveva pianto di rabbia e di dolore: poi Antonio era tornato, ed ella lo aveva baciato col tradimento nel cuore.
Era lei che aveva reso infame l’uomo debole ed amante, la conquista, la preda della sua forza superiore.
Egli si era degradato per lei, ed ora ella lo degradava maggiormente, dubitando di lui.
— No, se io gli dico: «io non voglio ciò che tu mi dài: solleviamoci dal fango, rifacciamo la nostra vita»; no, egli non esita un solo momento.
— E se egli mentirà, mentirà ancora per me; per non perdermi. Egli è un frutto bacato; ma il verme che lo rode sono io.
*
Ma, se ella s’ingannava? Se niente era vero?
A momenti questo lampo di gioia balenava nella sua mente; poi tutto ritornava più tenebroso di prima.
*
— Sapere, sapere, prima. Perchè dargli ancora un dispiacere inutile? Bisogna che prima mi assicuri; poi... vedrò.
*
Il pianto le fece bene: fu come una pioggia di estate; le rischiarò e le rinfrescò la mente. Si alzò, si lavò, si mise a leggere un giornale.
Qualche cosa bisognava pur fare. Ma le prime parole che la colpirono e richiamarono veramente la sua attenzione furono queste: «L’arresto di un prete straniero».
Queste parole di cui ella non lesse il seguito, le ricordarono qualche cosa di lontano, di opprimente; un fatto oramai dimenticato che però si rilegava in qualche modo al dramma svolgentesi ora nell’anima sua.
— Che cosa, che cosa? Quando? Come? Ah, ecco, quel sogno!...
Chiudendo gli occhi le parve di rivedere un suo sogno lontano, Marianna le correva appresso, sull’argine nebbioso, raccontandole come Antonio aveva preso in prestito dei denari da madame per «metter su un bell’appartamento». Un’angoscia profonda, fatta di rabbia e di umiliazione, spingeva Regina, la costringeva a singhiozzare, a correre, a sfuggire la compagnia di Marianna... E Marianna le correva appresso, raccontandole di aver incontrato il pompiere suo salvatore.
— Il pompiere era travestito da prete; ma un civettone! — diceva la signorina, e rideva. Rideva, ma non per il pompiere; rideva pensando ad una cosa misteriosa, spaventosa...
Regina riaprì gli occhi; si passò una mano sul viso ancora deformato dal pianto, e sentì la sua mente ottenebrarsi ancora. In quel momento il ricordo del sogno aveva per lei una significazione solenne: dal fondo dell’incosciente le risaliva nitida l’impressione angosciosa di quell’ora lontana. Che cosa era accaduto, allora? Quale fenomeno patologico, presentimento o suggestione, l’aveva dominata? Forse, nell’ora del sogno, era avvenuto il fatto abbominevole?
Ella ricordava d’aver letto esempi in qualche modo rassomiglianti al suo.
Senza dubbio Antonio aveva pensato a lei nel corteggiare la vecchia signora: e il disgusto, la vergogna, il rancore di lui erano stati così violenti da riflettersi, attraverso lo spazio, nelle profondità incoscienti di lei. Da questa profondità ora risorgeva il ricordo, e le induzioni che lo accompagnavano servivano di qualche conforto a Regina.
*
Ma che miserabile conforto!
Fosse pure con tutto il disgusto, la vergogna, il rancore del mondo, egli si era venduto. Fosse pure per amore di lei, egli si era venduto. E si era venduto perchè ne era dunque capace.
Regina provava pietà di lui, perchè questa pietà risaliva a lei, ma sentiva che oramai nella sua vita non v’era posto ad altro sentimento.
Tutto era rovinato: e fra i ruderi grigi tremolava solo il fiore giallognolo della pietà. Troppo poco per vivere fra le rovine.
