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III.
E giorni e giorni seguirono, se non in tutto, in parte eguali a quello.
*
Un aprile caldissimo bruciava già la città. Verso sera il cielo si infocava, ardente e luminoso come un metallo incandescente: l’odore dell’estate, odore di polvere e di erbe secche, rendeva l’aria quasi soffocante.
Una di quelle sere Regina stava nel salotto della principessa, che due giorno dopo, a causa del caldo eccezionale, doveva partire per Albano.
— Starete molto tempo lassù? — domandava in francese il vecchio signore dal cranio di porcellana, facendo uno sforzo per parlare.
Ma come egli non parlava abbastanza forte, madame volse lentamente il gran viso scialbo.
— Scusate? — Vi tratterrete molto ad Albano?
— Tre settimane.
— Dove andrete dopo? — insistè l’altro con serietà quasi tragica.
— A Viareggio, monsieur. E voi?
— Non so ancora. Forse a Vichy: ma sono ancora indeciso. E voi non andrete all’estero?
— Forse no, quest’anno. Non mi sento molto bene e non voglio stancarmi. Ah, come fa già caldo! Ho dovuto far mettere i materassi di crine; ma non si può più dormire.
Madame sospirò; monsieur sospirò più forte. Sembravano entrambi infelicissimi, ella per il caldo, egli perchè non sapeva ancora dove andare a passar l’estate.
— Io credo venga il terremoto, — disse Marianna per confortarli, portando una tazza di thè.
Ma il vecchio signore, che da qualche tempo s’inteneriva nel veder Marianna, la guardò fisso coi suoi occhietti violacei, e le disse:
— Quante tazze di thè avete distribuite in vita vostra, mademoiselle? Ecco, quando vi vedo senza la tazza di thè in mano, la vostra figurina mi sembra incompleta.
Ma mademoiselle era di cattivo umore, e perciò non diceva ne voleva sentire sciocchezze. Il caldo opprimeva anche lei. Passando vicino a Regina disse abbastanza forte:
— Ad ogni tazza di thè che io ho distribuito egli ha perduto un capello.
Ma anche Regina era di pessimo umore e non le badò.
Insomma, il caldo rendeva la gente cattiva ed anche stupida. Regina, poi, si sentiva all’estremo delle sue forze: il suo orgoglio e la sua dignità si piegavano sempre più, d’ora in ora.
E quel giorno ella aspettava quasi con ansietà che venisse Antonio. Forse avrebbe finalmente colto un segno: quale non sapeva, ma aspettava. Aspettava, ma si vergognava di trovarsi là, davanti alla vecchia impassibile come una sfinge sorda, ed aveva vergogna di questa sua vergogna.
E ricordava. Oramai bastava il minimo segno perchè ella ritornasse nel passato, e rievocasse con intensità e nitidezza ogni atto ed ogni parola che potessero avere un significato ambiguo. Quel giorno era il profumo amarognolo delle lille, di cui era pieno il salotto, che le ricordava un’altra visita fatta due anni prima, e le parole amare come quel profumo, pronunziate da lei, e la terribile risposta di Marianna.
— Il povero, a Roma, è un mendicante che rosicchia un osso davanti alla porta chiusa di un palazzo.
— E qualche volta passa il cane del ricco e strappa di mano al mendicante anche quell’osso...
Eh, mademoiselle conosceva la vita! Mentre Regina rievocava lo sguardo triste ed ironico che la principessa le aveva rivolto quel giorno, quando ella era venuta a congedersi prima della sua fuga, Marianna le porse una tazza di thè e cominciò a raccontarle delle infamie su di un signore molto elegante che frequentava il salotto di madame.
— Dicono che egli si faccia mantenere dalle sue amanti, e dopo averle sfruttate le butti come limoni spremuti... Si dice così?
— Peggio per loro, — disse Regina; con dispetto. — Dopo tutto egli è il più forte e...
— Ah, mi dimenticavo che anche voi siete una superdonna... — disse Marianna, a voce bassa. Poi subito rise. — Volete un’altra tazza di thè?
Rapido e terribile come il fulmine, un pensiero attraversò la mente di Regina.
