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insegnatagli da Mansueta, povera sempliciona, indole tranquilla che era passata dall’infanzia alla vecchiaia senza fermarsi un istante nella giovinezza.
Io lo condussi mano mano a raccontarmi tutte le sue battaglie, tutte le discipline con cui da parecchi anni puntellava la sua continenza.
Destinato all’altare, egli sentiva l’obbligo d’esserne degno a qualunque costo.— Non capiva che ci potesse essere dei sacerdoti dissoluti. E non aveva mai pensato nello scabroso adempimento dei suoi doveri a una cosa molto più facile,— quella di emanciparsene.
Fui io a fargli intravedere questa possibilità.
La sua gioventù vi si abbrancò subito tenacemente.
Mi ricordo di quando affrontai con lui il dilicato argomento dell’amore. Tremava dalla commozione.
Per Aminta non esistevano donne, — ma bensì la donna, un essere collettivo, universale come il sole.
Un sensualismo elevato a misticismo, per cui, negli anni della nostra adolescenza, tutti siamo passati e da cui la conoscenza della vita reale ci è venuto a levare.
Ma Aminta non s’era mai trovato vicino a donne.
Io lo avevo sorpreso colle confessioni di Rousseau, il più pericoloso ed il più corrotto dei moralisti: ma era allora tutt’altro che sicuro di ciò che leggeva in quel libro.
Non poteva persuadersi che non fosse favola. E anche in questo sono stato io il primo ad illuminarlo.
In breve dovetti accorgermi che invece di scandagliarlo l’avevo, come direbbe una bacchettona, pervertito.