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«Mi menò a Venezia, e, dopo qualche settimana a Trieste, dove le avevano fatta una scrittura molto grossa.
«Dapprincipio tutto andava come un arcolaio. Si viveva insieme, si stava bene, ci si consolava a vicenda, e si parlava de’ nostri poveri morti.
«Ma pur troppo la nostra quiete non durò a lungo.
«La professione di Rosilde non è fatta per star tranquilla.
«Appena ella fu conosciuta, diventò di tutto il mondo meno che mia.
«Dapprincipio l’accompagnavo al teatro, l’aiutavo a vestirsi.
«Ma cominciò una processione di signori che venivano a farle complimenti e parlavano Dio sa come, — in presenza mia, non mi guardavano neanco come una serva, peggio come un cagnolino.
«La buona Rosilde ci pativa più di me e si dava una gran pena di avvertirli e di dire a tutti: questa è mia sorella e di farmi rispettare. Ma ogni volta s’era da capo. Io mi sentivo sempre più spostata in mezzo a quella confusione di insolenti, di facchini, di screanzati, di corde, di tele, di stracci, di lumi, di urli, di diavolerie d’ogni specie.
«Sicchè fu Rosilde stessa a consigliarmi di rimanere in casa. Ed io acconsentii di buon grado.
«Ma anche là cominciavano a venire seccatori a tutte le ore della notte e del giorno.
«Non potei trattenermi dal fare qualche osservazione a mia sorella; ed ella mi rispose con rincrescimento che non poteva metterli alla porta, e che s’usava così e che era una necessità del suo mestiere.
« — Ebbene, mi arrischiai a dire, pianta lì il mestiere e vieni via.