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I.
La sera del Natale ortodosso Regina ed Antonio andarono dalla principessa. Li accompagnava una piccola signorina bionda, modestamente vestita di nero. Era Gabrie, la figlia del maestro, che aveva raggiunto il suo sogno di frequentare la Scuola di Magistero.
Coraggiosamente, da due mesi ella viveva di studio e di privazioni, in una cameretta in via San Lorenzo, presso la famiglia d’un suonatore ambulante, il quale un tempo era stato organista nel paese di Regina.
Per dire il vero ella aveva rifiutato l’ospitalità offertale dai Venutelli; solo frequentava la loro casa, si lasciava qualche volta condurre a teatro, e quella sera aveva accondisceso di recarsi da madame Makuline, così, per curiosità più che per altro. Voleva veder da vicino una ricca signora e descriverla poi alla sua amica nobile di Sabbioneta. Ingenuamente, o ironicamente (Regina non riusciva ancora a capire se Gabrie era ingenua o maligna) diceva:
— Voglio far stizzire quella signorina; le ho già mandato delle cartoline illustrate con fotografie della caccia alla volpe: la caccia alla volpe, sopratutto, gli automobili e le grandi dame, ecco gli ideali di quella ragazza. Ella, disse quella ragazza con disprezzo e compassione.
— E di tante altre! — disse Antonio, come fra sè.
Egli precedeva di pochi passi le due amiche, e pareva assorto nei suoi pensieri, tutto rigido ed elegante entro un larghissimo raglan nero.
— Vuol dire per me? — chiese Gabrie, dopo un momento di silenzio. Poi, subito, senza attender risposta, anzi quasi pentita della domanda, aggiunse: — Dio mio, non le pesa quel paltò, signor Antonio? C’è il professore di storia che ne ha uno simile, e le mie compagne dicono che quando egli va fuori, dopo un po’ devo tornare a casa per riposarsi, tanto il paltò gli pesa.
— Oh, oh, — disse Antonio distratto.
Arrivarono davanti al villino Makuline. La sera era tiepida, calma; lo splendore azzurrognolo della luna piena vinceva la luce dei fanali. La via era deserta: Regina ricordò la prima volta che era andata da madame, e sospirò e sorrise, senza saper perchè.
La gran porta lucente si aprì: il domestico non sorrise, tuttavia il suo viso pallido impassibile s’illuminò amabilmente alla vista dei nuovi venuti.
— C’è molta gente? — chiese Antonio, mentre il domestico aiutava Regina a levarsi il mantello.
— Poca, — rispose a voce bassa il giovinotto.
Regina guardava Gabrie; Gabrie, dopo aver dato una rapida occhiata ai lupi dell’ingresso, guardava alla sfuggita il cameriere; il cameriere portò le mantelline delle signore in un salotto attiguo, ed Antonio aprì famigliarmente l’uscio a destra.
— Aspetta, — disse Regina, che si accomodava i capelli davanti allo specchio. Era ben pettinata, rosea, un pochino ingrassata. L’abito chiaro, dal colletto alto di crespo bianco, la rendeva giovanissima e quasi bella. Ella se ne accorse ed entrò tutta soddisfatta nel salotto della principessa.
— Come sta la piccina? — le chiese subito madame.
— Benissimo, grazie. Le presento la mia amica.
Gabrie chinò la testa davanti alla principessa che le badò appena; poi sedette nell’angolo di un divano, e stette là tutta la sera, tranquilla, timida e silenziosa.
Le solite vecchie signore e i soliti vecchi gentiluomini animavano il salotto, intensamente riscaldato.
Una signora bionda, l’unica che non fosse troppo vecchia, vestita d’azzurro come una bambina, con due grandi occhi chiari, dalle lunghe ciglia d’oro abbassate, stava seduta vicino alla principessa, intorno alla quale facevano corona altre due vecchie e tre vecchi, fra cui il signore dal cranio di porcellana rosea.
Madame taceva e tendeva l’orecchio ai racconti di un signore tedesco, reduce appena dall’India: ancor più grassa, più pallida, più cascante del solito, col suo goffo abito di velluto nero guarnito di merletti bianchi, ella pareva una di quelle tante vecchie dame medioevali la cui bruttezza è immortalata dai grandi pittori dell’epoca: solo gli occhi vivevano nel suo viso di cadavere gonfio. La signora vestita d’azzurro chiese al tedesco se aveva letto gli articoli di Pierre Loti sull’India (senza gli inglesi) apparsi sulla Revue des deux mondes.
