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svolgendo da due mesi erano rischiarate dallo strascico luminoso di quegli occhi malinconici.
Senza volerlo, fin dal primo giorno della mia dimora al Presbiterio, fin da quel primo colloquio con Aminta nel giardino, io cercavo lei attraverso i meandri delle vicende confidatemi. Finalmente la sua immagine m’era apparsa e mi s’imprimeva nella mente e mi riempiva l’animo di una lugubre, di una penosa amarezza.
Quel giorno cercai tutti i modi di distrarmi: e non potevano a tal uopo giovarmi i discorsi di Mansueta.
Scrissi prima di sera un mucchio considerevole di lettere; scrissi a della gente che sicuramente non ha mai potuto indovinare il vero motivo di quel mio insolito zelo epistolare.
Poi dopo cena fui felice d’aver qualcosa da ingannare la solitudine.
Uscii per ispedire la mia corrispondenza.
Aveva smesso di piovere, ma saliva dalla valle un alito denso, tepido di umidità. Una rossiccia aureola cingeva la punta accesa del mio sigaro.
Il procaccio della posta era già a letto, e per quanto picchiassi non venni a capo di svegliarlo.
Stavo per tornare indietro quando la voce del signor Bazzetta si fe’ sentire dall’uscio socchiuso della vicina farmacia.
— Se avete lettere datele a me; le mie donne le consegneranno a Menico domattina prima che egli parta per Zugliano.
Accettai ringraziando e cercai le lettere per consegnarle. Ma lo speziale sclamò:
— Per bacco favorisca dentro, al caldo, oh diamine!