Memorie del presbiterio/XXIII
Questo testo è completo. |
◄ | XXII | XXIV | ► |
XXIII.
Le vendette del Sindaco non si fecero aspettare a lungo.
La domenica dopo ci fu riunione del Consiglio.
La seduta era stata annunziata con straordinaria solennità, come un cataclisma. Tutto il villaggio era preso dalla più viva ansietà. La mattina, in chiesa, era facile notare nell’uditorio una preoccupazione profonda.
Quando il curato si presentò all’altare tutti gli occhi si appuntarono sul suo viso come per esplorare i suoi segreti pensieri. Poi, durante la messa ed il sermone, continuarono degli strani bisbigli.
Anche don Luigi pareva meno calmo dell’altre volte: la sua voce era ineguale, il suo argomentare incerto.
Dalla tribuna dell’organo il Sindaco gli saettava delle occhiate d’odio inesprimibile. Il buon prete non guardava mai da quella parte, ma lo sentiva e se ne turbava sovente.
Fra quei due uomini si combatteva un formidabile duello: e pur troppo il Sindaco aveva il sopravvento.
Il dire che la bontà soggioga l’animo malvagio mi è sempre parso un luogo comune inventato dall’ottimismo. Nella realtà prevale il malvagio; l’uomo che non ha scrupoli è, alla pari, infinitamente più forte dell’uomo dabbene.
Finita la spiegazione del vangelo, il curato scese dal pulpito e attraversò la chiesa per rientrare in sacrestia.
La folla si divise riverente innanzi a lui e sorpresi in tutti quei volti un’espressione di timida, di dolorosa premura, un rammarico sincero di non poterlo proteggere contro le prepotenze di cui era minacciato.
Il Consiglio doveva, secondo l’uso, raccogliersi subito dopo il servizio religioso.
Fui spinto dalla curiosità a seguire la folla che scendeva per la via maestra.
Sulla piazzetta vidi parecchi crocchi di montanari che discorrevano a bassa voce.
In fondo, un edifizio a un solo piano, come gli altri, ma più vasto, costrutto di pietre irregolari: in mezzo alla facciata, un pezzo, largo un braccio quadrato, intonacato di calce su cui una filza di lettere nere di forme bislacche, ineguali, riottose al forzato allineamento diceva: Casa Comunale. Sovr’esse un quadretto di legno, appeso per un solo angolo, penzolava obliquamente: l’insegna dello Stato, l’onesta croce di Savoia, la quale, quasi vergognosa di coonestare le sciocchezze e le bricconate che da tanti anni si consumavano là dentro, pareva volesse lasciarsi andar giù dallo sconforto.
Fermo sul limitare della porta coll’aria corrucciata di un pedagogo o di un aguzzino aspettava il Sindaco i suoi Consiglieri.
Di quando in quando qualche vecchietto dai calzoni corti allacciati al ginocchio sovra le calze turchine, si staccava dai gruppi, attraversava lentamente la piazza, ed entrava con una visibile ripugnanza nella casa comunale tirando una grande scappellata alla prima autorità del paese, che non degnava rispondere. Ne contai una diecina.
Seguì un certo intervallo.
L’inserviente, come fido scudiere, pendeva dai cenni del suo padrone.
Il signor De Boni battendo il piede con impazienza, gli disse imperioso:
— Orsù va a sollecitare que’ poltroni.
E il cursore a galoppare in cerca dei ritardatori.
Il sindaco aspettava sempre.
Contemplavo da più d’un quarto d’ora quello spettacolo, novo per me, di rustico assolutismo e ne traevo delle considerazioni poco benigne per l’indipendenza e la dignità della razza umana. quando una mano sottile s’insinuò sotto il mio braccio.
Era lo speziale che mi sussurrò nell’orecchio:
— Venite con me vi apposterò in un luogo donde potrete intendere la discussione.
Mentre mi disponevo a seguirlo, lo scalpitio acuto di una cavalcatura si fe’ sentire sui ciottoli della strada.
Comparve un coso allampanato, le cui gambe lunghissime penzolavano ai fianchi del magro ronzino quasi fino a terra.
Era vestito con una certa pretesa cittadina mediocremente giustificata, ed aveva le tasche infarcite di cartaccie.
— È il segretario, mi disse il Bazzetta, un notaio di Zugliano; egli serve simultaneamente cinque comuni: un morto di fame che ci mangia duecento lire all’anno per metterci sossopra gli archivi municipali. Venite.
Mi trasse per un sudicio chiassolo in un sito dietro la casa del comune e quivi mi lasciò.
Erano poche tese di terra sul ciglio dell’altura. La valle si sprofondava quasi a perpendicolo sotto i miei piedi.
Sedetti sull’erba fitta e bassa.
Il sole schietto rivestiva le montagne nevose in fondo, riempiva l’orizzonte di sbarbaglio e di luccicori. Il torrente, striscia di argento fuso, solcava la valle.
Il cielo profondo, limpido, aveva le trasparenze del vuoto sterminato.
Incombeva sul paesaggio l’alta pace, il silenzio meridiano.
Quante grandezze innanzi a me! quanta miseria dietro le mie spalle in quella piccola topaia umana!...
Io non conosco spettacolo più imponente di un mare tranquillo, di un paesaggio sereno; la tempesta, l’uragano sono, se si vuole, più vivaci, come il dramma, ma la calma è l’inno d’un euritmia eterna.
In esse comprendo la venerazione delle antiche fedi per la natura: vi è nella natura mesta, immobile qualcosa di più augusto, di più solenne che non nel multiforme, convulsivo agitarsi delle plebi umane; in questo tutto è contingente, relativo; la loro potenza è un attimo, la bellezza una larva, il genio una scintilla; — l’attimo passa, la larva scompare, la scintilla si spegne, — rimane l’immutabile. L’imperituro, l’eterno, rimane il cielo, rimane il monte. Quando le religioni cadono, il panteismo le raccoglie nel suo seno.
Povero ed onesto campanile di Sulzena, col tuo gracile pinacolo roso dal tempo e dalle parietarie, coi tuoi nidi di colombi, coi tuoi squilli modesti non mi parevi in quel momento che un punto d’interrogazione lanciato nell’infinito, una domanda rivolta all’ignoto che non risponde.
La seduta era incominciata: un affannoso borbottio da formole legali veniva dalle finestre aperte della sala comunale a interrompere le mie riflessioni.
Quanto sperpero di preamboli, quanto apparato di autorità, di visti, di attesochè, di considerandi, di ritenuti, per uccidere la piccola gioia d’un uomo, per giustificare una piccola prepotenza e carpire il dominio di due palmi di terra infeconda!
Il segretario era asmatico, e, son sicuro, anche sdentato. La sua voce usciva a sibili ineguali e si raggomitolava in brontolii gutturali.
E dicono che la voce dell’uomo è il linguaggio dell’universo! Sarà, — in ogni caso non quella del segretario comunale di Sulzena.
Mentre si leggevano i documenti venuti dall’Intendenza, l’impazienza del Sindaco si tradiva con certi mugghi sinistri: si capiva che il messere si annoiava e avrebbe voluto andare per le vie più spedite.
Scommetto che egli imprecava in cuor suo alla Costituzione, la quale aveva l’impertinenza di imporre tanto formulario al suo volere.
Tutt’ad un tratto egli interruppe il segretario.
— Basta, basta, sappiamo tutti di che si tratta: io vi ho detto chiaramente che quel terreno appartiene al Comune, a noi: che i nostri vecchi hanno avuto la dabbenaggine di lasciarsene spossessare dal prete: quella gente là pensava colla suola delle scarpe: trovava naturalissimo che la chierica facesse il suo prò del bene di tutti, non sapeva respirare se l’aria non era benedetta. L’uomo inutile, il solo che non lavora e non guadagna, era allora il solo necessario: egli aveva i terreni migliori, gli armenti più pingui, le donne più belle....
Povero Don Luigi, — egli un uomo inutile! — egli la vera, l’unica previdenza di quel piccolo mondo, il solo consolatore, il solo conforto di quelle ignorate sofferenze!
Il sindaco proseguì:
— Tutto è cambiato adesso; noi abbiamo aperto gli occhi e sappiamo far di conto; i paternoster e i deprofundis non bisogna pagarli più di quel che valgono. Io rappresento il Re, io vi amministro e voi non mi date stipendio. Il prete rappresenta Dio che ha detto: il mio regno non è di questo mondo: con qual diritto il prete usurpa i terreni che non coltiva? Verrà tempo che gli daremo cento lire all’anno come all’inserviente.....
— E i poveri? domandò una voce fioca e tremula.
— I poveri, ribattè il sindaco stizzoso, i poveri... lavorino; vi dico che cento lire basteranno e saranno d’avanzo per farci battezzare e sotterrare. Intanto, sinchè non si fa la legge buona, cominciamo a levare gli abusi. Questo che abbiamo per le mani è uno. Noi abbiamo deciso di fare la strada al Fontanile per la Carbonaia: avete inteso che l’Intendente ha approvato il deliberato. So bene che c’è stato qualche semplicione a cui la volpe nera ha saputo inspirare degli scrupoli. Essi hanno protestato. Perchè hanno protestato? Ma! Hanno saputo addurre una sola ragione? Ah che! fandonie, scrupoli di mia nonna; c’è voluto un bel coraggio per mandare quegli spropositi a Zugliano. un bel coraggio! E cosa ci hanno ricavato? un bel fiasco fesso. Chissà cosa credevano di fare scrivendo all’Intendente. L’Intendente non ha nemmeno voluto occuparsene. Avete visto, ha mandato il ricorso a noi, perchè noi lo mettiamo nella carta straccia. Gli è ciò che faremo subito. Segretario, scrivete che il Consiglio «in odio ai reclamanti delibera» che?