— Esagera, al solito. Il seppellimento, chiamiamolo così, dei cadaveri nel Gange, a legger Loti parrebbe un poema. Invece è una gran...
— Una gran saleté — disse Marianna sedendosi poco distante da Gabrie, e parlando piano per non essere udita da madame, la quale le rimproverava spesso il suo linguaggio poco corretto.
Gabrie, che dalla sua amica nobile aveva appreso come le grandi dame non dicono mai brutte parole, guardò un po’ Marianna, poi abbassò ancora gli occhi, tranquilla e quieta nel suo cantuccio.
— Ma tutte le cose di Loti son false, — disse ancora il tedesco. — Una scrittrice giapponese, madame Ciansahma, mi disse un giorno, che quando vuol divertirsi legge un libro di Loti.
— Ma anche noi ridiamo quando madame Ciansahma ci scimmiotta, camuffandosi da signora europea, — disse la signora vestita di azzurro.
— Come mai può accorgersi di quello che fa madame Ciansahma? — domandò piano Marianna, sporgendosi un po’ in avanti.
Anche Regina, seduta a fianco di Gabrie, si sporse alquanto e accennò con gli occhi la signora bionda.
— È cieca, non è vero? — domandò.
— Perfettamente cieca. Del resto, — soggiunse subito Marianna, — qualche volta i ciechi vedono più di chi ci vede.
Gabrie, rigida e tranquilla fra le due giovani signore, guardava e ascoltava. Tutti parlavano, ella sola taceva, tutta piccina, bionda e bianca nel suo vestitino nero: oggetto della sua attenzione divenne specialmente la signora cieca, che si muoveva e parlava continuamente.
Anche la principessa parlava più del solito. Antonio, bellissimo ma serio oltre il necessario, chiaccherava con una vecchia signorina che aveva una mezza parrucca bionda su un residuo di capelli rossi. Brani di frasi, parole, risate, giungevano fra il brusìo generale fino all’angolo dove stavano Regina, Gabrie e Marianna.
— Sapete la storia di quella signora? — chiese Marianna. — Ha tentato di uccidere il marito, così cieca, perchè è stato lui la causa della sua infermità.
— Come?
— Ve lo racconterò poi; ora vado di là...
Balzò in piedi e s’avviò, con un gran fruscìo di sottane; ma ad un tratto si volse, tornò verso Regina e le disse:
— Ho visto la vostra bambina con quel demonio della balia. L’ho fatta ancora arrabbiare, quel donnone; le ho detto che fra giorni avremo il terremoto.
— Sì, lo so, — disse Regina, sollevandosi e ridendo. — Ed ora ha paura.
— Ha paura? Non le guasterà il latte? — chiese l’altra, seria. — Davvero, però, ho letto che avremo il terremoto.
— Davvero? — disse finalmente Gabrie. — Che piacere!
Marianna la guardò e solo allora parve accorgersi di lei. Domandò a Regina:
— È vostra parente, la signorina? — Un po’.
— Si vede. Ma, Dio mio, io mi dimentico...
Fece un altro salto, s’avviò; poi si volse e si avvicinò ancora a Regina.
— Oh, volevo dirvi una cosa, signora: venite di là, ve là dirò di là... Come siete elegante, stasera! Fate proprio al mio caso...
— Che c’è?
— Venite di là, — disse Marianna, prendendola per la mano.
— Vieni anche te, Gabrie.
La piccola bionda si mosse per alzarsi; ma subito pensò che forse Marianna voleva dire a Regina qualche cosa in segreto, e pregò di lasciarla lì.
— Ti annoi? — chiese Regina.
— No, davvero! — ella esclamò. — Va.
Regina uscì ma tornò poco dopo e pregò Gabrie di seguirla nella sala da pranzo, ove Marianna serviva il thè. In piedi, attorno al tavolo coperto di vassoi, i signori e le signore bevevano e mangiavano. Marianna, seduta davanti al samovar, versava nelle tazzine giapponesi, fini e trasparenti come fiori, il thè rossastro fumante; Antonio portava le tazze alle signore.