— Marianna è partecipe del segreto di Antonio e di madame e ritiene partecipe e consenziente anche me! — Una vampa le incendiò il viso. E mai dimenticò il senso di vergogna che questo rossore le destò. Fu un attimo. Guardò Marianna con disprezzo; poi subito pensò che la signorina potesse aver detto senza intenzione una delle sue solite sciocchezze insolenti. Ma le rimase un lieve tremito ai polsi.
— Bisogna uscire da quest’incubo, a tutti i costi, — pensò.
Non era la prima, nè la seconda, nè la millesima volta che pensava così: ma in quel momento ella sentì che il suo male, — vero o immaginario, — era giunto alla crisi e doveva risolversi. O la salute o la morte.
Le vecchie signore ed i vecchi signori s’erano stretti intorno alla principessa, che in quel circolo scintillante emergeva, così bianca e scialba, come la falsa perla lattiginosa in un anello pesto. Tutti parlavano del suicidio d’un grande personaggio russo, un mecenate conosciutissimo in tutta Europa.
Un russo aveva assistito pochi giorni prima, a Parigi, ad un banchetto offerto da artisti e signore al ricco suicida; ed ora raccontava tutte le perfidie, i dietroscena, la diplomazia malvagia di quel simposio, accennando ai legami più o meno vergognosi che univano fra loro taluni dei convitati, e per gli adulteri delle loro mogli, e per le concessioni delle loro coscienze di cittadini e d’artisti.
Regina ascoltava, e si ricordava di aver cento volte assistito a conversazioni simili, ma ciò che ora la colpiva era la semplicità con la quale il russo parlava, e l’interesse con cui gli altri ascoltavano. Nessuno si stupiva: anzi alcuni approvavano con cenni della testa e delle mani, e dimostravano piacere nell’udire cose che essi già da molto sapevano.
Il mondo era fatto così! Ed ella si meravigliava che uno di quei fatti, a quanto pareva, comuni a quasi tutti gli uomini e le donne di questa terra, fosse capitato a lei! Ci fu un momento nel quale ella si domandò se non era una sciocca a tormentarsi tanto; ma subito ebbe orrore della sua domanda. Credette di soffocare: il caldo di quel salotto, ancora coperto di pelliccie, le dava realmente un senso di oppressione e di soffocamento. Ecco, ecco: le bestie feline s’animavano; le loro pelli si riempivano, si muovevano, s’avvicinavano, le soffiavano sul volto un alito pregno di profumi amarognoli e voluttuosi; i loro occhi di vetro giallo l’affascinavano; le loro zampe pelose si sollevavano, lentamente, morbidamente, e le stringevano il collo e la soffocavano. Aria! Aria! Liberarsi o morire; ancora un momento ed ella, la Regina sia pure cattiva, ma non impura, che lungo il fiume natìo aveva sognato tutto ciò che v’è ancora nella vita degno di sopportare la vita, ancora un momento e moriva asfissiata.
Istintivamente s’alzò e uscì nel piccolo terrazzino di marmo, dal quale si scendeva per una scaletta al giardino. Un uomo lavorava intorno ad un’aiuola rotonda, molle d’erba vellutata, ornata di fiori, simile ad una torta. Tutto era molle ed artificiale nel piccolo giardino verde e viola, cosparso di petali di glicinie. Una luce rossa di tramonto insanguinava una ghirlanda di rose bianche, pendente dal lauro che sovrastava il cancello in quell’ora socchiuso.
Regina non provava ancora alcun sollievo nel respirare l’aria calda e troppo odorosa del giardino, quando vide il cancello aprirsi ed Antonio entrare. Ella sentì un velo sanguigno calarle sugli occhi, e per un momento non vide più neppure la figura che si avanzava fino a lei. Ma Antonio salì tranquillamente la scaletta, si fermò vicino a lei e le chiese:
— Che fai qui?
Era come sempre elegante, ma non in abito da visita.
— Perchè sei venuto così? — gli disse Regina, toccandogli la giacca. — C’è tanta gente, tanto caldo. Non entrare, tanto non ti hanno visto. Anch’io me ne vado ora.
— Aspetta un momento, — egli rispose, tranquillo, — perchè vuoi andartene?