L’ultimo monosillabo del signor De Boni era motivato da una osservazione del segretario. Intesi la sua voce, divenuta dolcereccia e untuosa a dire:
— Che il sor sindaco mi compatisca; ma la espressione non s’usa.....
— E cosa si ha da mettere?
— Si scrive «reiette tutte le opposizioni, eccezioni, e deduzioni in contrario delibera ecc... ecc...»
E s’affrettò a soggiungere:
— È poi in sostanza la stessa cosa.
— Uff! sclamò il sindaco, mettete un po’ quel che diavolo volete; l’uno o l’altro sgorbio per me è lo stesso, — fate il vostro mestiere. Noi dicevamo: delibera di mantenere in tutto e per tutto il suo primo deliberato e abilita la Giunta di andare al possesso del terreno detto la Carbonaia e di ridurlo allo scopo... allo scopo... in conclusione allo scopo che abbiamo detto...
— Sopra descritto, suggerì il segretario.
— Bene, avete finito? date qui che firmo subito.
A questo punto vi fu una nuova interruzione. Intesi un mormorio confuso, poi, dopo una pausa, il sindaco a domandare aspramente:
— Che c’è di nuovo? Qualcuno ci trova a ridire?
La voce che aveva parlato per la prima ancora più tremula e più fioca rispose:
— Ma, con buona licenza del sor sindaco, se mi si desse retta a me...
— Fuori, fuori queste ragioni, avete delle altre opposizioni da mettere insieme alle prime? Parlate chiaro.
— Mi perdoni il sor sindaco, ce n’ho... almeno mi pare che siccome la stagione è avanzata e per la strada del Fontanile adesso non ci sono fondi in bilancio, si potrebbe anche aspettare a dare un disgusto al sor curato...
— È lui che vi manda?
— Io dico il mio parere.
— Già già... ma lo sappiamo; vi conosciamo da un pezzo, — e credete che c’importi molto il vostro parere?
Il segretario entrò in mezzo con una proposta insidiosa.
— Se Leonardo ha delle opposizioni da fare le formuli, io le scrivo...
— Sicuro le formuli, senza indugio, che noi non siamo qui per suo comodo, le formuli, — ripetè in tuono sardonico il Sindaco.
— Io non me n’intendo...
— Eppure bisogna intendersene, aggiunse il segretario.
— Andiamo andiamo, date qua, che firmi, replicò il Sindaco... egli non ha che delle minchionerie...
— È una prepotenza, sclamò Leonardo.
— Come? badiamo ve’ alle parole, gridò il sindaco.
— Oh la verità innanzi a tutto, disse più forte il coraggioso consigliere; sono vecchio e non ho più paura di nulla,— e vi dico che sono prepotenze. Io so che il paese ha molte obbligazioni a Don Luigi che ci ha sempre fatto del bene a tutti...
Mentre il sindaco parlava io avevo a stento frenato la voglia di dargli sulla voce. La protesta di Leonardo aveva suscitato tutte le mie simpatie, — io avevo seguito le sue parole con tutto il cuore. A questo punto non potei contenermi e gridai forte:
— Bravo, così va detto.
Figuratevi l’effetto di questa audacia inaudita.
Seguì un cupo brontolio. Poi il sindaco si affacciò alla finestra. Era livido di collera.
— Che intende dire lei? mi domandò.
— Che Leonardo ha ragione, risposi ridendo.
Il sindaco mi diè un’occhiata furiosa. Ma tacque. Il che dimostra che nonostante la sua riputazione di brutalità egli sapeva all’uopo anche essere prudente.
Si ritirò e l’adunanza si sciolse.
Il signor Bazzetta venne a riprendermi e mi chiese celiando per qual ghiribizzo avevo voluto contraddire il sindaco. Egli non sembrava malcontento della scenetta e mostrò un ingenuo rammarico che non avesse avuto altro seguito. Però si compiacque di avvertirmi con quel suo favorito fare misterioso di guardarmi dalla collera del signor De Boni.
Visto che non riusciva per tal guisa al desiderato intento di impaurirmi mutò discorso e soggiunse:
— Vedete che Don Luigi fa male ad incaponirsi a quel modo: abbia torto o ragione, la maggioranza non è per lui. Avete inteso, benedetto uomo, una perla d’uomo, lo ammetto; sono il primo a riconoscerlo, — ma caparbio, caparbio, — e per un uomo di chiesa non è conveniente.
Non mi sentivo in vena di discutere e non volevo d’altra parte sentir maldicenze sul conto del mio ospite. Perciò mi sbrigai del molesto compagno senza troppe cerimonie e me ne tornai al Presbiterio dove, per colpa della mia distrazione, il riso s’era fatto lungo.
Dacchè egli entrò in casa del curato, Aminta ed io divenimmo compagni inseparabili. I nostri due caratteri erano l’antitesi l’uno dell’altro: per questo andammo subito d’accordo. Egli trovava in me quello slancio e quell’arditezza che è l’inarrivabile ideale di tutte le indoli eccessivamente timide. Io mi acconciavo perfettamente del suo naturale buono, malleabile, della sua mente docile a tutte le mie fantasie. In tutte le amicizie vere e durature c’è sempre una volontà da una parte e una condiscendenza dall’altra. Non fo per dire, anzi lo ricordo ad onore dell’affetto di Aminta, la volontà che prevaleva era la mia.
Don Luigi s’era accorto dell’influenza che io esercitava sopra il giovanotto. e, fin dai primi giorni, dandomi mezzo per celia, e mezzo sul serio, il vanto di un conquistatore di simpatie, aggiunse:
— Voi potete renderci un grande servizio. Aminta è in età da dover scegliere definitivamente il suo sentiero per tutta la vita. Ora io temo la sua eccessiva arrendevolezza. Non vorrei che la riverenza o l’affezione che quel buon ragazzo mi porta, reprimesse, in cosa di tanta importanza, le vere inclinazioni del suo spirito, che egli mi facesse l’inutile e deplorevole sagrificio di tutta la sua esistenza. Credete voi che Aminta abbracci volentieri la carriera ecclesiastica?
Risposi schietto:
— Non credo.
Don Luigi non solo non mostrò rammarico; ma parve invece rasserenarsi.
— Ma, poverino, nessuno qui vuol fargli violenza, sclamò con una adorabile tenerezza.
— Scandagliatelo voi per bene, disse poi, senza ch’egli s’avveda e sospetti che voi lo facciate per mio suggerimento. So che siete buon osservatore. E se scoprite la menoma ripugnanza a proseguire nella carriera, intrapresa per volontà altrui, rassicuratelo pure, rincuoratelo a manifestarmi i suoi desiderii, — e se ci sarà possibile, farò di tutto per contentarli. — Non vi faccia stupore il sentirmi così poco zelante nel procacciare proseliti alla chiesa militante. Nelle circostanze presenti io credo ch’essa abbia d’uopo piuttosto di soldati volonterosi che di un esercito sterminato. I tiepidi sono nella battaglia inciampo agli altri.
Accettai l’incarico e mi posi senz’altro all’opera.
Dal suo canto Aminta mi facilitò il compito con la sua piena confidenza, e col suo candore ammirabile.
Egli mordette meravigliosamente a tutte le seduzioni che io, Satana tentatore, dal Tabor della mia fantasia, seppi fargli balenare innanzi alla mente abbagliata.
Egli trovò che tutte le gioie della vita erano una ad una preferibili all’alto onore di divenire ministro di Dio.
E non era solo vaghezza giovanile la sua, fascino improvviso e momentaneo. No; c’era in fondo in fondo al suo carattere qualcosa di irregolare, di esuberante che si può talvolta frenare, non mai sopprimere.
Sorpresi sotto l’epidermide della sua timidezza quel germe fatale di malinconia da cui sbocciano le passioni violente.
E non già ch’egli fosse corrotto: tutt’altro; non oso dire ch’egli fosse innocente se innocente è sinonimo d’ignoranza; — ma era certamente virtuoso. In altri termini egli lasciava il freno sul collo alla immaginazione, ma stringeva con un morso di ferro le proprie azioni. Era poi estremamente scrupoloso... A dieciotto anni egli serbava fede alla corta morale insegnatagli da Mansueta, povera sempliciona, indole tranquilla che era passata dall’infanzia alla vecchiaia senza fermarsi un istante nella giovinezza.
Io lo condussi mano mano a raccontarmi tutte le sue battaglie, tutte le discipline con cui da parecchi anni puntellava la sua continenza.
Destinato all’altare, egli sentiva l’obbligo d’esserne degno a qualunque costo.— Non capiva che ci potesse essere dei sacerdoti dissoluti. E non aveva mai pensato nello scabroso adempimento dei suoi doveri a una cosa molto più facile,— quella di emanciparsene.
Fui io a fargli intravedere questa possibilità.
La sua gioventù vi si abbrancò subito tenacemente.
Mi ricordo di quando affrontai con lui il dilicato argomento dell’amore. Tremava dalla commozione.