*
E se niente era vero? Nelle ore buie l’anima più forte diventa superstiziosa. Il sogno era stato soltanto un sogno. Ad ogni modo si riallacciava stranamente alla realtà, con le sue diecimila lire, il «bell’appartamento», il riso diabolico di Marianna.
Marianna! Ella doveva senza alcun dubbio sapere. Per qualche istante Regina pensò di farla venire subito da lei.
— La costringerò a parlare. Anche con la violenza, se occorre. Manderò fuori la balia e la donna. Sono più forte di Marianna, io!
Strinse i pugni, se li guardò, come per assicurarsi della sua forza.
— Se non parla la schiaccio. Le griderò! «Oh, voi, che avete sempre detto la verità, parlate, ora...».
Le pareva d’udir la sua voce risuonare nel silenzio tiepido del salotto.
Che avrebbe risposto Marianna? Avrebbe riso, forse.
E se niente era vero?
D’altronde, subito, un impeto d’orgoglio stravolse e portò via il progetto indecoroso e insensato.
— Nè Marianna, nè alcuno. Saprò da me.
*
Ma dopo un momento ricominciò a dubitare di sè stessa, ed a progettare cose romantiche od almeno irragionevoli.
Fra le altre pensava di pedinare Antonio. Una bella notte egli usciva e dopo aver vagato un po’ qua e là andava ad aprire il cancelletto di ferro del giardinetto di madame, quel cancelletto che aveva fatto dire a Massimo, in una sera memorabile per Regina: — Qui entrano gli amanti...
Ecco dunque che Antonio entrava: Regina aspettava, fuori, nella via deserta, nell’ombra dell’angolo: qualcuno passava e la guardava con occhi brutali, scambiandola per una cercatrice notturna, ma ella non si offendeva. Perchè doveva offendersi? Non era al di sotto dell’ultima delle cercatrici notturne? Le sue vesti non erano intessute di vergogna?
Ben altro tormento le irrigidiva l’anima: ore di muta tortura passavano.
Egli era là, dentro, nel caldo opprimente di quelle sale coperte di pelliccie, voluttuose e feline come vecchie tigri in amore. Quello che avveniva là dentro era così orribile per Regina che ella non voleva pensarci neppure nel suo sogno insensato.
Rivedeva solo la principessa col suo vestito di velluto nero, il collo grasso coperto di perle, il viso di luna, le piccole mani scintillanti... E le piccole mani scintillanti accarezzavano la bella testa di Antonio... Ed egli taceva, egli... s’era abituato a quella carezza.
Questa sola idea produceva in Regina un tale scoppio di dolore che subito dopo avveniva la reazione. Ella si destava dal suo delirio e credeva di vedere tutta la pazzìa del suo dubbio.
Niente era vero: non era possibile, del resto, che, come nei romanzi, Antonio penetrasse furtivamente dalla vecchia dama, e sua moglie potesse attenderlo fuori, nell’ombra dell’angolo, e fargli una scena da commedia, quando egli usciva... Roba da ridere.
*
Così passarono le ore: una specie di male che, come un dolore fisico, era più o meno forte secondo i momenti, e spesso spariva completamente, ma lasciava il ricordo della sua puntura od il timore del suo ritorno, oppresse tutto il giorno Regina.
Fuori continuava la festa del sole, del cielo azzurro, degli uccelli felici: di tanto in tanto una carrozza pienava con un fragore di torrente il silenzio della via poi tutto taceva ancora; e solo in lontananza il rombo della città risuonava come il mareggiare d’una immensa conchiglia.
Verso le due Caterina si svegliò e si mise a piangere. Regina udì quel pianto senza lagrime e senza perchè, ed entrò. La camera di Caterina era tappezzata di bianco; e su quello sfondo chiaro la figura bronzea e pesante della balia, con la bimba nuda tutta rosea fra le mani, destò in Regina una nuova impressione. Le parve di vedere un quadro, che le significasse qualche cosa. Oramai tutto per lei aveva un significato di rimprovero. Quella figura di madre paesana, nera, rozza e dolce come una madonna primitiva, le ricordava ciò che avrebbe dovuto essere stata lei. Neppure madre, come l’ultima delle paesane, ella aveva saputo essere. Niente. Parassita e niente altro che parassita.
