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La seduta era incominciata: un affannoso borbottio da formole legali veniva dalle finestre aperte della sala comunale a interrompere le mie riflessioni.
Quanto sperpero di preamboli, quanto apparato di autorità, di visti, di attesochè, di considerandi, di ritenuti, per uccidere la piccola gioia d’un uomo, per giustificare una piccola prepotenza e carpire il dominio di due palmi di terra infeconda!
Il segretario era asmatico, e, son sicuro, anche sdentato. La sua voce usciva a sibili ineguali e si raggomitolava in brontolii gutturali.
E dicono che la voce dell’uomo è il linguaggio dell’universo! Sarà, — in ogni caso non quella del segretario comunale di Sulzena.
Mentre si leggevano i documenti venuti dall’Intendenza, l’impazienza del Sindaco si tradiva con certi mugghi sinistri: si capiva che il messere si annoiava e avrebbe voluto andare per le vie più spedite.
Scommetto che egli imprecava in cuor suo alla Costituzione, la quale aveva l’impertinenza di imporre tanto formulario al suo volere.
Tutt’ad un tratto egli interruppe il segretario.
— Basta, basta, sappiamo tutti di che si tratta: io vi ho detto chiaramente che quel terreno appartiene al Comune, a noi: che i nostri vecchi hanno avuto la dabbenaggine di lasciarsene spossessare dal prete: quella gente là pensava colla suola delle scarpe: trovava naturalissimo che la chierica facesse il suo prò del bene di tutti, non sapeva respirare se l’aria non era benedetta. L’uomo inutile, il solo che non lavora e non guadagna, era allora il solo necessario: egli aveva i terreni migliori, gli armenti più pingui, le donne più belle....