Malmantile racquistato/Settimo contare

Settimo contare

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Sesto cantare Ottavo cantare

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ARGOMENTO.

Paride, dopo aver molto bevuto,
Entra d'andar al campo in frenesia;
E come il sonno avea pel ber perduto,
Perde nel gir di notte anche la via.
Cade in un fosso, onde a donargli aiuto
Corron le Fate, e gli usan cortesia;
Vien condotto in un antro, e per diporto
La storia gli è narrata di Magorto.

1.
Vino tempera te, disse Catone,
Perchè si dee berne a modo e a verso;
E non come colà qualche trincone,
Che giorno e notte sempre fa un verso;
Ond’ei si cuoce, e perchè ci va a Girone1,
La favola divien dell’universo:
E vede poi, morendo in tempo breve,
Ch’è ver, che chi più beve, manco beve.

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2.
Se il troppo vino fa che l’uom soggiace
A tal error di tanto pregiudizio,
Chi non ne beve, e quello a cui non piace
A questo conto dunque ha un gran giudizio;
Anzichè no2, sia detto con sua pace,
Perch’ogni estremo finalmente è vizio;
E se di biasmo è degno l’uno e l’altro,
Questo3 ha il vantaggio, al mio parer, senz’altro.
3.
Perchè se quel s’ammazza e non c’invecchia
Ed è burlato il tempo di sua vita,
Almen sente il sapor di quei ch’ei pecchia4,
E tien la faccia rossa e colorita.
Burlar anche si fa chi va alla secchia,
E insacca senza gusto acqua scipita,
Che lo tien sempre bolso e in man del fisico,
Il qual l’aiuta a far morir di tisico.
4.
Però sia chi si vuole, egli è un dappoco
Chi ’mbotta al pozzo come gli animali;
S’avvezzi a ber del vino appoco appoco,
Ch’ei sa, che l’acqua fa marcire i pali;
Ma, com’io dico, si vuol berne poco:
Basta ogni volta cinque o sei boccali:
Perch’egli è poi nocivo il trincar tanto,
Com’udirete adesso in questo Canto.

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5.
Omai serra gli ordinghi e le ciabatte
Chiunque lavora e vive in sul travaglio,
E difilato a cena se ha batte
A casa, o dove più gli viene il taglio.
Chi dal compagno a ufo il dente sbatte;
Tanti ne va a taverna, ch’è un barbaglio5;
Parte alla busca; e infin, purchè si roda,
Per tutto è buona stanza, ov’altri goda.
6.
E Paride6, ch’anch’egli si ritrova
A corpo voto in quelle catapecchie,
D’Amor chiarito figlio d’una lova7,
Che svaligiar gli ha fatto le busecchie8,
Dice al villan: Va’ a comprarmi dell’uova,
Ecco sei giuli, tônne ben parecchie;
Piglia del pane, e sopra tutto arreca
Buon vino, sai! non qualche cerboneca9.
7.
E se t’avanza poi qualche quattrino,
Spendilo in cacio; non mi portar resto.
Messer sine, rispose il contadino,
Io torrò, s’io ne trovo, ancor cotesto.
E partendo gli ride l’occhiolino,
Sperando10 aver a far un po’ d’agresto;
Ma facendo i suoi conti per la via,
S’accorge ch’e’ non v’è da far calía11.

