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rarmi occasione migliore di soddisfare il mio capriccio.

Poi ci avevo preso gusto a tutto quello strano viluppo di casi in cui mi ero imbattuto. Mi pareva di partecipare a uno di quei fantastici romanzi tedeschi sul fare del Wilhelm Meister, dove i più gravi avvenimenti si succedono e si accumulano sotto le apparenze di una quiete profonda. E lasciavo che giorno per giorno si accumulassero nella mia mente queste memorie con una delizia che dispero di trasfondere nell’animo dell’amico lettore (seppure ho dei lettori). Ohimè i sentimenti che allora provavo così intensi, stesi sulla carta si mutano in vecchio e gelido convenzionalismo! Gli è che in molte cose si sente tutti ad un modo.

Il cattivo tempo mi aveva costretto ad interrompere i miei studi dal vero.

Passavo le ore a discorrere con quei di casa oppure nella mia stanza, davanti alla finestra a guardare giù distrattamente in fondo alla valle dove, talvolta squarciandosi la densa cortina di vapori che chiudeva l’orizzonte, vedevo le campagne lontane dipinte a mille colori dal raggio del sole autunnale.

Finalmente s’era deciso che Aminta sarebbe entrato al liceo e don Luigi aveva pensato di collocarlo presso un professore di Novara suo conoscente, perchè lo preparasse all’esame di ammessione. Il tempo stringeva; e dovetti, con vivo rammarico, separarmi dal mio novello amico.

Il curato lo condusse egli stesso al suo posto. Partirono una mattina verso la metà di settembre.

Io, schivo di prolungare la tortura delle separazioni, preferii salutarlo e rimanere a Sulzena.