Per Aminta non esistevano donne, — ma bensì la donna, un essere collettivo, universale come il sole.
Un sensualismo elevato a misticismo, per cui, negli anni della nostra adolescenza, tutti siamo passati e da cui la conoscenza della vita reale ci è venuto a levare.
Ma Aminta non s’era mai trovato vicino a donne.
Io lo avevo sorpreso colle confessioni di Rousseau, il più pericoloso ed il più corrotto dei moralisti: ma era allora tutt’altro che sicuro di ciò che leggeva in quel libro.
Non poteva persuadersi che non fosse favola. E anche in questo sono stato io il primo ad illuminarlo.
In breve dovetti accorgermi che invece di scandagliarlo l’avevo, come direbbe una bacchettona, pervertito.
Un giorno feci la prova di dirgli:
— Quando si torna in seminario?
Aveste visto il suo sgomento! Come diventò smorto! Si strinse al mio braccio e mormorò:
— O Emilio, che cosa terribile rientrare in quel carcere!
Stetti qualche minuto ad osservarlo, poi gli dissi:
— Non vuoi andarci più? vuoi che io ne parli a don Luigi?
Mi saltò al collo e mi baciò con tanta effusione di riconoscenza che mi commosse fino in fondo alle viscere.
— Credi che consentirà? mi domandò rannuvolandosi di nuovo.
— Lo spero, risposi, per lasciare al buon curato intero il merito di dargli la grande novella.
— Quando ne parlerai?
— Oggi stesso....
— No, oggi no: domani, ma che non ci sia io.
Promisi di contentarlo.
Ma quella stessa sera riferii al curato il tenore di quel nostro colloquio.
Il buon prete mi strinse con effusione la mano e mi ringraziò così vivamente del servizio resogli che a dir il vero ne arrossivo un poco. Mi pareva disdicevole che il Signore ringraziasse Mefistofele d’avergli sedotto il suo Fausto.
Ma come, ripensandoci poi, dovetti ammirare la profonda rettitudine, l’alta carità di quell’animo superiore!
Era una mente troppo vasta per capire nello strettoio del fanatismo; egli vedeva le cose dall’alto e da lontano. Per lui la fede e l’abnegazione non era passiva obbedienza, — ma elezione volontaria: e tale la voleva negli altri.
Aveva una frase sua per condannare le professioni forzate.
Diceva: — l’olio di mallo va tutto in fumo.
Egli aggiunse quella sera queste confidenti parole:
— Io ho scelto volentieri questo mio stato: era il solo che si confacesse al mio carattere; l’ho abbracciato con trasporto come una tavola di salvezza per il mio spirito saturo del mondo.... Eppure.... quanti errori non ho commessi!...
Era la seconda volta che mi parlava di sè e sempre per accusarsi!
— Noi abbiamo forse evitato molte disgrazie, mi disse poi.
Noi si faceva questi discorsi passeggiando sotto il pergolato in attesa della cena.
In uno dei tanti giri che facemmo, svoltando rapidamente levai a caso lo sguardo ad un finestrello mezzo nascosto nel fogliame di un melo tirato a spalliera: e mi parve di scorgervi una figura che si ritraesse frettolosa nell’ombra.
Quel finestrello illuminava un corridoio che dalla sacrestia metteva all’appartamento di don Sebastiano.
Mi venne il sospetto che il cupo vicecurato ci stesse ascoltando.
E lo dissi a don Luigi.
Si rabbuiò un momento; poi, data una crollatina di spalle:
— Non monta, sclamò; in fin dei conti non facciamo nulla di male.
Ciò era vero; ma i suoi sentimenti elevati, purissimi potevano essergli imputati a colpa da animi piccini.
E, in ogni caso, egli si fidava troppo. Ci era là chi poteva dargli di grandi molestie, come si vedrà in seguito.
Don Luigi era tanto contento quella sera, che non si diè pensiero di questo piccolo incidente e continuò il discorso.
Mi scordai di riferirgli la promessa data ad Aminta.
Però egli mi tradì subito involontariamente. Non sì tosto, rientrando in casa, ci imbattemmo nel giovinetto, gli corse incontro, lo prese sottobraccio e avviandosi verso lo studio, gli spiattellò senz’altro quanto sapeva sul conto suo, e si affrettò a rassicurarlo dichiarando che, essendosi incaricato del suo avvenire, non solo non intendeva fargli violenza, ma sentiva l’obbligo di aiutarlo a cercare una carriera che fosse interamente di suo genio.
Infine Aminta mi fu riconoscente di avere precipitata questa spiegazione tanto temuta e così insperatamente gradevole.
Dapprincipio il poveretto non osava quasi credere alle proprie orecchie: poi rimaneva interdetto: provava una terribile soggezione del suo successo.
Passammo una gioconda, una deliziosa serata. Si fecero i più lieti pronostici e i più vari disegni per l’avvenire di Aminta.
Anche Mansueta fu chiamata a intervenire nella conversazione. Ella, a dir il vero, ci teneva moltissimo alla ordinazione del nipote. La povera vecchierella non conosceva nel mondo nulla di più augusto che il rocchetto sacerdotale. Per lei i gradi ecclesiastici erano le anella di una catena che legava il mondo al paradiso e doveva finire in mano a Dio addirittura, Ma l’autorevole parere di don Luigi bastava a dissipare tutti i suoi scrupoli.
Alla fine si risolvette che non si risolverebbe nulla prima di sentire anche il dottor De Emma.
Chiarite così le cose, la vita al Presbiterio si fece più intima e confidente. Io, come intermediario, partecipavo alla gioia comune.
V’era però una nube in tanta serenità, una nube minacciosa di arcane tempeste: il contegno di don Sebastiano.
Era divenuto più molesto che mai nella nostra piccola comunione d’anime. Diveniva ogni dì più arcigno ed asciutto. Io che solo avevo il diritto di infischiarmene, gli avevo posto nome don Incubo, - ma m’inquietavo pei miei amici.
Il vicecurato con don Luigi e con me non parlava mai neppure indirettamente di Aminta.
Però era certo ch’egli era informato di ciò che succedeva.
Mansueta ci aveva riferite alcune buie parole dette da colui riguardo al nipote, dalle quali si arguiva ch’egli disapprovava vivamente il progettato mutamento.
Ma non badavamo troppo a lui.
Uno di quei giorni venne il dottor De Emma, espressamente invitato da don Luigi, e si tenne al Presbiterio una specie di consiglio di famiglia al quale presi parte con voto consultivo.
Il dottore si mostrò più impensierito che non avrei supposto della guerra dichiarata al sindaco per causa di Aminta. Fui non poco sorpreso allora delle sue visibili apprensioni, la cui causa rimaneva per me un mistero.
Non potevo persuadermi che un uomo di posizione e di carattere tanto superiore e tanto indipendente si desse fastidio della malignità di un sindaco montanaro.
Nè questa fu la sola stranezza che venne in quel colloquio ad eccitare la mia curiosità.
Il signor De Emma non biasimò tuttavia l’appoggio dato ad Aminta e anzi riconobbe la necessità imprescindibile oramai di provvedere alla sua sorte e diede tutta la sua approvazione al progetto di fargli mutar professione.
Per questo la sua scienza materialista si trovò mirabilmente d’accordo con la carità evangelica del buon prete.
Ma quando si venne ad avvisare i nuovi disegni di educazione, le sue perplessità rinacquero.
Don Luigi accennò ai pericoli a cui il giovinetto sarebbesi trovato esposto nella nuova sua condizione e si mostrò desioso di mettere la propria responsabilità al coperto di qualsiasi probabile insuccesso.
— Se col desiderio di giovargli non riuscissimo che a fargli il male, disse, sarebbe imperdonabile. Se potessi seguirlo, proteggerlo, io son certo che il mio affetto supplirebbe alla esperienza che mi manca, ma cosa posso fare io di qua!....
E si interruppe coll’esitanza di chi vuol essere capito a mezze parole.
Il signor di Emma tentennò più volte il capo poi, dopo una pausa discretamente lunga:
— Mio caro, vi parlerò francamente. Vi assicuro che sarei felicissimo di far io da guida ad Aminta nei suoi primi passi nel mondo; ma non posso direttamente interessarmi per lui senza mettere di nuovo a repentaglio la pace della mia casa. Quella donna benedetta si torturerebbe con chissà quali supposizioni....
— Avete ragione, mormorò il curato chinando la testa.
Non si toccò più il tasto delicato. Non riuscii a decifrare il senso di quelle parole; solo mi parve d’intendere che «quella donna benedetta» fosse la signora De Emma.
Ma qual era la causa delle sue diffidenze rispetto ad Aminta?
Qui stava il nodo della quistione.
Alcuni giorni dopo credetti, per una fortuita circostanza, di essere sulla via di risolverla.
La bella stagione è breve a Sulzena: sono poco più di tre mesi, dal primo fieno, in giugno, alla bacchiatura delle noci in settembre.
Questo è l’ultimo raccolto e precede solo di poco il ritorno delle mandre dall’alpe.
Alcuni giorni dopo scende da tutti i sentieri della montagna un malinconico concerto di squilli: si direbbe che si suoni a stormo contro il gran nemico, l’inverno.