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8.
All’oste se ne va per la più corta,
E l’uova, il pane, e ’l cacio, e ’l vin procaccia
E fatto un guazzabuglio nella sporta,
Le quattro lire slazzera12 e si spaccia.
L’altro l’aspetta a gloria, e in sulla porta,
Per veder s’egli arriva, ognor s’affaccia;
E per anticipare, il fuoco accende,
Lava i bicchieri e fa l’altre faccende.
9.
Perch’egli è tardi ed ha voglia di cena,
Poích’ogni cosa ha bell’e preparato,
Si strugge e si consuma per la pena,
Che lì non torna il messo nè il mandato;
Ma quand’ei vedde colla sporta piena
Giunger al fine il suo gatto frugato13.
Oh ringraziato, dice, sia Minosse,
Ch’una volta le furon buone14 mosse.
10.
Chiappa le robe, e mentre ch’ei balocca
In cuocer l’uova, e il cacio ch’è stupendo,
Sente venirsi l’acquolina in bocca,
E far la gola come un saliscendo.
Sbocconcellando intanto, il fiasco sbocca,
E con due man alzatolo, bevendo,
Dice al villan, che nominato è Meo
Orsù ti fo briccone15, addio, io beo.

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11.
Così per celia cominciando a bere,
Dagliene un sorso e dagliene il secondo,
Fe sì, che dal vedere16 e non vedere
Ei diede al vino totalmente fondo.
A tavola dipoi messo a sedere,
Lasciato il fiasco voto sopra il tondo,
Voltossi a’ dieci pan da Meo provvisti,
E in un momento fece repulisti.
12.
Dieci pan d’otto, e un giulio di formaggio
Non gli toccaron l’ugola: e s’inghiotte
Due par di serque17 d’uova e da vantaggio;
Poi dice: o Meo, spilla quella botte
Che t’hai per l’opre, e dammi il vino assaggío;
Io vo’ stasera anch’io far le mie lotte18,
Bench’io stia bene, sia ripieno e sventri19,
Perchè mi par ch’una lattata20 c’entri.
13.
Il rustico, che dar del suo non usa,
Non saper, dice, dove sia il succhiello;
Che per casa non v’è stoppa nè fusa,
E che quel non è vin, ma acquerello.
Ci vuol, risponde Paride, altra scusa.
E rittosi, di canna fa un cannello;
E in sulla botte posto a capo chino,
Con esso pel cocchiume succia il vino.

11.
Così per celia cominciando a bere,
Dagliene un sorso e dagliene il secondo,
Fe sì, che dal vedere21 e non vedere
Ei diede al vino totalmente fondo.
A tavola dipoi messo a sedere,
Lasciato il fiasco voto sopra il tondo,
Voltossi a’ dieci pan da Meo provvisti,
E in un momento fece repulisti.
12.
Dieci pan d’otto, e un giulio di formaggio
Non gli toccaron l’ugola: e s’inghiotte
Due par di serque22 d’uova e da vantaggio;
Poi dice: o Meo, spilla quella botte
Che t’hai per l’opre, e dammi il vino assaggío;
Io vo’ stasera anch’io far le mie lotte23,
Bench’io stia bene, sia ripieno e sventri24,
Perchè mi par ch’una lattata25 c’entri.
13.
Il rustico, che dar del suo non usa,
Non saper, dice, dove sia il succhiello;
Che per casa non v’è stoppa nè fusa,
E che quel non è vin, ma acquerello.
Ci vuol, risponde Paride altra scusa.
E rittosi, di canna fa un cannello;
E in sulla botte posto a capo chino,
Con esso pel cocchiume succia il vino.

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14.
E perch’è buono, e non di quello il quale
È nato in sulla schiena26 de’ ranocchi,
A Meo, che piuttosto a carnovale
Che per l’opre lo serba, esce degli occhi,
E bada a dire: ovvia! vi farà male;
Ma quegli, che non vuol ch’ei lo ’nfinocchi,
Ed è la parte sua furbo e cattivo,
Gli risponde: oh tu sei caritativo!
15.
Non so, se tu minchioni la mattea27,
Lasciami ber, ch’io ho la bocca asciutta;
Che diavol pensi tu poi ch’io ne bea?
Io poppo poppo, ma il cannel non butta.
Risponde Meo: poffar la nostra Dea!
Che s’ei buttasse, la beresti tutta;
Oh discrezione! s’e’ ce n’è minuzzolo.
Paride beve, e poi gli dà lo spruzzolo.
16.
Non vi so dir, se Meo allor tarocca.
Ma l’altro, che del vin fu sempre ghiotto,
Di nuovo appicca al suo cannel la bocca,
E lascia brontolare, e tira sotto;
Ma tanto esclama, prega, e dàgli, e tocca,
Ch’ei lascia al fin di ber, già mezzo cotto;
Dicendo, ch’ei non vuoi che il vin lo cuoca;
Ma che chi lo trovò non era un’oca.