— Non entrare di qui, almeno! Antonio! — ella disse, eccitata.
— Ma perchè? — egli ripetè semplicemente. E spinse la porta vetrata.
Regina rimase sul terrazzino, guardando senza vederlo l’uomo che lavorava intorno all’aiuola. Nel primo momento le parve ancora una volta di concepire tutta la mostruosa sciocchezza del suo dubbio. No, un uomo colpevole non agisce come aveva agito Antonio in quel momento.
Ma subito dopo ella pensò che se Antonio era colpevole doveva comportarsi come si era comportato, fingendo di non capire, se pure lo capiva, ciò che passava nell’anima di lei. Ma no, ancora no. Se egli fosse stato colpevole avrebbe finto meglio: non sarebbe entrato famigliarmente per il cancello, non si sarebbe presa tanta libertà, sapendo sua moglie in casa; dell’altra.
Ella però sapeva che i delinquenti più astuti fingono talvolta di obliarsi e commettono apposta delle imprudenze per sviare appunto i sospetti.
*
E ciò che più la colpì, in quel momento, fu l’accorgersi come oramai ella riteneva Antonio non solo colpevole, ma partecipe del sospetto di lei e deciso a continuare l’inganno.
*
Rientrò nel salotto: continuavano a discutere sul suicidio dello straniero: questa discussione le parve stucchevole: un pettegolezzo da provincia.
Marianna portava una tazza di thè ad Antonio, ed anche Antonio, rosicchiando coi suoi bei denti da bambino un biscottino giallo, diceva tranquillamente la sua opinione sulla tragedia. Madame tendeva l’orecchio e si faceva vento con un piccolo ventaglio giapponese che pareva di vetro smerigliato: gli anelli delle sue piccole mani scintillavano nella luce sempre più tenne e rosea del salotto.
Null’altro. Come sempre, nessun segno; nessuna rivelazione del segreto. Antonio non badava a madame, e questa, più cascante ed impassibile del solito, tendeva l’orecchio verso la persona che parlava in ultimo, e di tanto in tanto rispondeva con parole garbate, ma aveva negli occhi metallici quello splendore vago, un po’ languido, di chi pensa a cose lontane tutte sue.
Dopo un po’ Regina s’alzò, Antonio la seguì: si congedarono e se ne andarono. Marianna li rincorse fino all’anticamera e baciò Regina su ambe le guancie, dicendole addio.
— Anche a me — disse Antonio, tendendo la guancia.
— A voi domani — ella rispose, proseguendo lo scherzo. Poi, seria: — Venite verso le sette, perchè prima dobbiamo uscire.
— Ah, — aggiunse poi, accompagnandoli fino alla porta, — è tornato poi quel signore. Vuol dare trecento lire, o una pelliccia nuova; ma madame si ostina a voler la sua. Dice che bisognerà citarlo in pretura.
— Citiamolo pure; per me! — disse Antonio. — Ma era poi buona la pelliccia vecchia?
— Eh, nuova costava novecento lire!
— Vedremo; arrivederci.
— Addio; verrete ad Albano, Regina?
— Se madame c’invita! — rispose Antonio, allontanandosi.
Regina non disse nè sì, nè no: camminò un pezzo silenziosa, fino a piazza dell’Indipendenza, poi parve ricordarsi di qualche cosa, sollevò il viso e domandò:
- Cos’è, quella pelliccia?
— Oh, Dio, non me ne parlare: è un mese che madame m’affligge con questa storia: ha dato ad accomodare una pelliccia e pare gliela abbiano scambiata; non so, un pasticcio.
— Andrai ad Albano, tu?
— Se ci invita... una domenica...
— Io non ci vengo, — disse Regina, forte.
— Perchè?
— Perchè fa caldo, — ella rispose, abbassando la voce.
— Figurati se lassù ci sarà caldo: ha preso in affitto un villino in riva al lago; ci sono tante rose sulla terrazza; quando si sfogliano cadono sull’acqua.