Poi succede un vasto silenzio; il gorgoglìo del torrente si fa più cupo, più roco: le vette vicine si mettono il cappuccio grigio: — e vien giù un’acqueruggiola diacciata che spicca dagli alberi l’ultime foglie, gli ultimi boccioli dischiusi alla fallace lusinga di un estremo sorriso di sole estivo.
Qualche turchiniccia falda di fumo che si solleva quetamente è il solo segnale di vita che resti in quel morto paesaggio.
Il mio ospite non aveva voluto consentire ch’io partissi e, veramente, era riuscito a trattenermi senza troppa fatica. Desideravo tanto di conoscere la vita montagnola nell’inverno: non potevo augurarmi occasione migliore di soddisfare il mio capriccio.
Poi ci avevo preso gusto a tutto quello strano viluppo di casi in cui mi ero imbattuto. Mi pareva di partecipare a uno di quei fantastici romanzi tedeschi sul fare del Wilhelm Meister, dove i più gravi avvenimenti si succedono e si accumulano sotto le apparenze di una quiete profonda. E lasciavo che giorno per giorno si accumulassero nella mia mente queste memorie con una delizia che dispero di trasfondere nell’animo dell’amico lettore (seppure ho dei lettori). Ohimè i sentimenti che allora provavo così intensi, stesi sulla carta si mutano in vecchio e gelido convenzionalismo! Gli è che in molte cose si sente tutti ad un modo.
Il cattivo tempo mi aveva costretto ad interrompere i miei studi dal vero.
Passavo le ore a discorrere con quei di casa oppure nella mia stanza, davanti alla finestra a guardare giù distrattamente in fondo alla valle dove, talvolta squarciandosi la densa cortina di vapori che chiudeva l’orizzonte, vedevo le campagne lontane dipinte a mille colori dal raggio del sole autunnale.
Finalmente s’era deciso che Aminta sarebbe entrato al liceo e don Luigi aveva pensato di collocarlo presso un professore di Novara suo conoscente, perchè lo preparasse all’esame di ammessione. Il tempo stringeva; e dovetti, con vivo rammarico, separarmi dal mio novello amico.
Il curato lo condusse egli stesso al suo posto. Partirono una mattina verso la metà di settembre.
Io, schivo di prolungare la tortura delle separazioni, preferii salutarlo e rimanere a Sulzena.
Piovve tutto quel giorno.
Per ingannare il tempo mi diedi a frugare nello studio e sfogliare gli antichi registri della parrocchia.
Le generazioni di Sulzena sfilarono davanti a me: — poche stirpi che si riproducono e moltiplicano attraverso i secoli sullo stesso ceppo come gli abeti delle loro montagne. Sempre gli stessi cognomi coi nomi di battesimo che si ripetono alternati da nonno a nipote, per cui si direbbe che lo stesso uomo riapparisca a intervalli.
Alcuno scompare per sempre, non si sa se spento o emigrato, — tal altro riappare dopo un lungo tratto — come lo Strona.
Che misterioso fascino ho provato a ripassare quelle genealogie d’ignoti!
Passai molte ore in questa singolare rivista.
Un accidente venne a distrarmene.
Levando uno dei volumi, ne avevo smosso una fila nella scanzia, che, ad un tratto rovinò a terra.
Nel chinarmi a raccoglierli, vidi che era caduta coi libri anche una scatola di latta e giaceva a terra scoperchiata e capovolta.
Conteneva dei ricordi: una fettuccia tricolore, una palla di fucile, un mazzolino di fiori appassiti, un piccolo volumetto di Tacito, stampato a Parigi nel 1665, logoro e spiegazzato agli angoli, — e finalmente un piccolo astuccio di velluto turchino sbiadito.
La coscienza mi avvertì che stavo per commettere un abuso di confidenza e il mio primo pensiero fu di raccogliere quelle reliquie e di rinchiuderle senza guardarle. Ma fidatevi degli artisti: essi sono avvezzi a coonestare, col pretesto di studiare il mondo, le più indiscrete curiosità. Non potei resistere alla tentazione.
Apersi l’astuccio, e, immaginatevi la mia sorpresa, ci trovai il ritratto in miniatura di una ballerina nel suo costume di teatro.
Era una figura di singolare bellezza; un visino diciottenne, delicato, pallido, assottigliato dal dolore o dalle infermità, un’aria di bontà capricciosa, una soave fierezza di fanciulla viziata.
Una corona di rose bianche le cingeva il capo da cui scendevano lunghi riccioloni di capelli biondi: altre rose le inghirlandavano la vita sottile e ornavano il gonnellino azzurro.
Ella rassomigliava a qualcuno che io conosceva: ma non sapevo a chi.
Ero tanto assorto cogli occhi sul ritratto, a frugare nella mia memoria per evocare al confronto tutte le fisonomie femminili che avevo prima vedute,— che non mi accorsi della presenza di Mansueta, se non quando la sentii esclamare:
— Oh il ritratto di Rosilde che credevo avere perduto! Dove l’aveva cacciato?
Rosilde, la madre di Aminta! Diffatti ella aveva i suoi lineamenti.
— Vostra sorella era ballerina! domandai.
— N’è vero che disgrazia? sclamò la buona donna tentennando dolorosamente la testa, E soggiunse:
— La poveretta non ce n’ebbe colpa: ma ha pur fatto una dura penitenza.
Si capiva dall’intonazione delle sue parole che ella voleva un gran bene alla sorella e che sentiva il bisogno di scagionarla di una cosa che a lei montanara e devota doveva parere una enormità: essere ballerina!
Ho notato che l’avversione per la gente da palcoscenico è maggiore nelle classi inferiori che non sia nelle superiori.
Un artista di teatro può lusingarsi di essere ricevuto a Corte, non sarà mai rispettato nella casupola di un campagnolo.
— Non credo, continuò Mansueta, che Rosilde fosse contenta di quel suo stato; l’aveva scelto a fine di bene... ma pur troppo, farina del diavolo va tutta in crusca.
— Com’è andata? domandai.
La donna era per lo meno tanto desiderosa di farmi le sue confidenze quanto io di ascoltarle.
STORIA DI ROSILDE.
«Noi siamo di Castelletto sulla riva destra del Ticino.
«Nostro padre faceva il pescatore, il barcaiuolo tra Sesto Calende e il nostro paese e un po’, come tutti dalle nostre parti, il contrabbando di tabacco.
«Coi suoi guadagni stentava a mantenerci; la famiglia non era grande; ma non c’erano altri uomini; la mamma era da parecchi anni sempre ammalata, io avevo il mio da fare per assisterla e sbrigare le faccende di casa: mia sorella era una bambina.
«Noi eravamo molto poveri e molto disgraziati; certe volte d’inverno restavamo delle giornate intiere senza pane e senza fuoco.
«Con tutto ciò il povero papà era un uomo di buon umore: pigliava in santa pace le miserie che Dio gli mandava e portava la sua croce senza tirar mai un lamento.
«Quando non faceva freddo, e c’era un po’ di polenta in casa, e il male dava un po’ di tregua alla mamma, egli diventava subito allegro e ci faceva ridere colle sue storielle e le sue barzellette.
«Egli andava matto per il suono e per il ballo. Era stato soldato di Napoleone e musicante di reggimento; egli sonava il clarinetto in guisa da far stordire. Lo venivano a cercare da molte miglia lontano per tutte le sagre dei dintorni e non si faceva festa senza di lui; era conosciuto per questo da tutte le due parti del Ticino collo stranome di suonatore.
«In casa, tutte le ore che gli restavano, le dedicava alle sue arie. Nei molti paesi dov’era stato, in Francia, in Spagna nei paesi tedeschi, avea imparato molte maniere di balli, e la domenica, dopo vespero, ce ne insegnava qualcuno.
«Con me era fatica buttata; non ho mai saputo ballar bene una monferrina; poi non mi piaceva. Ma la Rosilde somigliava a lui in tutto ed anche nella sua passione: imparava a meraviglia tutte le riverenze, e gli scambietti e le giravolte e il papà si sfaceva dalla contentezza a vederla. Poverino, se avesse potuto prevedere l’avvenire! Già il curato lo diceva che quel gran ballare doveva portarle disgrazia. Ed ha indovinato veh!
«Tutti ne facevano le meraviglie e correvano a guardarla quando saltellava davanti all’uscio di casa.
«Una volta passò di là un gran signore, il marchese di Morzate, — stava a Milano e aveva qualche possesso vicino a Castelletto.
«Si fermò cogli altri e al fine della sonata si fece innanzi e regalò a mia sorella un pugno di monete d’argento.
«Da quel giorno in poi il marchese tutte le volte che capitava in paese non mancava mai di venirci a trovare, faceva ballare la Rosilde, la guardava a bocca aperta e le dava sempre qualche cosa.
«Era un brav’uomo, ma avrebbe potuto farci carità migliore.
«Malgrado la sua età avanzata era anche lui, come il babbo, caldo per la danza e anzi dirigeva e sopraintendeva la scuola di ballo di Milano.
«Cominciò col proporre a papà di collocarvi la Rosilde; poi insisteva sempre su questo progetto e diceva che ella avrebbe fatto fortuna e ci avrebbe potuti aiutare tutti.
«Ma il papà tenne duro e non volle mai acconsentire. Egli era lusingato dall’offerta, ma l’idea di separarsi dalla Rosilde, che era tutto il suo solazzo, gli ripugnava. Conosceva abbastanza il mondo per temere i pericoli. Rispondeva: — non bisogna mutare un piacere in professione.