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17.
Poichè dal cibo e da quel vin che smaglia
Si sente tutto quanto ingazzullito,
Risolve ritornare alla battaglia,
Donde innocentemente s’è partito
Chè scusa non gli pare aver che vaglia
Che non gli sia a viltade attribuito.
Così ribeve un colpettino, e incambio
D’andare a letto, s’arma e piglia l’ambio.
18.
Senza lume nè luce via spulezza28,
E corre al buio, che nè anche il vento:
Non ha paura mica della brezza,
Perch’egli ha in corpo chi lavora drento;
Per la mota sibben si scandolezza,
Chè, dando il cul in terra ogni momento,
Quanto più casca e nella memma pesca,
Tanto più sente ch’ell’è molle e fresca.
19.
Dopoch’ei fu cascato e ricascato,
Per non sentir quel molle e fresco ancora,
Chè ’l vino, e quanto dianzi avea ingubbiato,
Opra di dentro sì ma non di fuora,
Giunto al mulin, dal mezz’in giù sbracciato
Si sciaguatta29 i calzoni in quella gora,
Per dopo nella casa di quel loco
Farsegli tutti rasciugare al foco.

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20.
Mentre si china, dando il culo a leva,
E’ fece un capitombolo nell’acqua;
Ond’avvien ch’una volta ei l’acqua beva
Sopra del vin, che mai per altro annacqua.
Quanto di buon si è, che s’ei voleva
Lavare i panni, il corpo anche risciacqua:
E divien l’acqua sì fetente e gialla,
Che i pesci vengon tutti quanti a galla.
21.
Le regole ben tutte a lui son note,
Che insegnò, per nuotar bene, il Romano30:
Distende il corpo, gonfie fa le gote.
Molto annaspa col piede e colla mano.
Intanto si conduce fra le ruote,
Che fan girando macinare il grano;
Ben se n’avvede, e già mette a entrata31
Di macinarsi, e fare una stiacciata.
22.
In questo che il meschin già si presume
D’andar a far la cena alle ranocchie,
Aprir vede una porta, e in chiaro lume
Sventolar drappi e campeggiar conocchie;
Chè le Naiadi ninfe di quel fiume,
Coronate di giunchi e di pannocchie32,
Corrono ad aiutarlo, infin ch’a riva,
Là dove il dì riluce in salvo arriva.

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23.
E vede all’ombra di salcigne, frasche,
Fra le più brave musiche acquaiuole33,
Parte di loro al suon di bergamasche34,
Quinte e seste tagliar le capriuole.
Chi tien che queste ninfe sien le lasche,
Chi le sirene ed altri le cazzuole35.
Io non so chi di lor dia più nel buono,
E le lascio nel grado ch’elle sono.
24.
Ognun si tenga pure il suo parere;
O quelle o altre, a me non fa farina36.
Bastivi per adesso di sapere
Che queste non son bestie da dozzina;
E s’ella non m’è stata data a bere,
Elle son Fate c’han virtù divina;
E che sia il vero, fede ve ne faccia
Il Garani scampato dalla stiaccia.
25.
Il quale così molle e sbraculato37
Il cadavero par di mona Checca38,
Ch’essendo stato allor disotterrato,
Abbia fatto alla morte una cilecca39.
Si scuote e trema sì, ch’io ho stoppato40
Per San Giovanni41 il carro della Zecca;
E mentr’ei si dibatte e il capo scrolla,
Il pavimento e i circostanti ammolla.