La balia vestiva la bimba, e le parlava un linguaggio speciale.
— Questo pianto, ora, perchè? E pecchè quetto pianto? Che c’è? Avete freddo, signori? Ora mettiamo la bella camicina, e poi le belle calzine, e poi anche le scarpettine. Oh, che belle scarpettine, guardate, che belle scarpettine! Su, dentro, piedino. E che, non volete andar dentro, piedino? Ohè, signor piedino, fate da bravo... dentro!...
Caterina, in camicino, grassa e rosea, coi capelli arruffati, continuava a piangere, ma guardava con interesse le scarpine bianche e spingeva il piedino.
— E una! Ora quest’altra. Vediamo se questo signor piedino è cattivo come l’altro. Su, su; no, questo è buono, e gli diamo un bacino. Su!
Caterina rise: il suo visino, i suoi occhi dal bianco azzurrognolo, tutta la sua figurina parve illuminarsi.
Regina la prese fra le braccia, la sollevò in alto in alto, la riprese sul seno, la fece volteggiare, volteggiò e rise con lei.
— Mia, mia, mia... piccinina, scagarottina!1
— Bah, — disse con umore la balia, — perchè la chiama così? Me la dia; non vede che ha freddo?...
— Andate al Pincio, — disse Regina, rimettendole la bimba in braccio: ma Caterina si era attaccata a lei con le braccine e non voleva la balia.
— Al Pincio c’è vento — disse questa, sempre più di malagrazia. — Su, piccina, eh, che non mi vuoi più?
Ma Regina non fece caso del malumore della balia, che era stata sempre gelosa di lei!*
Uscita la balia, Regina vagò un po’ qua e là per l’appartamento silenzioso. Che fare? che fare? Ella non sapeva cosa fare, Avrebbe dovuto uscire, far visita a una signora che aveva conosciuto da madame Makuline; ma la sola idea di vestirsi, di andare in un salotto ove le signore si sedevano in circolo e discutevano a lungo, gravemente, sulla forma allarmante che assumevano le maniche degli ultimi figurini, la riempirà di tristezza.
Che fare? Che fare? La noia, o almeno un sentimento che ella voleva far credere a sè stessa fosse noia cominciò ad opprimerla. Ella non ricordava più che cosa aveva fatto fino al giorno innanzi per non annoiarsi, ma ricordava che una volta nel primo anno di matrimonio, si annoiava così.
Come era passato quel tempo? Quali grate occupazioni le avevano fatto dimenticare il trascorrere della vita? Nulla; soltanto era stata felice.
— Ma che, sono forse infelice, ora? Per una sciocchezza! — pensò, sedendosi presso la finestra della sua camera, e prendendo a cucire una sottanina della bimba. — Ma anche allora mi rattristavo per delle sciocchezze.
Cucì per cinque o sei minuti. Il silenzio della camera, la luce quieta e un po’ melanconica del meriggio, e quello stesso rumoreggiare lontano di conchiglia immensa che arrivava nel tepore dell’aria, le diedero una dolcezza vaga di sonno. Il male pareva cessato. Altri minuti passarono. Ma ad un tratto risuonò il campanello della porta, ed ella balzò su scossa dalla vibrazione elettrica che le si comunicò ai nervi.
— Non sono a casa! — disse correndo verso la serva che andava ad aprire.
Rientrò in camera e chiuse l’uscio; neppure voleva sapere chi poteva cercarla. In quel momento, in quel giorno, odiava e disprezzava tutto il genere umano.
Ma quando la serva venne a dirle, dietro l’uscio, che la visitatrice era la signorina Gabrie, Regina si precipitò alla finestra e chiamò la fanciulla che in quel momento usciva dal portone.