«Dio lo benedica per le sue buone intenzioni e magari ce lo avesse lasciato più a lungo!
«Ma dovevano capitare tutte a noi.
«Ogni anno crescevano le nostre avversità.
«Le malattie della mamma si facevano sempre più gravi, e finalmente la resero paralitica di tutte e due le gambe.
«Ella era in questo stato da parecchi anni, quando il Signore volle inviarci la prova più terribile.
«Una notte di inverno,— una notte che pareva la fine del mondo, — il vento faceva traballare la nostra casuccia dalle fondamenta. Il papà, come spesso accadeva, era fuori; io non potevo dormire, ero inquieta più delle altre volte. Tutto ad un tratto in un momento che il vento era queto intendemmo due schioppettate dall’altra riva del fiume. Diedi un balzo sul letto; Rosilde che dormiva con me mi si avviticchiò alla vita: tutte due avevamo un gran batticuore. Anche la mamma si svegliò e disse: Libera nos Domine. Pareva ce l’avessero detto, che quei colpi erano diretti contro di noi!
«La mattina dopo, il fiume correva grosso e torbido e noi due ritte sulla via tenendoci per mano piangevamo dirottamente senza chiederci il perchè. Il babbo non era tornato.
«Verso mezzodì due pescatori ci ricondussero la nostra barca. L’avevano trovata fitta capovolta in un banco di sabbia.
«La disgrazia oramai era certa.
«Diffatti seppimo quella stessa sera che avevamo perduto il nostro povero padre. Sorpreso dai doganieri austriaci mentre stava scaricando del tabacco, aveva tentato di fuggire ed era riuscito a prendere il largo. Ma essi gli avevano fatto fuoco addosso e pur troppo le due fucilate da noi intese non avevano fallito il segno...
«Mio caro signore, pensi un po’ alla miseria in cui ci trovammo. Oramai erano più i giorni di fame che quegli altri. Io facevo qualcosa, quel poco che potevo; aggiustavo reti, lavoravo in campagna, filavo, tutto ciò che mi si offriva, — ma ci voleva altro! La povera mamma gemeva dì e notte che era uno strazio a sentirla, — e non poterla soccorrere!...
«Come abbiamo potuto tirare innanzi non lo so: se non siamo morti tutti e tre quell’anno gli è che non era la nostra ora.
«L’estate seguente venne il marchese a Castelletto, chiese di noi e passò a trovarci.
«Egli parlò di nuovo della scuola di ballo per la Rosilde: disse che non bisognava farle perdere uno splendido avvenire; che ella poteva diventare la nostra Provvidenza, che intanto egli avrebbe pensato a lei ed anche alla mamma. Insomma tanto fece, tanto promise che noi non si sapeva cosa rispondere.
«Tuttavia la mamma esitava a dir di sì.
«Rosilde allora saltò su a dire che voleva andare, e ci fe’ stupire colla fermezza della sua risoluzione. Aveva poco più di dieci anni.
« — Brava, esclamò il marchese tu hai più senno di tutti. Se tua mamma si ostina a dir di no, peggio per lei.
«Egli ci fece poi ripetere le sue offerte e le sue esortazioni dal sindaco e da altri signori del luogo tantochè la mamma si decise alla fine un po’ per le ragioni che coloro le dicevano, e un po’ per quelle che la miseria le suggeriva, di arrendersi.
«Rosilde andò quello stesso anno a Milano. Il buon marchese fu di parola, si adoperò per lei e cominciò a mandare una piccola pensione mensile.
«Passarono così cinque anni.
«Rosilde veniva l’estate a passare con noi qualche settimana.
«Ella si faceva grande e bella, — ma scommetterei che non era contenta. Appena arrivava a casa, smetteva i suoi abiti signorili per vestire più dimessamente alla nostra foggia: parlava poco e sempre malvolentieri della sua vita di Milano e si sarebbe detto che volesse dimenticarla e farla dimenticare. Poi ci pativa tanto a lasciarci. Non si lagnava, simulava indifferenza, — ma di notte piangeva e io trovavo l’indomani il guanciale bagnato dalle sue lagrime.
«Ella non era nata per quel mestiere.
«Un’altra, che fosse stata di quella razza, al suo posto si sarebbe leccate le dieci dita.
«Il marchese le voleva bene come ad una figliuola; la faceva tenere come in uno scatolino. dentro alla bambagia: avesse desiderato delle cose, egli non le raccomandava che di chiederle. Preveniva tutti i suoi capricci, anche quelli che non aveva.
«Ma dopo cinque anni mancò improvvisamente. Dopo la sua morte mia sorella venne a casa e ci si disse che aveva risolto di cominciare la sua carriera libera, e che aveva già trovato una scrittura per un teatro di Venezia.
«Quella volta ci lasciò con minor rincrescimento, e baciando la mamma le disse: allegra, che d’ora innanzi non vivrai più di elemosina, ma di quello che guadagnerò io.
«Ma la mamma, dopo tanti anni di agonia miracolosa, chiuse gli occhi poco dopo, e Rosilde non ebbe la consolazione di poterla soccorrere in nulla.
«La povera fanciulla se ne accorò talmente che cadde malata e, come seppi poi, corse pericolo di morte.
«Io, rimasta sola, entrai al servizio d’una famiglia in Arona.
«Rosilde appena lo seppe venne a cercarmi e volle a tutti i patti che andassi a stare con lei.
«Quest’atto di amorevolezza mi fu caro in quei tristi momenti.
«Avevo quindici anni più di lei ed ero tutta contenta di farle da madre.
«Mi menò a Venezia, e, dopo qualche settimana a Trieste, dove le avevano fatta una scrittura molto grossa.
«Dapprincipio tutto andava come un arcolaio. Si viveva insieme, si stava bene, ci si consolava a vicenda, e si parlava de’ nostri poveri morti.
«Ma pur troppo la nostra quiete non durò a lungo.
«La professione di Rosilde non è fatta per star tranquilla.
«Appena ella fu conosciuta, diventò di tutto il mondo meno che mia.
«Dapprincipio l’accompagnavo al teatro, l’aiutavo a vestirsi.
«Ma cominciò una processione di signori che venivano a farle complimenti e parlavano Dio sa come, — in presenza mia, non mi guardavano neanco come una serva, peggio come un cagnolino.
«La buona Rosilde ci pativa più di me e si dava una gran pena di avvertirli e di dire a tutti: questa è mia sorella e di farmi rispettare. Ma ogni volta s’era da capo. Io mi sentivo sempre più spostata in mezzo a quella confusione di insolenti, di facchini, di screanzati, di corde, di tele, di stracci, di lumi, di urli, di diavolerie d’ogni specie.
«Sicchè fu Rosilde stessa a consigliarmi di rimanere in casa. Ed io acconsentii di buon grado.
«Ma anche là cominciavano a venire seccatori a tutte le ore della notte e del giorno.
«Non potei trattenermi dal fare qualche osservazione a mia sorella; ed ella mi rispose con rincrescimento che non poteva metterli alla porta, e che s’usava così e che era una necessità del suo mestiere.
« — Ebbene, mi arrischiai a dire, pianta lì il mestiere e vieni via.
« — Eppoi? mi rispose; oramai non potrei adattarmi a fare delle privazioni e non so far altro che ballare. Questa è la mia vita, benchè non sia molto bella.
«Quanto a bella non l’era davvero; far della notte il giorno, mangiar quando gli altri dormono, andar a letto quando gli altri s’alzano: e sempre la casa piena di gente, un andirivieni continuo, — oh che vitaccia, che vitaccia!
«Dopo due mesi già non ne poteva più. Ero afflitta, irritata; mi arrabbiavo, piangevo sempre. Mi pareva di essere in un ospedale di matti, e qualche volta peggio, all’inferno addirittura. Quell’abbondanza mi era uggiosa, ero disgustata di tutto, desideravo con tutto il cuore la povertà, le nostre afflizioni, la nostra casetta in cui almeno si poteva gemere in pace, pregar Dio, mentre là.....
«Ero sempre imbronciata con tutti e anche con la povera Rosilde, che, ne sono sicuro, si sarebbe fatta in pezzi per contentarmi. Ed io ero spesso cattiva con lei, la strapazzavo.
«Finalmente presi l’unica risoluzione che mi fosse concessa: tornare al mio paese.
«Mia sorella non oppose la menoma resistenza, non tentò neppure un minuto di distogliermi.
«Non già che non le rincrescesse, ma s’era accorta di quel che pativo e, come sempre, ella non pensò a sè stessa.
«Mi disse soltanto: va bene, fa come vuoi, — ma con una voce che mi straziò il cuore. Povera ragazza!.
«Gli ultimi tre giorni che rimasi con lei non volle sentir parlare di teatro, si diede per indisposta, si chiuse in casa con me, mi colmò di tenerezze, di premure; ricordò colle lagrime agli occhi, col più vivo rammarico la nostra vita d’una volta a Castelletto. E non disse mai una parola per trattenermi. Anzi l’ultimo dì sopraffatta dalla commozione e dal dispiacere di lasciarla, essendomi mostrata disposta a smettere il mio progetto mi buttò le braccia al collo, posò la faccia sulla mia spalla e mi disse singhiozzando:
« — No, va, va, mia buona Mansueta.