Regina lo sapeva: Antonio, che era stato a cercare il villino qualche giorno prima, glielo aveva già descritto. Camminarono ancora, senza più dirsi niente. Nel crepuscolo rosso i fanali brillavano gialli e melanconici e il loro chiarore aumentava l’inquietudine di Regina. Il progetto insensato di pedinare Antonio durante la notte, la riassaliva. Ella si vedeva, ombra vagante sotto quella luce gialla e melanconica, seguita a sua volta da qualche nottambulo in cerca di avventure. Ma d’un tratto sollevò fieramente la testa.
— No, mai più. Questa è l’ultima volta che io vado in quella casa: e neppure lui ci deve tornare... È tempo di finirla.
Appena rientrata nella sua camera si levò il soprabito di taffetà e lo sbattè sul letto.
— Fa già tanto caldo! Una bellissima estate avremo! Oh, come Roma è orribile, d’estate: e loro se ne vanno già. Hanno ragione, poverini, sono così delicati! E noi... Sì, l’osso rosicchiato... quando ce lo lasciano...
— Che cosa borbotti? — domandò Antonio; ma subito parve pensare ad altro: — non è ancora tornata Caterina...
Regina si spogliava, buttando qua e là i vestiti che si toglieva, e continuando ad inveire contro i signori, i ricchi che abbandonavano Roma ai primi caldi. Antonio s’affacciò alla finestra. Ad un tratto Regina ebbe un pensiero maligno, l’ultimo, il supremo dei pensieri perversi, che non la lasciavano più in pace.
— Egli non si irrita più quando io mi stizzisco; pare abbia paura di provocare in me uno scoppio d’ira. Egli indovina che io so; e crede che io tolleri... fino a un certo punto?
— Chiudi la finestra, — disse irritata.
Egli chiuse la finestra, pazientemente.
— Vado a prender l’Avanti; fa apparecchiare, sono le sette e mezzo — disse, uscendo.
Rimasta sola Regina fu assalita da una specie di crisi simile a quella provata due anni prima al ritorno dal Grand Hôtel.
— Ah, — pensava, rivestendo l’abito da casa — appena rientra glielo dirò: è tempo di finirla, o io me ne vado, e questa volta me ne vado davvero. Non voglio che tu vada ad Albano; non voglio che tu ritorni più in quella casa: io non ci tornerò più. Finiscila, Antonio, finiscila, finiscila! Non vedi, non t’accorgi che io mi rodo ferocemente, o te ne accorgi e mi lasci consumare così? Perchè, dimmi almeno perchè? Perchè fai così? Io non so che farmene dei gingilli, delle sottane, degli stracci che tu mi procuri con quel denaro. Ecco, io butto tutto, butto tutto via; mi basta una soffitta, un sacco per vestito, un pane nero... ma l’onore, Antonio, l’onore, l’onore... Ah, anche questo ci tolgono; anche quest’osso rosicchiato. Ma la farete con me, madame, vecchia luna viscida, rappresentante bolsa e losca d’una razza di vampiri notturni... Non vi basta d’aver passato una vita dolce, sul tepore delle vostre pelliccie, una vita molle che vi ha infracidito l’anima e il corpo, volete divertirvi anche nella vecchiaia, e volete l’amore dei bei giovani poveri, come i vostri vecchi amici ricchi vogliono le belle fanciulle povere, poveri e teneri, questi giovani e queste fanciulle, teneri di lagrime, di fatica e di dolore come voi siete molli di sazietà e d’ozio.
— E va bene, — pensò poi, rimettendo in ordine le sue vesti, — tutto questo è retorica bella e buona. Del resto il mondo è dei forti, ed io... io sono così debole... sono debole perchè ragiono troppo, mentre quella gente là non ragiona: gode e via! La vecchiaccia sorda non ha certo ragionato; s’è preso il mio Antonio... ed io... io sono qui un mese a torturarmi pensando se è delicato o no, per parte mia, dover dire a mio marito: finiscila, finiscila! Ma stasera parlerò. Egli mi rinfaccierà che è stato per me... per darmi quel che io volevo... e poi, che succederà? No, egli non mi rinfaccerà nulla: non ne è capace. Ci perdoneremo a vicenda... e poi?... È vero che la nostra vita potrà rifarsi? Sì, si rifà anche una casa crollata; ma non è più la prima casa, ed abitandola si ricorderà sempre l’orrore della rovina...