Gabrie rientrò: Regina si pentì subito di averla chiamata, accorgendosi di essere stata spinta da un impulso di curiosità disperata.
Forse la studentessa, trovando i suoi quaderni smossi, dubitava che Regina li avesse letti: e veniva, spinta dalla paura, per scusarsi, per discolparsi. Bastava interrogarla per sapere...
Ma Regina ritrovò subito la sua orgogliosa dignità.
No, mai! Nè a Gabrie, nè a nessuno ella avrebbe fatto domanda di quanto le premeva sapere.
Gabrie entrò, bionda e bianca nel suo vestitino nero a sacco: era sofferente, tossiva; solo gli occhi conservavano tutto il loro fulgore di malizia, acuti e lucenti come aghi. Null’altro.
Non seppe perchè, Regina ebbe quasi timore di quella bambina terribile; le parve che la futura scrittrice, già padrona d’una possanza divinatrice, superiore ad ogni altra possanza umana, leggesse attraverso la sua fronte. Ma fu un momento. Gabrie non era che una piccola pettegola: ella la disprezzava.
— Stavo per uscire: ecco perchè ti ha detto che non c’ero. Sei guarita? Son venuta da te stamattina.
— Sì, lo so, grazie. Sto meglio. No, non seggo. Vestiti pure. E Caterina?
— È uscita, — disse Regina, accomodandosi i capelli davanti all’armadio a specchio.
— Vestiti pure, — ripetè Gabrie; — mi dispiace d’esser venuta a disturbarti.
Regina cominciò a cambiarsi; non sapeva dove sarebbe andata, ma voleva uscire, anche per liberarsi di Gabrie.
— Vuoi aiuto? — chiese la fanciulla.
— Sì, fa il piacere, allacciami il colletto: oh, questi colletti, che noia! Bisogna aver la cameriera, per questi signori colletti!
— E non l’hai? — disse tranquillamente Gabrie, allacciandole il colletto.
— Quella è una servaccia!
— Pazienza! Aspetta un momentino: come puoi portare questo colletto? Ah, davvero, le donne sono vittime della moda!
Regina sentiva sulla nuca le piccole dita sottili e fredde di Gabrie: il colletto ricamato in oro, alto fino alle orecchie, la soffocava. Improvvisamente si volse, rossa in viso, adirata... contro chi? contro Gabrie o contro il colletto? Non sapeva neppur lei. Se la prese però con Gabrie.
— Le donne sono... E tu non sei donna? Fammi il piacere, non prendere più questo tono; mi sei antipatica. — Lo so, — disse l’altra cou tristezza. — Ma che colpa ne ho io?
Regina la guardò, mentre ratteneva il respiro per potersi allacciare la gonna troppo stretta. Che voleva dire Gabrie? Avevano le sue parole un significato?
— Quanti anni hai?
— Perchè? Venti. Perchè?
— Proprio, proprio?
— Proprio. Perchè dovrei nasconderli? Tanto io non troverò mai marito!...
— No, credevo ne avessi di meno, — disse Regina. — Non assumere quell’accento patetico, ora! Sei antipatica lo stesso.
— Lo so. Che colpa ne ho io?
— Quando pubblicherai il tuo primo romanzo?
— Prima di quanto tu creda, — disse Gabrie, animandosi e tossendo forte.
— Metterai il mio tipo? — proseguì Regina, incipriandosi dispettosamente. La polvere bianca andava a velare persino lo specchio. Regina pensava:
— Gabrie deve trovarmi mutata a suo riguardo e ne indovina la ragione.
E sentiva d’esser cattiva, e s’indispettiva contro sè stessa che voleva e non sapeva dominarsi.
Ma Gabrie tossiva e non le rispose oltre. Uscirono assieme.
— Dove vai? — chiese Regina.
— A casa, a studiare.