Ne porse una anche a Gabrie, rimasta dietro la principessa che parlava in tedesco col signore reduce dalle Indie: e la fanciulla gli sorrise col suo sorriso ancora infantile.
— Si diverte? — chiese Antonio.
— Sì. Molto. Sebbene non capisca tanto quel che dicono. Anche Regina parla francese: lo parla bene.
Antonio guardò sua moglie, così bianca, delicata, elegante. Regina s’accorse che egli la guardava; s’avvicinò e domandò:
— Perchè mi guardavi?
— Oh, bella, non posso guardar mia moglie? Sei però un po’ pallida; eri più rosea quando siamo venuti: cos’hai?
— Io? Niente. È vero che son pallida, Gabrie?
— Un po’, ma stai bene così; sei più bella... — rispose Gabrie.
— Oh, grazie!
— Sei la più bella di tutte, — riprese la fanciulla, guardandosi attorno. — Non è vero, signor Antonio?
— La più bella e la più elegante.
— Volete confondermi, voi! — disse Regina. — Siete due adulatori, ecco che cosa siete!
— S’è ingrassata, però. Regina, non è vero? — chiese Antonio, rivolto a Gabrie. — Si ricorda com’era magra, prima? Oh, Dio, com’era brutta!
— Grazie, caro! — disse Regina, con le labbra umide di thè.
— No, non era brutta. Era magra, sì. Ma anche quando venne lassù, l’anno scorso, era ancora così magra! E verde, era. E sempre di malumore, ti ricordi? Aveva paura che lei la tradisse! Stava sempre ad aspettare il portalettere...
— Come? Chi te lo ha detto? — chiese Regina, meravigliata.
— Io me ne sono accorta! Poi quando giunse il signor Antonio...
— In verità, se davvero vuoi farti scrittrice non ti manca lo spirito di osservazione, cara mia...
I Venutelli e Gabrie chiacchieravano poco distanti dalla principessa. Ad mi tratto questa si volse verso di loro. Teneva fra le piccole mani coperte di brillanti un piattino e un forchettino d’argento; mangiava lentamente, anzi ruminava una fetta di torta; un pezzetto di cioccolatte le era rimasto sopra il labbro superiore e pareva un neo deforme. Mai ella era apparsa più brutta.
— La signorina è di Viadana? — chiese guardando Antonio e accennando Gabrie col forchettino.
— No, è del mio paese, — rispose Regina, guardando con affetto la fanciulla. E le parve che il piccolo viso di Gabrie esprimesse un invincibile disgusto.
*
Passarono i giorni, passarono i mesi.
Una mattina, svegliandosi, Regina vide un filo d’oro attraversare l’angolo della camera, dalle imposte socchiuse alla parete azzurrognola. Era il sole che batteva alla finestra.
Nel silenzio della casa si sentivano tintinnare i vetri, scossi dal roteare d’una vettura nella via.
Regina sentì che la primavera era arrivata, e ne provò una gioia profonda. Il tempo passava, passava; ed ella non se ne accorgeva, tanto credeva di esser felice. Qualche volta aveva paura; la sua felicità le pareva un’illusione: ed anche quella mattina, dopo la gioia provata nel rivedere il sole alla finestra, ella guardò Antonio, che dormiva ancora, e pensò:
— E se egli fosse morto? Io, o lui, o Caterina, possiamo morire da un momento all’altro; questa grande luce che mi illumina l’anima può spegnersi da un momento all’altro...
Si sollevò alquanto e guardò il marito. La bella testa, immobile sul cuscino, illuminata dalla mezza luce dorata della finestra, aveva una purezza rigida di statua. Sulle grandi palpebre chiuse si scorgevano le vene azzurrognole; su tutto il viso era una impronta di dolcezza.
La notte prima egli era rientrato tardi, più tardi del solito; poichè quasi tutte le notti rientrava tardi. Ma Regina non era gelosa. Egli lavorava tutto il giorno, con un’attività quasi febbrile: solo alla sera poteva divagarsi, camminare, vivere per conto suo: e Regina non gli chiedeva conto di quelle ore. D’altronde egli le raccontava sempre dove era stato.
V’erano dei giorni in cui si vedevano appena alla mattina, quando si svegliavano; e qualche volta, anzi, se si svegliava un po’ tardi, Antonio doveva balzare subito dal letto, lavarsi in fretta, prendere il caffè e correre all’ufficio.