Antonio non rientrava. Tardava anche la balia, che in quei giorni era di pessimo umore e spadroneggiava più che mai perchè doveva andarsene; era già quasi notte, Regina guardò dalla finestra, presa da una vaga inquietudine per la bimba. Nella via solitaria, spruzzata d’erba come la via d’una città deserta, persisteva l’ultimo crepuscolo; i giardini odoravano di rose, qualche stella oscillava sul cielo ancora sanguigno.
E nonostante tutti i suoi fieri propositi, Regina sentì una grande tristezza al pensiero che avrebbe dovuto abbandonare quella via poetica, di cui ogni filo d’erba sapeva la sua illusione di felicità.
*
Anche quella sera ella tacque. Come fare? Caterina non voleva addormentarsi, voleva stare un pochino col suo papà, del quale ammirava i baffi d’oro, i begli occhi dolci, i bei capelli profumati. S’accorgeva Caterina che il papà era bello? Questo non si sa; ma è certo che ella guardava con vero piacere il viso grazioso e bello del giovine padre, e pareva provasse una sensazione speciale nello sfiorare con la sua guancina d’albicocca matura la guancia sbarbata del papaino.
Antonio cantarellò alla piccina una canzonetta infantile:
Topolin non vuol ricotta, |
Ogni volta che egli ripeteva questi versi, Regina ricordava come si ricorda un sogno affannoso, la sera del suo arrivo a Roma. Ma Caterina rideva e smaniava ebbra di gioia, e ammirava più del solito il papà, col quale poi si dicevano tante cose, tante cose intime, comprensibili a loro soli. Cosa doveva fare Regina? Privare Antonio, che aveva lavorato tutto il giorno, del piacere di conversare con la bimba, strappargliela dal petto e portarla via? Regina non era così cattiva. Quando poi gli occhioni di Caterina diventarono languidi di sonno, e tutta la sua figurina si ammorbidì, s’abbandonò, grave e dolce come un frutto maturo, e Antonio disse: — Ora esco un pochino, — che doveva fare Regina? Dirgli: — No, rimani; devo dirti le cose orrende che io penso di te?
Era impossibile. Egli aveva ben diritto di andare un pochino fuori, almeno la sera, dopo una giornata di fatica. Ed egli uscì, e Regina si mise a leggere la rubrica dell’Avanti: «Ciò che succede nel mondo».
*
Madame Makuline partì due giorni dopo, ma Antonio continuò a recarsi tutti i giorni al villino, — ov’era rimasto un vecchio domestico, — per sbrigare qualche affare.
La domenica seguente egli disse a Regina che il domestico gli aveva chiesto il permesso di assentarsi; e le fece veder due chiavi.
— Siamo finalmente padroni di un villino! — disse, scherzando. Allora Regina fu assalita da un’idea morbosa; invano per qualche istante cercò di respingerla. — Andiamoci, allora! — propose.
Egli accettò, non solo, ma parve lieto dell’avventura. Possibile ch’egli fosse tanto cinico?
Ella indossò un abito bianco, morbido, dalle grandi maniche floscie, che la rendeva giovanissima e bella d’una bellezza moderna, fatta non di linee ma di espressione. L’abito era nuovo, ed Antonio lo trovò.molto elegante; del che ella si compiacque. Nonostante i suoi dubbi e i suoi rimorsi ella non poteva fare a meno degli abiti belli, e qualche volta anzi provava un piacere morboso e crudele, nello spendere quel denaro in oggetti d’ornamento e di lusso.
Da qualche tempo aveva ripreso a curare con raffinatezza la sua pelle, i suoi capelli, le sue unghie. Perdeva dei quarti d’ora a soffregarsi la faccia con olio di mandorle, ed a pettinarsi alla moda. Che voleva, con ciò? Piacere ad Antonio, piacere ad altri? Non lo sapeva neppure lei; soltanto, quando s’accorgeva che non si stizziva più contro se stessa, come un tempo, per le sue raffinatezze fuor di luogo, si domandava se il suo senso morale non si abbassasse ogni giorno di più.
