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Era lei l’essere debole e vile. Lei che non aveva capito la serietà e la fatalità della vita: ed ora la vita la schiaffeggiava come una bambina cattiva ch’ella era stata.
La testa le ardeva e le pulsava, quasi realmente qualcuno l’avesse schiaffeggiata. Quanto tempo stette seduta sulla panchina? La gente passava e la guardava: i giovanotti si voltavano, uno le sorrise, dopo aver ammirato le sue scarpette verdoline e l’orlo della sottana emergente fra i volanti della gonna.
Ella pensava che dentro il giardino la balia l’aspettava, ma non poteva muoversi. Attraverso il velo della sua angoscia vedeva la gente che passava, gli alberi, le rovine rivestite di verzura; e una tenda gialla fra le rovine, e due colombi coperti di macchie grigie, che si baciavano fra l’edera, ed i fili telegrafici che intagliavano l’azzurro vivido del cielo; vedeva gli annunzi che coprivano l’angolo delle Terme, distingueva una scena di caccia su una réclame enorme, leggeva delle parole inutili — Odol, Odol, Odol — che poi le rimasero impresse stranamente nella memoria, vedeva degli operai che lavoravano nello sfondo della piazza, e di cui non dimenticò mai più il color rosa terreo delle camicie; seguiva con lo sguardo lo scintillìo delle ruote delle vetture... Questa scena semplice, alla quale ella aveva assistito centinaia di volte, le destava un’inquietudine profonda, l’attirava, l’assorbiva: ma ad un tratto le parve che quest’interessamento strano se lo creasse lei, per indugiarsi, per non rientrare nel giardino ed allontanare l’ora del ritorno a casa.