Con tutto ciò, o forse per ciò, la vita coniugale scorreva limpida e tranquilla come un ruscello limpido e tranquillo.
Balia, che raccontava sempre di aver vissuto anni prima presso due sposi che si bastonavano anche stando a letto (... e quando volevo far la paciera le prendevo anch’io, mannaggia al paolo!) diceva spesso:
— Ma così non può andare, padrona! Si bisticci un po’, col padrone, altrimenti vedrà che accadrà una disgrazia!
— Crepi l’astrologo!
— Mi lasci prima finire di allevare questa pupetta: guardi quant’è carina!*
Antonio si svegliò, e ancor prima di aprire gli occhi sentì che Regina lo guardava e le sorrise.
— Dev’esser tardi! — disse, accorgendosi anch’egli del raggio di sole.
— No, è il sole che comincia a visitarci; son le otto meno un quarto. Faccio portar la bambina?
— Aspetta, — egli implorò. — Fammi prima un abbraccino. Non ci vediamo quasi mai.
Egli si avvicinò e l’abbracciò, rannicchiandosi tutto contro di lei come un bambino. Ella lo baciò sulla fronte liscia, sui capelli che emanavano sempre quel profumo speciale di fiori secchi; e sentendolo così tutto suo, dolce e tenero, così giovane, così bello, così confidente, ne provò una tenerezza intensa che rasentava la sofferenza. Rimasero così abbracciati per parecchi minuti, nel silenzio, nella penombra della camera tiepida e azzurrognola.
Fuori la via s’animava, ma i rumori avevano una vibrazione soave, quasi sfumati nella serenità intensa dell’aria.
— Chissà perchè, — disse Antonio, — provo una impressione come se ci trovassimo coricati in un bosco. Ho ancora sonno; dormirei così chissà fino a quando.
— È la primavera, — disse Regina. — Anch’io rivedo il bosco e attraverso il bosco il fiume, e tanti fiori.
— Vai al Pincio, oggi?
— No; vado a trovar Gabrie che è a letto da tre giorni, povera, figliuola. Antonio non disse niente: egli non chiedeva conto a sua moglie di ciò che faceva quando usciva, come ella non lo chiedeva a lui. Ma per associazione d’idee egli in quel momento dovette ricordarsi che Regina voleva andar al suo paese in giugno, perchè domandò:
— Quando fa gli esami?
— Chi, Gabrie? In luglio, credo.
— Allora non partirete assieme, come diceva l’altra sera.
— No.
Tacquero. Tanto tempo era trascorso, tante cose s’erano mutate, altre due volte Regina era partita e ritornata, e il capriccio della sua prima partenza sembrava oramai un capriccio d’infanzia, lontano, velato dagli avvenimenti; eppure ogni volta che parlavano di partenza, anche se ciò, come in quella mattina, avveniva nei momenti più dolci ed intimi della loro vita, i due giovani si sentivano imbarazzati, separati, buttati via lontano l’uno dall’altra da una forza strana. Ma ciò durava poco. Quella mattina poi la primavera batteva alla finestra; era tempo di sole, non di nuvole, e Regina e Antonio erano troppo giovani, troppo sani, troppo amanti per non dimenticare, come gli uccelli, il recente inverno e cantare un inno di letizia. Egli la chiamò la sua Reginotta, e le prodigò, senza avarizia, mille aurei nomignoli: ella lo adulò, in buona fede del resto, dicendogli che era il più «bell’omino del mondo».
Dalla parete l’occhio di sole pareva guardasse placido e compiacente.*
Regina accompagnò la balia e la bimba al giardino della stazione, poi andò a trovar Gabrie. Le portava un libro, un mazzolino di viole e un pacchettino di biscotti, e camminava agile e lieta, con l’illusione in cuore di andar a fare un’opera, di carità. Guardò l’orologio della stazione: segnava le dieci. Nell’aria, così immobile che gli alberi dei viali non avevano un fremito, passava un profumo di narcisi e d’erba: nello sfondo, dietro la stazione, le montagne in colore di fior di lino si delineavano appena, come attraverso una trasparenza di lago.