*
Ma appena furono usciti, una folata di vento dispettoso le scompigliò i capelli e le rubò la cipria dal viso. Era un meriggio quasi ardente; gli alberi dei viali fremevano al soffio del vento caldo, la piazza della stazione, abbagliante di sole, pareva più grande del solito, ed un velo di polvere fumava negli sfondi delle vie. Il levante imperversava, col suo alito caldo pregno di maligne suggestioni. Lungo la via Antonio e Regina, che camminavano a testa bassa, tenendosi i cappelli fermi con la mano, un po’ si bisticciarono, un po’ risero: giunti davanti al villino si guardarono attorno come ladri. La via era deserta, spazzata dal vento. Sui marciapiedi bianchi volteggiavano foglie di rosa e di geranî: un caldo odore di gigli saliva dai giardini chiusi; pareva d’essere in una città nuova, sconosciuta, non ancora abitata; e quando Antonio aprì la porta del villino, Regina disse:
— Mi pare di entrare in una di quelle casine incantate, che i bambini smarriti trovano per caso, come si legge nelle favole...
*
Credette di entrare in un bagno quando penetrò nel vestibolo fresco, spoglio di corsie. I lupi erano coperti da un panno; pareva si fossero camuffati così per divertirsi, in assenza dei padroni; ed una testina di marmo, pallida dietro una palma immobile, sorrideva silenziosamente.
Regina camminò piano per abitudine e si levò il cappello davanti allo specchio coperto da un velo; poi ricordò che erano soli, mise il cappello alla testina di marmo e rise forte.
— Taci, — disse Antonio, piano. — Non ridere così.
— E chi ci sente?
Egli aprì; ella lo seguì: attraverso i salotti entrarono nella sala da pranzo. Antonio procedeva con un certo riserbo, camminava in punta di piedi, non voleva che Regina ridesse.
— Se non è per far da padroni perchè mi hai fatto venire? — ella chiese. — Guardiamo se si può fare il thè.
— Sta ferma, — pregò Antonio, non voglio che il servo si accorga che ci siamo stati. Però, aspetta, qui ci deve essere del liquore, del Madera anzi. Oh, bene!
Egli aprì la credenza, trasse fuori una bottiglia ed assaggiò. Bevettero dalla bottiglia, per non sporcare i bicchierini, poi rimisero tutto a posto.
Parevano due bambini. Antonio diventò allegro, e senza però far troppo chiasso cominciò anch’egli a divertirsi. Ritornarono nel salotto e Regina aprì un po’ le imposte: una luce verdognola illuminò un angolo. Regina tinse di dare un ricevimento, imitò la voce della bella signora cieca, poi si abbandonò mollemente sul divano preferito da madame, un divano coperto di pelliccia grigia che dava l’idea d’un enorme gatto addormentato.
Nella penombra verdognola, col suo vestito morbido, coi capelli sulla fronte, con gli occhi alquanto ardenti e cerchiati, ella pareva davvero una gran dama un po’ annoiata, un po’ smarrita dietro un sogno morboso.
Antonio intanto cercava di aprire il balcone chiuso a chiave, dal quale si scendeva in giardino.
— Aspetta un momento, — ella disse. — Andiamo sopra, ora. Ci sei mai stato tu, sopra?
— Io mai.
— Vieni qui; lascia chiuso ancora.
Egli si ostinava a cercare la chiave.
— Vieni, chè ti dico una cosa, — ella disse infantilmente. — Cosa? Non trovo la chiave.
Quasi indovinando le idee di lei, egli non accorreva al richiamo.
Allora ella sentì divampare il dubbio reo che la perseguitava. Sì, in quel salotto, forse seduto su quello stesso divano, Antonio aveva macchiato le sue labbra di baci abominevoli.
Ella si morse l’angolo del labbro superiore per reprimerne il fremito, poi si alzò e si avviò verso il salotto attiguo.
— Andiamo di qua; lascia chiuso...
Egli attraversò il salotto, le fu vicino: allora Regina, quasi felinamente, gli si abbandonò sul petto e lo baciò. Illusione della luce? Le parve che il volto di Antonio diventasse verde, e credette intuire il dramma svolgentesi nel cuore di lui. Sì, egli doveva in quel momento ricordare qualche cosa di nauseante: un abbraccio e dei baci che gli avevano marchiato l’anima con segni di infamia. Baciare lì, in quel luogo, le labbra di sua moglie, doveva essere per lui un castigo.