«L’indomani mattina prima della mia partenza mi voleva dar tutto il denaro che teneva, parecchie centinaia di lire.
«Ma io non presi che quanto mi occorreva per il viaggio.
«Non insistè: però mi accorsi che questo mio rifiuto le faceva pena più di tutto il resto.
« — Tu non vuoi accettar nulla da me, sclamò.
«E mi diè un’occhiata che mi penetrò fin nell’anima.
«Avesse ella indovinato il mio pensiero? Lo devo dire, quel suo denaro mi pareva guadagnato a scapito della salute eterna.
«Mi accompagnò sino al battello. Oh come volentieri l’avrei menata via con me!
«E dopo come mi sono pentita di averla abbandonata così!
«Quando fui al paese, che avevo tanto desiderato, tutto mi parve triste, insoffribile non pensavo che a lei, non potevo consolarmi della sua lontananza. Mi chiedevo ad ogni momento: cosa fa adesso? — e mi pareva che avrei dovuto essere al suo fianco per proteggerla, per assisterla.....
«La donna che mi aveva ospitato biasimava continuamente quel che avevo fatto. Ed io cominciava sul serio a desiderare di ritornare un dì o l’altro con Rosilde.
«Ma in quel turno ella mi annunziò che partiva per Londra.
«Alcuni giorni dopo una vecchia signora di Arona mi collocò presso Don Luigi, suo nipote, il quale da poco erasi qui fissato.
«Fu una vera fortuna per me: non potevo augurarmi un posto migliore. In confronto di quanto avevo provato mi pareva un paradiso.
«Solo mi angustiava il pensiero di Rosilde.
«Da principio ella mi scriveva spesso delle lunghe lettere, in cui parlava di me e del nostro paese.
«Di sè, della sua condizione, — mai una parola.
«Seppi da uno di Zugliano che tornava dall’Inghilterra che ella aveva là incontrato, che tutti parlavano bene di lei.....
«Ma le sue lettere erano piene di malinconie.
«Poi tutto ad un tratto cessarono.
«Per molti mesi non ebbi più notizie di lei. Le feci scrivere da Don Luigi parecchie volte, non ebbi risposta.
«Una sera, erano quasi tre anni che ci eravamo lasciate a Trieste, l’inserviente comunale mi venne a dire che mi recassi appena avessi potuto a Zugliano in casa di certo dottor de Emma, giunto colà in quei giorni, dove c’era una signora la quale desiderava parlarmi.
«Ci andai l’indomani stesso: trovai presto la casa del signor de Emma di cui tutti facevano un gran parlare. E quale non fu la mia sorpresa appena entrato di trovarmi fra le braccia della mia Rosilde che piangeva, rideva e mi baciava tutt’insieme.
«Ma, Vergine benedetta, com’era ridotta! Scarna, patita! bianca come una statua.
«Mi disse che aveva fatto una gran malattia, che ora stava meglio e che i signori De Emma avevano voluto condurla con loro perchè potesse ristabilirsi.
«Il dottor De Emma, lei lo conosce, aveva sposato un’inglese pochi mesi prima, Li conobbi tutte due, furono cortesi con me e m’invitarono a recarmi spesso da loro a trovar la sorella.
«Ci andava tutte le settimane il giorno del mercato.
«Rosilde era sempre infermiccia, anzi in capo a qualche mese mi parve che peggiorasse. Avrei giurato che avesse dei dispiaceri. Notai che la signora De Emma aveva cambiato con lei; era garbata, ma fredda e come diffidente. Anche il dottore era molto più riservato di prima.
«Da Rosilde non si poteva cavar nulla, Soltanto si mostrava più impaziente di guarire, e di riacquistare le forze. Le quali pur troppo non venivano.
«Mi diceva:
« — Bisogna che mi aggiusti.
«Ma non spiegava le sue intenzioni, quel che volesse fare, forse non lo sapeva nemmanco lei. Non parlava mai del suo mestiere.
«Passò così l’inverno.
«Una sera tardi, del mese d’aprile, io stavo poco bene ed ero già in letto: Don Luigi era fuori. Sento bussare alla porta di strada. Mi vesto, corro ad aprire. E trovo Rosilde in uno stato da far pietà che appena poteva reggersi in piedi. Aveva trovato uno del paese e s’era fatta accompagnar da lui.
«Mi dice:
« — Ti conterò poi; intanto dammi, se puoi, ricovero per questa notte.
« — Ma che t’è accaduto? domando.
« — Nulla!
« — Che t’han fatto?
« — Nulla, sono stanca.
«La misi in letto: e ci rimase una settimana con una febbre spaventevole.
«Dopo migliorò, e potè alzarsi. Era anche abbastanza serena di mente.
«Ma non volle mai dire il perchè avesse lasciato così precipitosamente la casa De Emma. Tuttociò ch’io seppi da lei fu ch’ella non voleva essere di peso a quei signori, di cui però parlava di rado ma sempre con grande rispetto.
«Una cosa mi fe’ meraviglia.
I signori De Emma non mandavano mai a chiedere di lei. Seppi però che il dottore s’informava indirettamente da gente del paese della sua salute.
«Io però avevo subito capito che la causa di tutto era la signora e che il dottore era costretto a usar dei riguardi per non farle dispiacere.
«Col progredire della buona stagione mia sorella si riebbe perfettamente.
«Scomparvero affatto anche quelle infermità che aveva portato dall’Inghilterra. Ridiventò forte, bella come da molti anni non l’aveva più veduta.
«Fiorivano le rose nell’orto e rifiorivano anche le sue guancie.
«Povera ragazza, non aveva ancora vent’anni: era ben giusto che paresse giovane!
«Nei momenti di buon umore era tutto il babbo; allegra, vispa, una vera faina.
«Scorrazzava come lei ora per la montagna.
«Soltanto qualche volta mi diceva:
« — Oh se potessi restar sempre qui con te.
«Io non sapevo risponderle, perchè malgrado le buone intenzioni del padrone, capivo che Rosilde non poteva dimorare a lungo in questa casa.
«Il pensiero di dovermi separare nuovamente da lei mi accorava: si viveva così bene insieme: non potevo rassegnarmi a vederla riprender quel suo diabolico mestiere.
«Ella non ne parlava mai: pure cosa avrebbe dovuto fare? la serva come me, essa allevata in tanta delicatezza?
«Mulinavo dì e notte per aggiustarla in qualche modo. Ma, fra me e me, a lei non dicevo mai nulla.
«E per circa tre mesi ella non pareva accorgersi dei miei fastidi, e non si dava punto pensiero dell’avvenire, proprio come nostro padre buon’anima.
«Cantava tutto il dì come un passero, era una consolazione a sentirla, tanto che delle volte mi attaccava il suo buon umore e vergognandomi de’ miei dubbi, dicevo fra me:
« — La Provvidenza penserà lei alla povera Rosilde.
«Non so perchè cambiò tutto ad un tratto.
«Una mattina entro nella sua stanza e la trovo seduta sulla sponda del letto, col viso tutto sconvolto, pallida come un cadavere che piangeva dirottamente.
«Gli feci mille domande, non mi disse altro se non che non si sentiva bene.
«Poi, dopo il primo momento, si ricompose e fe’ di tutto per dissipare le mie inquietudini. Mi assicurò che l’era passato, che stava bene, ma vedevo che non era vero. Per quanto si sforzasse, non riusciva a celarmi una grande tristezza che la opprimeva.
«Per quattro giorni io la vidi abbuiarsi sempre più, — e al quinto scomparve senza dir nulla.
«Eravamo alla metà d’agosto, al dì dell’Assunta.
«Non venne al vespro in chiesa dove aveva promesso di raggiungermi.
«Entrando in casa non la trovai più e m’accorsi ch’ella aveva portato con sè alcune delle sue vesti.
«Ne chiesi ai vicini se nessuno l’aveva veduta: ma dopo molte ricerche notai che la porticina dell’orto era aperta: Rosilde era senza dubbio discesa nella valle per di là.
«La cercammo dappertutto: andai io fino a Castelletto. Non potei venir in chiaro di nulla, «Don Luigi ne fu afflitto quanto me.
«Non potemmo saper nulla più fino al marzo successivo, una domenica che capitò qui il signor De Emma a pregarmi di seguirlo fino ad un cascinale presso Zugliano. dove Rosilde era a letto malata gravemente.
«Il dottor era un antico amico di Don Luigi e, dopo la partenza di Rosilde, veniva sovente a trovarlo.
«Le avevo parlato tante volte di mia sorella, ma egli non mi aveva mai detto di sapere dove fosse.
«Eppure io sono convinta che conosceva da parecchio tempo la sua dimora. E dev’essere stato lei a pregarlo di avvertirci.
«La poveretta si vergognava di una disgrazia che l’era accaduta.
«Andai col dottore e giunsi con lui a una catapecchia miserabile in mezzo alla campagna dove trovai la mia sventurata sorella disfatta in modo da far compassione alle pietre.
«Aveva avuto un figlio il giorno prima, — ed era così mal ridotta dalla sua antica infermità al cuore, che l’era tornata con maggior forza, e dagli strapazzi d’ogni maniera sofferti che, come mi avvertì una vecchia che l’assisteva, correva serio pericolo.
«Quando la povera cristiana mi vide vicino al suo letto mi buttò le braccia al collo e pianse per quasi un’ora di seguito.