Un venditore d’uccelli precedeva Regina di pochi passi; e la festa della primavera era così intensa e invadente che persino i piccoli passeri ancora senz’ale, i pettirossi macchiati di sangue, i canarini gialli come giunchiglie, entro le due gabbie dondolanti tenute dall’uomo melanconico, pigolavano di gioia. Regina ebbe la idea di comprare un passerino per la bimba; ma che ne avrebbe fatto Caterina? L’avrebbe soffocato senza neppure divertirsi. No; Regina non voleva abituar la sua bimba a dei piaceri inutili, a dei capricci crudeli. «Ma, pensò, comprando l’uccellino, do un momento di gioia a questo venditore melanconico, che oggi non deve ancora aver venduto».
— Ma no, — pensò poi, — perchè mi pare sia melanconico quest’uomo? Forse anch’egli è felice. Siamo noi che amiamo figurarci che il nostro prossimo soffra, mentre spesso è più felice di noi. Un tempo tutta la gente mi sembrava infelice; ora... ora mi accorgo che allora mi ingannavo.
*
La primavera penetrava persino nel casone ove abitava Gabrie; le scale che Regina aveva già visto umide, viscide, fangose, erano asciutte; i pianerottoli puliti; per una porta spalancata si scorgeva un andito col pavimento lucente. La gente povera, dal primo piano che rappresentava il lusso d’un ufficiale di scrittura, al quarto piano abitato dall’ex-organista decaduto fino a suonatore ambulante, aveva pulito la casa per ricevere la Pasqua tiepida, la nemica del nemico dei poveri: il freddo. Regina provava una strana impressione di piacere nel sentire la sua sottana di taffetà verde frusciare nel silenzio della scala. Ella non pensava alla sua sottana di seta, come in quel momento non ricordava precisamente il benessere della sua vita, le poche scale bene illuminate della sua abitazione, i suoi due salotti, i libretti della Cassa di risparmio, l’abbonamento al Costanzi; ma la certezza del possesso di tutte queste cose le rallegrava il cuore, e la rendeva un po’ sentimentale. Le pareva d’essere una signora; le pareva di salire, tiepida di sole come la Pasqua, col mazzolino di viole in mano, portando il soffio della primavera su quella scala della casa dei poveri, dei lavoratori, degli studiosi, degli sfruttati. Avrebbe voluto lasciare una violetta sulla soglia di ogni appartamento; ricordava di aver veduto un giorno uscire dal n. 8 un giovine studente anemico dalle labbra grigie e gli occhi pallidi come due giacinti sciupati, stretto in un soprabito consunto ma pulitissimo; e desiderò incontrarlo ancora per salutarlo e fargli così capire che ella amava i poveri, un tempo da lei tanto disprezzati.
Ma il giovine non uscì, ed ella continuò a salire fino a una porta, sulla quale un cartoncino fissato con quattro bollette annunziava ai visitatori che l’appartamento aveva la fortuna di ospitare:
ex-organista e orfeonista
maestro di violino
Questo cartoncino non impressionò Regina, che lo conosceva già. Ella era stata parecchie volte da Gabrie, anche perchè il padre della studentessa le aveva scritto pregandola di «scrutare se l’ambiente era equivoco e pericoloso, come si diceva fossero tutte le abitazioni del quartiere così detto di San Lorenzo».
Aprì la porta la signora Colorni, una donnina con una cuffia nera e un paio d’occhiali turchini, che pareva una bimba mascherata da vecchietta: non riconoscendo subito la visitatrice la lasciò entrare con una certa diffidenza infantile; ma Regina le fece odorar le viole e le disse in mantovano:
— Non mi riconosce? Come sta Gabrie?
La donnina, convalescente da un tifo che l’aveva lasciata calva, muta e quasi cieca, sorrise dolcemente, e si scostò.
Regina penetrò senz’altro nell’appartamento; attraversò l’andito pulitissimo, dove si spandeva un grato odore d’arrosto; entrò nella stanzetta da pranzo, la cui finestra socchiusa era velata da una tendina di crespo giallognolo, e per l’uscio aperto vide che la cameretta di Gabrie, appena riordinata dalla signora Colorni, era vuota.
Si volse; la muta sorrise ancora attraverso i suoi occhiali azzurri e scosse una mano verso la finestra.
— Come, è uscita? Ma se mi scrisse che era a letto malata? — chiese Regina, entrando nella cameretta.