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26.
Ma le Fate, che specie son di pesce
Ed hanno il corpo a star nell’acqua avezzo,
Più che l’esser bagnate a lor rincresce
Il vederlo così fradicio mezzo;
Perciò lo spoglian; ma perchè riesce,
Quando un vuol far più presto, stare un pezzo,
Per trattenerlo, mentr’or questa or quella
L’asciuga, una contò questa novella.
27.
Furo un tratto una dama e un cavaliero
Moglie e marito, in buono e ricco stato,
Che fatti vecchi contro ogni pensiero,
Dopo d’aver qualche anno litigato
La grinza pelle con un cimitero,
Convenne loro al fin perdere il piato,
E senza appello aver a far proposito
Di dar per sicurtà l’ossa in deposito.
28.
Lasciaron due figliuoli, i più compiti
Che ’l mondo avesse mai sulle sue scene;
Perch’essi avevan tutt’i requisiti
Dovuti a un galantuomo e a un uom dabbene;
Aggiunto che di soldi eran gremiti
(Chè questo in somma è quel che vale e tiene);
Stavan d’accordo in pace ed in amore,
Ed eran pane e cacio, anima e cuore.

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29.
Cosa che fare in oggi non si suole,
perchè i fratelli s’han piuttosto a noia:
E se lor han due cenci o terre al sole,
All’un mill’anni par che l’altro muoia.
E questo è il ben ch’a' prossimi si vuole!
E siam di così perfida cottoia,
Che sebben fosser anche al lumicino,
E’ non si sovverrebbon d’un lupino.
30.
Perch’e’ sono una man di mozzorecchi;
Al contrario costor, di chi io favello,
I quai di cortesia furon due specchi
E trattavan ciascun da buon fratello,
S’avrebbon portat’acqua per gli orecchi.
E si servian di coppa42 e di coltello:
E per cercar dell’uno il bene stare,
L’altro voluto avrebbe indovinare.
31.
Essendo un giorno insieme ad un convito.
Quand’appunto aguzzato hanno il mulino43
E mangian con bonissimo appetito,
Non so come, il maggior detto Nardino.
Nell’affettar il pan tagliossi un dito,
Sicch’egli insanguinò il tovagliuolino;
E parvegli sì bello a quel mo intriso,
Ch’ei si pose a guardarlo fiso fiso.

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32.
E resta a seder lì tutto insensato,
Ch’ei par di legno anch’ei come la sedia;
Può far, tanto nel viso è dilavato,
Colla tovaglia i simili44 in commedia.
E mirando quel panno insanguinato
Ormai tant’allegria muta in tragedia;
Mentre nel più bel suon delle scodelle
Si vede ognun riposar le mascelle.
33.
E tutti quei che seggon quivi a mensa,
i servi, i circostanti ed ogni gente,
Corrongli addosso, chè ciascun si pensa
Che venuto gli sia qualch’accidente;
Nè sanno che il suo male è in quella rensa45,
Com’appunto fra l’erba sta il serpente;
Rensa non già, ma lensa46, onde il suo cuore
Preso al lamo col sangue aveali Amore.
34.
Che gli par di veder, mentre in quel telo
Contempla in campo bianco i fior vermigli,
Un carnato di qualche Dea di cielo
Composta colassù di rose e gigli.
E sì gli piace, e tanto gli va a pelo.
Che finalmente, mentrech’ei non pigli
Una moglie d’un tal componimento.
Non sarà de’ suoi dì mai più contento.