— Vieni con me, ci sarà anche là da studiare, per una futura scrittrice. Figurati un salotto, con dieci persone mortalmente nemiche fra loro perchè ognuna ha paura di essere meno ben vestita delle altre!
— Nei miei romanzi, se ne scriverò, non ci saranno di queste cose orribili. È inutile che tu mi prenda in giro!
La frase a doppio senso le fece ridere entrambe, ma parve a Regina che in quel riso vibrasse un tintinnìo di moneta falsa. D’altronde non le riuscì mai di sapere se Gabrie dubitasse o no che ella aveva letto il suo quaderno.
— Addio, — dissero, senza stringersi la mano.
Gabrie s’avviò verso via Torino e Regina scese verso via Depretis. Nel silenzio del marciapiedi, chiaro e solitario, il fruscìo della sua sottana pareva un susurrìo di foglie secche.
Ella pensava a Gabrie, che se ne tornava al suo buco come l’ape all’alveare, ed aveva uno scopo in questa stupida vita. Ella camminava, ma non sapeva dove andava.
*
Camminò a lungo, senza scopo: scese e risalì per via Nazionale; poi quasi senza accorgersene si trovò in via Sistina, diretta al Pincio.
I suoi pensieri molesti la seguivano come il fruscìo della sua sottana. Al Pincio ritrovò la balia con Caterina, e sedette assieme a loro su una panchina della terrazza. Non c’era musica, ma la bella giornata aveva attirato una folla di stranieri e di vetture nei viali del Pincio. Mentre la bimba, curva fra le braccia della balia china, raccattava sassolini che esaminava attentamente e poi porgeva con serietà ad un altro bambino, Regina guardava le vetture che passavano nello sfondo dei viali. Una specie di fascino la vinceva. Il quadro del Pincio, quel giorno, era troppo luminoso, troppo bello: un cielo perlato, alberi violetti fra alberi verdi, figure ben vestite di persone sfaccendate, profili e figurine da pittura su porcellana.
I bei cavalli lucenti, le carrozze piene di signore eleganti, passavano e ripassavano, come nello sfondo di un palcoscenico, con una specie di corsa ritmica che affascinava, ma di un fascino sonnolento simile a quello che desta l’acqua corrente.
Un tempo Regina aveva invidiato quelle signore, fino all’odio, fino all’errore: ora le pareva di compassionarle, per la loro noia, per la loro inutilità, per la loro corsa ritmica, sempre la stessa, sempre eguale, come nei viali così nella vita.
— Vogliamo andare? Comincia a far fresco, — disse la balia.
Regina si scosse: il sole era tramontato, limpido in un cielo limpido che si tingeva appena d’un lieve rosa-verdognolo: sul quadro calava ora una luce cenerina, d’una soave tristezza.
Regina s’alzò docilmente, e seguì la donnona il cui volto di bronzo spiccava nell’aureola d’oro della cuffia della balia.
*
Cammina, cammina, Caterina s’addormentò sulla spalla possente della balia, ed il crepuscolo roseo-cinereo gettò il suo velo sulla via Sistina. La balia precedeva, grave ed ondeggiante come una barca carica; Regina, sottile e frusciante come un giovine pioppo, seguiva, automaticamente, quasi rimorchiata dalla donnona; e quando questa si fermava, — e si fermava davanti a tutte le vetrine di collane e di anellini, — anche lei si fermava, con lo sguardo vago e velato.
Alla lunga, tormentosa eccitazione, succedeva in lei un indefinibile torpore: le pareva di camminare in sogno, e che anni ed anni fossero trascorsi dopo che era passata in via San Lorenzo, seguendo il venditore d’uccelli.
Di tutte le sensazioni provate le rimaneva solo una vaga tristezza: le sembrava di non dubitare più, d’essersi finalmente convinta della mostruosa sciocchezza del suo dubbio; ma non ritrovava la solita serenità.