«Appena potè parlare, mi contò la sua triste storia, «Seppi allora che tutto il male veniva dal signor De Boni.
«Questo poco di buono l’aveva incontrata a Zugliano, dove allora egli andava spesso a trovare suo padre. L’aveva inutilmente perseguitata in tutti i modi.
«Le sue molestie avevano continuato anche quando ella era venuta a star qui con me; ed ella era per un pezzo riuscita a tenerlo al dovere.
«Ma alla fine quel demonio era venuto a capo dei suoi infernali disegni e da sette mesi la torturava. Non so per quale malefizio colui aveva potuto imporsi alla volontà di mia sorella.
«Mi narrò queste cose singhiozzando per il dolore e per la vergogna, e finì col supplicarmi di compatirla.
«Si figuri un po’: non potei far altro che piangere con lei.
«Mi sedetti al suo capezzale, e per tre giorni e tre notti non staccai gli occhi da quel suo volto distrutto, pregando il Signore di non togliermela così presto.
«Egli non ha voluto esaudirmi.
«Io la vidi consumarsi come una candela.
«La terza notte si riscosse da un grave letargo in cui era caduta, mi prese la mano con forza, mi chiese di Don Luigi e mi manifestò il desiderio di vederlo.
«Il mio padrone era stato diverse volte a chieder notizie: ma il dottore non aveva mai permesso che egli entrasse nella camera di Rosilde.
«Ella mi pregò allora con tanta insistenza che non ardii ricusarle questo suo forse ultimo desiderio e appena giorno salii di corsa fin quassù e indussi il curato a venire con me dalla morente.
«Appressandosi alla cascina dove giaceva Rosilde intendemmo il suono di voci concitate.
«Nella camera di Rosilde c’era il signor De Boni, ed entrando lo udii che diceva:
« — Tu non vuoi darmele, ebbene le prenderò da me.
«E aggiungeva due o tre bestemmie spaventevoli.
«Pareva un furioso scappato dall’ospedale: metteva tutto sossopra, rovistando entro i mobili come per cercarvi qualcosa che molto gli premesse di avere.
«E Rosilde invano cercava di distoglierlo dal suo violento proposito, e gridava e lo scongiurava.....
«La Provvidenza ci aveva mandati in buon punto.
«Al nostro arrivo Rosilde sorrise di gioia e arrovesciò il capo stanco sul guanciale ch’io credevo spirasse.
«Ma ella ritornò in sè; e stese la mano a Don Luigi mormorando: grazie! siete venuto, siete buono!
«Poi dopo qualche momento si volse a me e indicandomi il signor Angelo che si rodeva in un cantuccio d’essere stato sorpreso in così bestiale furore, mi disse con un filo di voce interrotto dal rantolo:
« — Costui voleva togliermi delle carte che mi preme di mettere al sicuro. Prendi, sorella, eccoti la chiave di un cassetto che troverai in fondo all’armadio; aprilo e levane un involto che esso contiene.
«Obbedii.
«Rosilde soggiunse:
« — Conservale con cura, esse sono la fortuna della mia creaturina. Suo padre, là il signor Angelo, sarebbe capace di rinnegarlo ed è bene che tu possa provargli all’occasione i suoi doveri. Bada Mansueta di non lasciartele uscire di mano.
«Il signor De Boni mi guardava in guisa che pareva volesse mettere in pezzi me e le carte che tenevo in mano.
«Se non ci fosse stato presente Don Luigi credo non l’avrei passata troppo liscia.
«Ma colui è uomo che pensa sempre troppo bene ai casi suoi e sa sempre frenare il suo furore quando questo può essergli dannoso.
«Vedendo che non c’era da farla franca, diè una crollata di spalle ed uscì sagramentando da far traballare la casa.
«Con questa bella grazia egli piantò là quella povera martire che moriva per causa sua.
«Essa non lo trattenne.
«Quando fu uscito si rasserenò; trasse un lungo sospiro. E sorrise di nuovo.
«Ci fe’ segno di sedere vicino al letto: ci prese le mani e ci guardava con grande tenerezza. Non poteva parlare. Era alla fine de’ suoi patimenti.
«Di lì a poco sopraggiunse il dottore che fu spiacevolmente sorpreso di trovare colà don Luigi:
«Ma Rosilde chinò leggermente la testa e sussurrò a fior di labbra: — son io.....
«Poi nessuno parlò più.
«L’agonia era cominciata.....»
Mentre Mansueta raccontava io aveva tenuto macchinalmente gli occhi fissi sul ritratto di Rosilde; e, man mano che la triste storia progrediva, quel volto bianco pareva animarsi sotto il mio sguardo: il sangue rifluiva nelle venuzze azzurre della fronte, le tempia pulsavano sotto l’impeto della passione, le pupille inquiete gittavano un’occhiata paurosa dietro le spalle, la vita esile affievolita abbrividiva; le labbra lasciavano fuggire un grido, un sospiro...
Egli è che non v’ha nulla di più vero, di più logico che il dolore, e non v’ha cemento d’anime più possente ed efficace di quello. Perciò l’arte chiede ad esso così soventi le sue ispirazioni, perciò gli deve le sue più forti creazioni.
Se mi avessero narrata una vita venturosa, di gioie, di successi, quella creatura sarebbe rimasta un’estranea, una bella ignota. Invece mi si era detto: ella ha patito, ha pianto, — ebbene eravamo conoscenze vecchie.
Un uomo felice diventa decrepito centenario; è dimenticato prima che morto.
Un altro disgraziato muore giovane: il suo ricordo sopravvive spesso dei secoli.
Chi pensa a Matusalem, chi non ha pianto Abele?
Dicevano i Greci: — chi muore giovane è caro agli Dei.
Certo egli è carissimo agli uomini.
Quella giovane donna era scomparsa da vent’anni. Ebbene la sua figura spiccava ancora vivissima sullo sfondo del piccolo mondo ch’ella aveva attraversato: tutte le figure del dramma misterioso che andavo svolgendo da due mesi erano rischiarate dallo strascico luminoso di quegli occhi malinconici.
Senza volerlo, fin dal primo giorno della mia dimora al Presbiterio, fin da quel primo colloquio con Aminta nel giardino, io cercavo lei attraverso i meandri delle vicende confidatemi. Finalmente la sua immagine m’era apparsa e mi s’imprimeva nella mente e mi riempiva l’animo di una lugubre, di una penosa amarezza.
Quel giorno cercai tutti i modi di distrarmi: e non potevano a tal uopo giovarmi i discorsi di Mansueta.
Scrissi prima di sera un mucchio considerevole di lettere; scrissi a della gente che sicuramente non ha mai potuto indovinare il vero motivo di quel mio insolito zelo epistolare.
Poi dopo cena fui felice d’aver qualcosa da ingannare la solitudine.
Uscii per ispedire la mia corrispondenza.
Aveva smesso di piovere, ma saliva dalla valle un alito denso, tepido di umidità. Una rossiccia aureola cingeva la punta accesa del mio sigaro.
Il procaccio della posta era già a letto, e per quanto picchiassi non venni a capo di svegliarlo.
Stavo per tornare indietro quando la voce del signor Bazzetta si fe’ sentire dall’uscio socchiuso della vicina farmacia.
— Se avete lettere datele a me; le mie donne le consegneranno a Menico domattina prima che egli parta per Zugliano.
Accettai ringraziando e cercai le lettere per consegnarle. Ma lo speziale sclamò:
— Per bacco favorisca dentro, al caldo, oh diamine!
E uscito fuori, mi prese il braccio e mi tirò nella bottega, anzi nel piccolo camerino dov’ero stato la prima volta. Mi fe’ sedere e volle assolutamente che io assaggiassi ancora di quel tal suo vinettino.
Uscì e tornò colle bottiglie e si diede a giocar di cavaturaccioli, prima che io avessi avuto tempo di aprir bocca sempre ripetendo ufficiosamente fra i denti:
— Cospetto, cospetto, due ditini, due ditini.
Versò, poi disse:
— Già voi non sapete cosa fare del mio vino e delle mie storie.
Non risposi, egli continuò:
— Eppure avrei creduto, doveste essere curioso di conoscere la storia di certi nostri amici. Suppongo ch’essi non v’avranno detto nulla. La storia dell’abatino è interessante.....
— So, so... interruppi infastidito.
— Che sapete? mi chiese con un sorriso d’incredulità, — Eh! sclamai, che grande secreto!
— Dite quel che sapete; ho paura che occorrano delle rettifiche.
— Diamine chi non sa che il signor De Boni è...
— È che cosa?
— Il padre...
— ..... putativo, aggiunse subito lo speziale col tono più dolce della sua vocina insinuante.
Fè una smorfia, ammiccò cogli occhi e ripetè sempre più piano:
— Putativo... pu... ta... ti... vo. Eh!!
L’ultima esclamazione voleva dire: — vedete che questo speziale può ancora insegnarvi qualcosa, signor presuntuoso?
— Come?
— Per sapere il come bisogna riprendere quella tal storiellina proprio al punto dove l’abbiamo interrotta due mesi sono. È lunghettina. Vi avviso, volete sentirla? per me eccomi qua,— un bicchierino,— fumate vi prego, volete un fiammifero? ecco.