Ma il delirio di lei cresceva.
— Baciami! — impose ad Antonio, fissandolo con gli occhi pieni d’una fiamma tragica, ed attirandolo verso il divano. Realmente egli resisteva, pur baciandola, con le labbra ancora dolci di madera. Allora Regina, tutta invasa dalla follìa del suo dubbio, pensò che era giunta l’ora di strappare il losco segreto da quelle labbra, i cui baci le davano un dolore mortale, in quel luogo ove forse ogni oggetto ricordava ad Antonio il suo miserabile errore.
Ma non potè formulare la domanda odiosa.*
Dopo penetrarono nello studio e nella biblioteca, ove di solito Antonio passava l’ora del suo servizio, come egli lo chiamava. Era una vera biblioteca, con migliaia di volumi rilegati artisticamente. Madame aveva già fatto vedere a Regina alcuni libri antichi, un codice alluminato, un autografo acquistato come autentico dell’Ariosto, alcune lettere di autori celebri, fra le quali tre di George Sand. E Regina, pur trascinata dai suoi torbidi pensieri, si divertì a guardare attraverso i cristalli delle librerie, come i monelli guardano nelle vetrine, mentre Antonio si chinava istintivamente ad osservare, senza toccarle, alcune carte sparse sullo scrittoio ove di solito egli sbrigava la corrispondenza della principessa.
Volgendosi vide che Regina era già penetrata in un salottino attiguo, un salottino particolare dove spesso madame Makuline usava anche pranzare: egli la seguì; ella aprì l’uscio e si trovò in una grande anticamera che comunicava col giardino. Una scala di servizio conduceva al primo piano, e Regina, sempre seguita da Antonio, salì. Ma tutti gli usci erano chiusi a chiave: restava aperto solo l’uscio di uno stanzino da bagno, nella cui vasca rimaneva ancora un po’ d’acqua azzurrognola di sapone.
Senza dimostrarlo Regina osservava Antonio, ma dal modo incerto con cui egli procedeva, le sembrava tutt’altro che pratico della casa.
— Vorrei almeno attraversare quella specie di ponticello che unisce le due parti del villino, — diceva Regina, scuotendo gli usci del pianerottolo.
Ma tutto era chiuso: allora, ritornarono giù e scesero nella cucina. Dall’alto, della finestra la cui inferriata era a metà coperta da un ciuffo di verzura, penetrava la luce dorata del pomeriggio. Si scorgeva lo sfondo del giardino fiorito, e qualche petalo di rosa era caduto sul pavimento lucido, e sulla tavola di marmo che stava nel centro della cucina.
— Sembra una chiesa! — disse Antonio ridiventato allegro. — Balliamo un po’?
— È più bella del nostro salotto, — aggiunse Regina. — Fa il piacere, sta fermo.
Ma egli la trascinava con sè, strisciando attorno alla tavola.
Un magnifico gatto nero, che dormiva sopra un buffet, sollevò la grossa testa rotonda, aprì gli occhi gialli e guardò senza muoversi i due importuni. Ma Regina trasalì.
— Come siamo sciocchi. — disse. — E se il cameriere torna e ci trova qui? Mi sembra udire dei passi nel giardino: andiamocene.
Ma Antonio, sempre più allegro, si mise il grembiale del cuoco, finse di cucinare e parlò male della padrona come dovevano parlarne male i domestici. Arrivò a dire che madame era una spia del governo russo.
Regina ascoltava e rideva, ma pensava che là dentro forse si conosceva e si comentava il segreto di cui ella non riusciva a squarciare il sucido velo. L’allegria di Antonio la irritava, ed un incidente aumentò il suo cattivo umore. Il gatto continuava a guardarla, e di tanto in tanto sbadigliava forzatamente con un’ostentazione quasi ironica. Ella s’avvicinò per accarezzarlo, ma l’animale saltò su una mensola vicina e rovesciò un vasetto.
Grosse goccie d’olio, gialle dense, piovvero sull’abito di Regina, macchiandolo irreparabilmente.