La donnina scosse la testina camuffata, tossì e si toccò la fronte, per significare che veramente Gabrie era stata malata; ma poi sorrise ancora, accennò di nuovo la finestra, prese una sedia e la pose davanti a Regina.
— Tornerà presto? Dov’è andata?
La donnina prese una busta dal tavolino di Gabrie e l’avvicinò alla parete.
— A impostare una lettera? Sì? Siedo un po’ perchè sono stanca. E il signor Ennio?
La donnina sorrise ancora, fece l’atto di suonare un violino, poi aprì le braccia forse per significare che il marito era lontano, e che il suo strumento parlava teneramente a qualche coppia di sposi tedeschi, in quell’ora di sole, nella poesia di un’osteria suburbana animata di galline e fiorita di peschi rosei.
Regina sedette; la donnina andò via.
Per qualche momento un silenzio profondo regnò nell’appartamentino pulito, pieno di pace e d’odor d’arrosto: la cameretta di Gabrie, con la carta gialla a fiori rosei, il lettuccio bianco, il tavolino coperto di libri e di quaderni, la finestra aperta sul cielo d’un azzurro perlato, diede a Regina l’idea d’un nido in cima ad un pioppo. Sì, la vita era. bella anche pei poveri. Tutto era relativo. Quel suonatore ambulante che alla sera portava due, tre e qualche volta persino cinque lire alla mogliettina muta e laboriosa, e trovava la casetta pulita e un buon arrosto di abbacchio, era felice più di molti milionari!
E Gabrie coi suoi sogni e il suo coraggio, che doveva veder la vita davanti a sè, pura e luminosa come quello sfondo di cielo della sua finestra, chissà quanto era felice!
— La felicità è in noi non nelle cose che ci attorniano, — pensò Regina. — Chissà! Un tempo io mi credevo infelice perchè abitavo al quinto piano, in una casa che tuttavia era nel quartiere dei benestanti; ora mi pare che sarei felice anche qui, in questa casa dei poveri, alle porte del regno dei più miserabili.
Ma Gabrie non tornava. Tanto meglio s’era guarita. Regina guardò il suo minuscolo orologio; erano le dieci e mezza: poteva aspettare ancora un momento.
S’alzò e s’avvicinò alla finestra: a destra, a manca, in alto, quel cielo abbagliante; sotto, la linea ferroviaria, le case immense, gialle al sole; il palpito enorme di un treno lontano, lembi di verde, il soffio indefinibile della primavera e della vita.
E tutto era bello.
Gabrie non tornava; Regina si levò dalla finestra e s’avvicinò al tavolino, per deporvi le viole che teneva ancora in mano. La sua sottana frusciava forte nel silenzio della cameretta. Sì, tutto era bello, e specialmente quel tavolino sparso di quaderni e di cartelle che rappresentavano l’essenza, il sogno, l’orma di un’anima limpida e profonda come uno specchio. Regina prese in mano un quaderno aperto.
Ricordò che un tempo ella aveva avuto l’idea di farsi scrittrice; non era riuscita mai neppure a scrivere una prima parola su un primo quaderno. Dove sarebbe arrivata Gabrie? Più lontano di Arduina, speriamo! Regina pensò in quel momento ai parenti di Antonio; spariti, o almeno impalliditi, nella sua vita, come figure che appaiono nei primi capitoli d’un romanzo, e poi non trovano più opportunità di ricomparire. Regina lasciava che Balia portasse la bimba dalla nonna, e ascoltava Antonio quando egli parlava dei suoi; ma ella vedeva di rado i parenti, e benchè oramai li considerasse nè più simpatici, nè più antipatici di mille altre persone che aveva incontrato e che l’avevano lasciata indifferente, non poteva vincere un senso di rancore quando si trovava con loro.
Ma perchè pensava a loro in quel momento, sfogliando il quaderno di Gabrie? Cercò la concatenazione delle idee. Ecco. Confusamente ella aveva pensato che se Antonio, invece di condurla dai suoi parenti in quell’appartamento odioso, ingombro di oggetti e di figure antipatiche a guisa di un quadro brutto e mal fatto, l’avesse condotta in un appartamentino silenzioso e luminoso, anche se umile come quello dell’ex-organista, ella non avrebbe sofferto durante la luna di miele.
Depose il quaderno, ne prese un altro; in quest’attimo le sue idee mutarono aspetto, come nuvole spinte dal vento.