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35.
E già se la figura nel pensiero
E bianca e fresca e rubiconda e bella,
Co’ suoi capelli d’oro e l’occhio nero,
Che più nè men la mattutina stella
E come ch’ei la vegga daddovero,
Divoto se le inchina e le favella,
E le promette, s’egli avrà moneta,
Di pagarle la Fiera all’Improneta47.
36.
E vuol mandarle il cuore in un pasticcio,
Perch’ella se ne serva a colazione;
E gli s’interna sì cotal capriccio
E tanto se ne va in contemplazione,
Che il matto s’innamora come un miccio48
D’un amor che non ha conclusïone,
Ma ch’è fondato, come udite, in aria
D’una bellezza finta e immaginaria.
37.
Così a credenza49 insacca50 nel frugnuòlo51,
Ma da un canto egli ha ragion da vendere;
Che s’egli è ver ch’Amor vuol esser solo
Rivale non è qui con chi contendere.
Ma Brunetto il fratel che n’ha gran duolo,
Poichè ’l suo male alcun non può comprendere,
Tien per la prima un’ottima ricetta52,
Per rimandarlo a casa, una seggetta.

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38.
Ove condotto e messolo in sul letto,
Il medico ne venne e lo speziale,
Chiamati a visitarlo; ma in effetto
Anch’essi non conobbero il suo male.
Disperato alla fin di ciò Brunetto
Col gomito appoggiato in sul guanciale,
A cald’occhi piangendo più che mai:
Io vo saper, dicea, quel che tu hai.
39.
Ei che vagheggia sotto alle lenzuola
Il gentil volto e le dorate chiome,
Nè anche gli risponde una parola
Non che gli voglia dir nè che nè come.
Replica quello e seccassi la gola;
Lo fruga, tira e chiamalo per nome:
Ed ei pianta una vigna53 e nulla sente;
Pur tanto l’altro fa, ch’ei si risente.
40.
Dicendo: fratel mio, se tu mi vuoi
Quel ben che tu dicei volermi a sacca,
Non mi dar noia, va’ pe’ fatti tuoi,
Perchè il mio mal non è male da biacca54;
Al quale ad ogni mo’ trovar non puoi
Un rimedio che vaglia una patacca;
Perch’egli è stravagante ed alla moda55,
Chè non se ne rinvien capo nè coda.

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41.
Vedi, soggiunse l’altro, o ch’io m’adiro,
O pur fa’ conto ch’io lo vo’ sapere;
Hai tu quistione? hai tu qualche rigiro?
Tu me l’hai a dire in tutte le maniere.
Nardin rispose, dopo un gran sospiro:
Tu sei importuno poi più del dovere;
Ma da che devo dirlo, eccomi pronto.
Così quivi di tutto fa un racconto.
42.
Brunetto, udito il caso e quanto e’ sia
Il suo cordoglio, anch’ei dolente resta,
Sebben, per fargli cuor, mostra allegria
Ma, come io dico, dentro è chi56 la pesta;
Perch’in veder sì gran malinconia
Ed un umor sì fisso nella testa,
In quanto a lui gli par che la succhielli57
Per terminare il giuoco a’ Pazzerelli.
43.
E conoscendo, ch’a ridurlo in sesto
Ci vuol altro che ’l medico o ’l barbiere,
Vi si spenda la vita e vada il resto,
Vuol rimediarvi in tutte le maniere.
E quivi si risolve presto presto
D’andar girando il mondo, per vedere
Di trovargli una moglie di suo gusto,
Com’ei gliel’ha dipinta giusto giusto.

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44.
Perciò d’abiti e soldi si provvede,
E dà buone speranze al suo Nardino;
E preso un buon cavallo e un uomo a piede,
Esce di casa, e mettesi in cammino,
Sbirciando sempre in qua e in là se vede
Donna di viso bianco e chermisino;
E se ne incontra mai di quella tinta,
Vuol poi chiarirsi s’ella è vera o finta.
45.
Perch’oggidì non ne va una in fallo
Che non si minii o si lustri le cuoia.
E dov’ell’ha un mostaccio infrigno e giallo
Ch’ella pare il ritratto dell’Ancroia58,
Ogni mattina innanzi a un suo cristallo
Quattro dita vi lascia su di loia;
E tanto s’invernicia, impiastra e stucca,
Ch’ella par proprio un angiolin di Lucca.
46.
Di modo ch’ei non vuol restarvi còlto,
Ma starvi lesto e rivederla bene;
E per questo una spugna seco ha tolto
E sempre in molle accanto se la tiene,
Con che passando ad esse sopra il volto,
Vedrà s’il color regge o se rinviene59;
Ma gira gira, in fatti ei non ritrova
Suggetto che gli occorra farne prova.