«Dicevamo che il signor De Emma aveva con sè due giovani donne: — una, sua moglie, — l’altra, italiana, vezzosissima, i cui rapporti colla famiglia rimanevano ignoti... allora... poi trapelò... Il timore di sentirmi ripetere ciò che avevo inteso di Mansueta mi spinse a tentennare il capo con impazienza.
— Sapete che era una ballerina, ricondotta in Italia dal dottore per guarirla dicono di una piccola malattia... sì... che rimase in sua casa alcuni mesi per... anche questo?... ma i motivi per cui ella lasciò i suoi ospiti li conoscete, no? Fu per la gelosia invincibile della signora... la quale non aveva poi tutti i torti d’inquietarsi.
«Ma diciamo le cose per ordine. Il signor Angelo conobbe dunque la signorina per le cure che questa prestava a suo padre, se ne invaghì, ma per allora le sue maniere buone non incontrarono grazie agli occhi della Tersicore... i quali pur erano assorti altrove.....
«Alcuni mesi dopo, in seguito a una burrasca violenta, la signorina Rosilde abbandonò la casa De Emma e si rifugiò qui presso sua sorella Mansueta.
«Anche qui il signor Angelo l’incontrò qualche volta per istrada, e, naturalmente ostinato come è, egli insistè per ottenere il favore della silfide... che però era già staggito. Il povero De Boni arrivava sempre fuori tempo; ed anche allora dovette forbirsene i baffi».
M’ero studiato di mostrarmi indifferente al racconto e di ascoltarlo con quell’aria di profonda indifferenza che non accetta e non rifiuta.
Ma egli era riuscito a cattivarsi la mia attenzione. E a questo punto non potei trattenermi dal chiedere:
— E il preferito chi era?
— Chi era? rispose con un ghigno malizioso guardando al soffitto coll’apatia simulata di una pretesa superiorità: — chi era? qui sta il punto.
Dichiaro che nel signor Bazzetta c’era la stoffa di romanziere.
Conosceva e praticava per istinto tutti gli artifizi della narrazione.
Egli proseguì:
— Una sera ero di guardia nella farmacia a Zugliano e discorrevo col dottor De Emma; capita una vecchierella a spedire una ricetta rilasciata da una empirica, notissima in quei dintorni, per le sue cure d’ogni specie. La cosa era tutt’altro che regolare, ma allora non si andava tanto per il sottile e la medichessa aveva clientela troppo numerosa per poterle impunemente mancare di riguardo. Per espressa volontà del nostro principale noi si spedivano con qualche cautela le sue ordinazioni.
«Questa volta però mi parve che le dosi fossero eccessive e guardando meglio lo sgorbio della maliarda mi accorsi che le cifre erano state alterate.
«Sospettai tosto di un qualche disegno delittuoso. Quei medicinali potevano servire a certo effetto, che il codice penale, tenero del biblico moltiplicamini più che della galanteria, ha avuto la crudeltà di proibire.
«Entrai nel salotto e mostrai senza dir nulla la cartolina al dottor De Emma: egli trasalì e mi avvidi che divideva il mio parere.
Dissi:
« — La mando a spasso.....
«E mi avviai per eseguire il proposito.
«Il dottore mi trattenne.
« — Datele un qualcosa d’innocuo: bisogna andar a fondo di questa faccenda; forse arriveremo in tempo di evitar una grossa disgrazia.
«Obbedii, e quando tornai nel salotto non ci trovai più il dottore. Era uscito per la porticina del cortile.
«Pensai ch’egli avesse tenuto dietro alla vecchierella, e mi domandai se anch’io non farei bene di imitarlo.
«Capirete, nella nostra professione, un po’ di polizia non nuoce.
«Lasciai la serva del principale a guardar la farmacia e via di corsa.
«Non durai fatica a raggiungerli.
«C’era una luna splendida; la donniciuola trotterellava a stento contro il muro rischiarato: il dottore la seguiva nell’ombra dall’altra parte della strada.
«Io dietro a loro, a una quindicina di passi.
«Attraversammo la città quant’è larga: la vecchia infilò il ponte della Gora, entrò nel sobborgo, svoltò in una viottola, a destra, che sbuca nei prati del castello, poi rasentò la lunga fila di catapecchie dove abitano lavandaie e finalmente si arrestò davanti a una piccola e lurida casupola a un solo piano.
«La facciata volta a settentrione rimaneva nell’ombra meno un piccolo finestrello all’altezza di un uomo, dai vetri quasi tutti fessi e rattoppati di carta bianca ma illuminata internamente.
«La vecchierella bussò leggermente all’uscio che fu subito aperto e si rinchiuse dietro a lei.
«Il dottore s’era fermato ed anch’io.
«Egli esitò qualche minuto poi lo vidi attraversare la strada ed accostarsi alla casa, si pose sotto la finestra e stette in ascolto.
«Dopo un quarto d’ora si riscosse come avesse preso una ardita risoluzione, si appressò alla porta, e picchiò colle nocche delle dita.
«Questa volta indugiarono nell’aprire.
«Finalmente il finestrello si rabbuiò e quasi subito nel vano dell’uscio socchiuso apparve la vecchierella da noi seguita che teneva un lume in mano.
«Il dottore scambiò con lei alcune parole che non intesi.
«La donna parve perplessa, lo guardava intimidita.
«Ma, dopo qualche minuto, si tirò in disparte e lasciò passare il dottore.
«La porta fu di nuovo chiusa a giro di chiave.
«Allora venne la mia volta di appressarmi al finestrello: già ero venuto per qualche cosa...... —
Il signor Bazzetta mi guardò come per assicurarsi che io non avevo obbiezioni da fare contro l’assoluta convenienza del suo contegno, pronto, se mai, a confutarlo con un’intera batteria di argomenti.
Io non battei palpebra.
Egli proseguì:
« — Mi trovavo dalla stessa parte della casa nell’ombra. Avanzai piano pianino rasente il muro e venni ad appostarmi.
«La posizione era sicurissima. Impossibile addirittura l’essere sorpreso. Rimpetto, il muro liscio ed alto della canonica di S. Eustachio. Dalla parte dond’eravamo venuti la strada correva diritta per un lunghissimo tratto senza risvolte e senza traverse: per dippiù era selciato a pietre tanto grosse ed ineguali che si sarebbe inteso un passo lontano un mezzo miglio. In fondo c’erano degli orti a quell’ora deserti. Non potevo essere veduto che dalla casa che stavo osservando. Ma pienamente tranquillo per tutto il rimanente io ero libero di concentrare sovr’essa tutta la mia attenzione. Al minimo segno era presto fatto: due passi più in là svoltavo la cantonata e mi perdevo fra la siepi di sambuco dell’ortaglie.
«Il lume era ritornato nella camera, ne vedevo il suo rossiccio riflesso nella strada. Tesi l’orecchio. Il dottore era entrato in quella camera che doveva essere la cucina del povero appartamento. La finestra stava socchiusa per la grande caldura. S’era in agosto poco dopo la metà: una frasca del ferragosto erigeva ancora il suo ispido pennacchio di pino sopra una costruzione poco lontano.
«Distinguevo la voce del dottore, sebbene capissi poco quel che diceva. Parlava in tuono di garbato rimprovero, interrompendosi frequentemente. Nell’intervallo udivo un singhiozzo sommesso, poi una sottile, una delicata vocina da donna. Era certo l’incognita dei miei sospetti.
«Ebbi... come si fa a non avere la tentazione di guardar dentro? una di quelle tentazioni a cui non si resiste. Una sola occhiata basterebbe. Mi appiatto contro il muro, mi rizzo sulla punta degli stivaletti, mi aggrappo al davanzale di pietra e caccio la mia fronte fra due vasi, uno di basilico, e l’altro di reseda, profumi di tutta quella miserabile strada.
«E guardo e vedo la signorina Rosilde che aveva visto spesso quando abitava dai De Emma.....
«Un baleno e compresi tutta la premura del dottore, il suo sgomento.
«Cercavo il bandolo di un segreto, ne scoprivo due, anzi tre... almeno mi parve.
Il dottore teneva una mano di lei nelle proprie: ella accasciata, col viso basso, chino sulla spalla sinistra, tutto inzuppato di lagrime, — una addolorata.... vergine prima del... dopo del... ecc., come dice il catechismo. Non pensava a ritirar le sue mani.
«Il signor De Emma non la sgridava più; sembrava commosso, dovette farle coraggio.
«Eh? che ne dite?»
Io non avevo nulla da dire.
« — E ritenete queste tre circostanze, riprese lo speziale; ritenete che allora il signor De Boni dimorava ancora a Zugliano col padre, e che la signorina era stata quattro mesi qui, e, come seppi dopo, non era ritornata in città che da un paio di giorni, e finalmente che la loro relazione cominciò dopo quella sera. E pensare che poi gli han dato il bastone bello e fiorito. Bel san Giuseppe davvero! senza neanche la formalità dello Spirito Santo, ah! ah!»
Come rideva lo speziale; come si mostrava maligno!
— Però ho poi mangiato quella tal foglia! ma tardi, tardi assai.... Ma vi annoio?» Accennai di no nel modo meno aperto che io potessi.
— Ma sentite, ora viene il meglio della storiella. Il signor De Boni.... to’ eccolo».
L’uscio della farmacia sbattè con rumore. Il sindaco entrò nel salottino e, nel vedermi, non potè dissimulare il suo malcontento.
Ma io non tardai a levargli la soggezione.
Mi alzai e presi congedo dal Bazzetta.