— No; avrei sofferto forse di più: dovevo soffrire, passare attraverso una crisi. Credo la passino tutte le spose intelligenti. Ed ora... ora m’è facile veder tutto bello perchè sono felice, perchè la mia vita è facile.
— Oh!
«Signorina sedicenne, nobile, anemica, di famiglia decaduta. Ipocrita, vana, invidiosa, ambiziosa, sa nascondere i suoi difetti sotto una dolcezza fredda, apparentemente naturale. Parla sempre dell’alta aristocrazia. Qualcuno le ha detto che sembra una vergine del Botticelli e da qualche giorno assume delle arie estatiche e sentimentali. Ciò non le impedisce di essere ignobilmente innamorata di un pittore d’insegne...»
Regina ricordò con che entusiasmo il maestro aveva letto alla signora Caterina un brano di questa figurina tracciata da Gabrie; rivide il salotto invaso dalla luce del crepuscolo ardente, le nuvole che viaggiavano come uccelli violacei, su nel cielo verdognolo, giù nel fiume verdognolo...
— Senta, senta che spirito di osservazione: è il tipo d’un futuro racconto, cara signora Caterina. La mia Gabrie raccoglie, raccoglie: vede un tipo, l’osserva, lo raccoglie. È come quelle buone massaie che mettono da parte tutto, perchè tutto è buono...
Il maestro parlava; ella lo compassionava: il maestro leggeva; ella riconosceva nella figurina tracciata da Gabrie con evidenza fotografica la signorina nobile di Sabbioneta. Il quadernetto di Gabrie era quasi tutto pieno di queste figurine. Regina lo sfogliò senza scrupolo, e nelle ultime pagine trovò tipi di professori, di studentesse, e quello di Claretta «civetta, isterica, corrotta» che pochi giorni prima Gabrie aveva incontrato da lei.
Era terribile, quella futura scrittrice; non era uno specchio, era un apparecchio Röntgen.
Regina continuò a sfogliare ed a leggere, ritta davanti al piccolo tavolo: una certa curiosità la pungeva.
«Giovane signora miope, bruna, tutta bocca e tutta occhi; intelligentissima, un po’ strana, un po’ enigmatica. Nobile decaduta, finge di non pensare al colore azzurro del suo sangue, e forse non ci pensa davvero; ma il suo sangue è azzurro, ed ella lo sente e vuol essere aristocratica. Ama il lusso, la gente ricca: ha sposato un marito povero ed è riuscita a fargli guadagnare molto...»
— Perdinci, questa sono io! — pensò Regina, che si divertiva ma provava anche una certa irritazione. — Mi tratta poco benevolmente questa ragazza. Che ha voluto dire con le ultime due righe?
Improvvisamente ricordò che un giorno Gabrie le aveva raccontato delle storie udite da altre signorine sue compagne di scuola.
— Ma è un focolare di maldicenza, il vostro magistero, — aveva protestato Regina.
— Un focolare? Un forno! — aveva risposto Gabrie.
«Scrittrice, alta, magra, gialla, piccoli occhi lattei, piccola bocca dai denti neri, capelli gialli, naso adunco. Fa compassione a guardarla, a sentirla: quando vede uomini fa anch’essa la civetta».
— Questa è Arduina: è bell’e ammazzata in tre righe! — pensò Regina.
Poi trovò Massimo, Marianna — «piccola, con visetto olivastro, maligno, occhietti neri: pretende di dire sempre la verità, ma uno scultore la intitolerebbe: statuetta di bronzo rappresentante la pazzia maligna», — la signora cieca, altre figure che frequentavano il salotto di madame Makuline, dove Regina aveva condotto parecchie volte Gabrie, e infine «una dama straniera; ricca: alta e grassa; capelli nerissimi, tinti: due grossa labbra d’un lividore pallido; piccoli occhi vivi e misteriosi come gli occhi d’un gatto cattivo. Non ride mai; più vecchia che giovane; è sorda, parla sempre d’una sua amica di George Sand. Tipo di donna sensuale: ha un amante giovane».
E subito dopo:
«Impiegato: segretario d’una vecchia principessa. È giovane, biondo, molto bello; alto, svelto: lunghi occhi affascinanti, bocca fresca, così rossa che sembra tinta. Carattere allegro. È buono, innamoratissimo della moglie; tuttavia è l’amante della principessa».