Tre suonatori storpi, fermi davanti ad una casa dipinta lugubremente, piangevano coi loro vecchi strumenti un lamento di suprema melanconia; i marciapiedi erano pieni di vecchie straniere, dai cappelli gretti e ridicoli; da ogni sbocco di via scaturivano urli di automobili. Regina, forse a causa della sua miopia, aveva sempre paura delle automobili, specialmente nell’ora del crepuscolo, quando l’estrema luce del giorno si fonde col chiarore incerto dei fanali, in un barbaglio pericoloso. Quella sera si spaventava più che mai: le pareva che dei mostri si fossero scatenati per la città, ed urlassero per avvertire del loro passaggio. Un bel momento qualcuno di questi mostri si avventava contro di lei, contro la bimba, contro quella cosa semovente ch’era la balia, e le stritolava come granelli d’orzo.
*
Verso piazza Barberini un vecchio signore un po’ curvo, con un soprabito d’antica forma tutto abbottonato nonostante la sera quasi calda, passò vicino a Regina. Ella riconobbe il Senatore parente d’Arduina, e si volse, salutandolo; ma egli guardava davanti a sè, con gli occhi chiari ironici eppur dolci, e non vedeva nessuno.
Ella l’aveva riveduto parecchie volte; un giorno egli era stato anche a farle visita; ed ogni volta egli aveva parlato dell’Inghilterra, delle leggi inglesi, delle donne inglesi, ripetendo sempre il ritornello della sua vecchia canzone sulla vita:
— Lavorare! Lavorare, ecco il segreto per viver bene.
Regina aveva finito col trovarlo noioso come tutti i vecchi monomaniaci. Si viveva bene anche senza lavorare: anzi! Ma quella sera ella seguì con gli occhi la figurina curva e saltellante, e la trovò più del solito ridicola; ma le parve che, come nelle favole, quella figurina quasi di gnomo le fosse apparsa per ricordarle la morale della sua triste storiella.
*
Insomma, per dirla col maestro, la vita era tutta una trista storiella, a pensarci bene. Non era uno sconfortante segno dei tempi che una fanciulla di venti anni, la quale mai prima d’allora aveva varcato la linea verde dell’argine natìo, andasse a raccogliere nel suo quaderno le cose più brutte della vita, fossero pure calunnie?
*
Antonio rientrò verso le sette.
Come in una sera lontana, la tavola apparecchiata attendeva; l’andito era tutto fragrande d’odore di carciofi fritti, e Regina, appena spogliatasi, segnava la lista della spesa per l’indomani.
Antonio andò subito verso Caterina che s’era svegliata, la prese fra le braccia e sedette con lei vicino alla finestra. Di sera, al lume delle lampade, Caterina era sempre più vispa e lieta del solito.
— Come i gattini, — diceva la balia.
Quella sera la bambina, che pareva nutrisse una grande ammirazione per il padre, stette a guardarlo lungamente, poi gli mostrò un piedino ancora calzato con la scarpetta nuova.
Antonio capì l’intenzione della bimba.
— Siamo già civettuole, eh! Abbiamo le belle scarpine e le facciamo vedere? — disse, scuotendo la testa e prendendo il piedino entro la sua mano.
Ma Caterina s’annuvolò, aggrottò terribilmente le sopracciglia d’oro, e fece uno sforzo per liberare il piedino: vi riuscì, ma la scarpina si slacciò e cadde. Allora il giovane padre si curvò, e non senza molte difficoltà rimise il piedino caldo e palpitante entro la scarpetta, rivolgendo alla bimba delle frasi che, direbbe Balzac, a leggerle sono ridicole, ma in bocca d’un padre sono sublimi. Caterina rispondeva a modo suo.
Quando Regina s’avvicinò, Antonio e la bimba continuavano la loro interessante conversazione; gli occhi del giovine erano limpidi e lieti ed ella si convinse ancora una volta d’aver fatto un brutto sogno.
Note
- ↑ Scagarottin, il più piccino e prediletto, l’ultimo nato d’una nidiata.