Ella per poco non pianse di rabbia: parole insensate le uscirono di bocca.
— Oh, anche il mio abito si macchia, in questa casa!
Antonio accorse ma parve non capire: trovò la bottiglia della benzina e aiutò sua moglie a pulirsi il vestito. Poi rimise tutto a posto, prese Regina per la vita, la costrinse a correre, la spinse su su per la scaletta, facendola inciampare, sordo alle proteste e alle cattive parole di lei.
Così penetrarono nel giardinetto, e Regina si rasserenò.
Il sole calante indorava metà del giardino; l’altra metà restava nell’ombra; il vento passava in alto, sulle cime dei lauri inghirlandati di roselline bianche: di tanto in tanto una pioggia di foglie di rose, di tiglio e di glicinie turbinava nell’aria calda e cadeva sui viali. Regina e Antonio sedettero in un angolo verde, accanto a un’erma sulla quale una testa arcaica, che pareva d’uomo e di donna nello stesso tempo, aveva come un sorriso sarcastico e compiacente.
— Ci crederà due amanti, — disse Regina, rimarcando per la prima volta l’espressione di quel viso scuro. — No, cara mia, siamo invece due nemici.
— E perchè? — disse Antonio, con voce fredda. Allora un ricordo balzò nella mente di Regina.
— Ti ricordi, una volta siamo stati nel bosco, due anni fa, quando tu... sei venuto a prendermi... C’erano tante farfalline violette, come queste foglie...
E rise, furbescamente. Altro, se egli ricordava! E il ricordo di quell’ora passata nel mistero del bosco umido e caldo, l’indomani del suo arrivo al paese di Regina, dopo la fuga di lei, parve ridestargli un impeto di passione fosca. Dalla letizia infantile che poco prima lo rallegrava, passò ad una tenerezza nervosa: e questa volta fu egli a cercare le labbra di sua moglie, con un bacio che a lei ricordò i baci d’allora.
E il dubbio la tormentò più forte.
*
Verso il tramonto rientrarono nel villino, ma non se ne andarono ancora. Vagarono pei salotti, abbandonandosi a giochi e stravaganze infantili: si rincorrevano al buio, e Regina si divertiva a disordinare dei mobili che Antonio rimetteva a posto.
A momenti però, si riabbandonavano alle loro dolci carezze d’amanti: il caldo del tramonto primaverile accendeva il sangue di Antonio; e d’altra parte Regina provava un piacere perverso nel godersi la tenerezza del suo giovane marito là, in quel luogo ov’ella sospettava che egli avesse macchiato la purezza del loro amore.
Un veleno ardente le ribolliva nell’anima. Quando Antonio la baciava e sussultava ai baci insoliti di lei, ella fissava gli occhi quasi deliranti negli angoli bui, nella luminosità vaga degli specchi velati, domandandosi che cosa quegli specchi avevano veduto... E le pareva che, a sua volta, il fantasma della «vecchia luna», della compratrice di baci, fosse là, nell’ombra di qualche angolo, e si rodesse di gelosia e di rabbia vedendo Antonio dare a sua moglie baci, uno solo dei quali tutti i suoi milioni non sarebbero bastati a comprare.
Con tutto ciò un fiotto di disgusto le saliva sempre più amaro dal profondo del cuore. Disgusto per sè e disgusto per Antonio.
— Egli deve essere anche molto cinico, — ella pensava, — se per far piacere a me s’indugia così in questi luoghi che conoscono la sua colpa... Se però è colpevole!
Ma in fondo, nelle profondità più buie e misteriose della sua anima, Regina sentiva una acre soddisfazione nell’accorgersi quanto quell’uomo fosse cosa sua. Sempre e dapertutto, anche nell’errore, era lei che lo dominava. E per questo, al di là di ogni rancore e di ogni disgusto, anche quando sentiva di non amare più suo marito, anche quando, come in quel giorno, disprezzava sè stessa sembrandole di macchiarsi come il suo vestito, di corrompersi nell’aria odorosa, nella penombra e nel tepore morbido di quella casa ove tutto pareva incitare alla mollezza, ella provava una infinita pietà di Antonio. E viveva di questa pietà.