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47.
Dopo che tanto a ricercare è ito
Che i calli al culo ha fatto in sulla sella.
Giunse una sera al luogo d’un romito
Che a restar l’invitò nella sua cella;
A lui parve toccar il ciel col dito,
Per non aver a star fuori alla stella,
Il passar dentro ed egli e il servitore
Ringraziando il buon uom di tal favore.
48.
Vestia di bigio il vecchio macilente,
Facendo penitenza per Macone60;
E perch’ei fu nell’accattar frequente,
Per nome si chiamò fra Pigolone.
Costui, com’io diceva, allegramente
In cella raccettò le lor persone;
Spogliò il cavallo, gli tritò la paglia,
Sul desco poi distese la tovaglia.
49.
E gli trovò buon pane e buon formaggio
Tutto accattato, ed erbe crude e cotte,
E del vino fiorito61 quanto un maggio
Ch’egli è di quel delle centuna botte;
Di che spesso ciascun pigliando a saggio,
Stettero a crocchio insieme tutta notte.
E perchè per proverbio dir si suole:
La lingua batte dove il dente duole,

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50.
Brunetto, che teneva il campanello62,
Dice chi sia, e che di casa egli esce
Non per suo conto, ma d’un suo fratello
Del quale infino all’anima gl’incresce,
Perchè gli pare uscito di cervello;
Non si sa s’ei si sia più carne o pesce.
Così piangendo in far di ciò memoria,
Per la minuta contagli la storia.
51.
Sta Pigolone attento a collo torto
Ad ascoltarlo, e poich’egli ha finito:
Figliuol, risponde a lui, dátti conforto
E sappi che tu sei nato vestito63;
Chè qui è l’uom salvatico Magorto,
Ch’è un bestione, un diavol travestito;
Che, se tu lo vedessi, uh egli è pur brutto!
Basta, a suo tempo conterotti il tutto.
52.
Egli ha un giardino posto in un bel piano,
Ch’è ognor fiorito e verde tutto quanto;
Giardiniero non v’è nè ortolano,
Chè d’entrarvi nessun può darsi vanto.
Da per sè lo lavora di sua mano
E da sè lo fondò per via d’incanto,
Con una casa bella di stupore,
Che vi potrebbe star l’Imperadore.

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53.
Ma io ti vo’ dar adesso un’abbozzata
Qui presto presto della sua figura:
Ei nacque d’un Folletto e d’una Fata
A Fiesol ’n una buca64 delle mura,
Ed è sì brutto poi, che la brigata
Solo al suo nome crepa di paura.
Oh questo è il caso a por fra i Nocentini
E far mangiar la pappa a quei bambini.
54.
Oltrech’ei pute come una carogna,
Ed è più nero della mezzanotte,
Ha il ceffo d’orso e il collo di cicogna,
Ed una pancia come una gran botte.
Va in su i balestri65 ed ha bocca di fogna
Da dar ripiego a un tin di méle cotte;
Zanne ha di porco, e naso di civetta,
Che piscia in bocca e del continuo getta.
55.
Gli copron gli occhi i peli delle ciglia,
Ed ha cert’ugna lunghe mezzo braccio;
Gli uomini mangia, e quando alcun ne piglía
Per lui si fa quel giorno un Berlingaccio66
Con ogni pappalecco e gozzoviglia;
Ch’ei fa prima col sangue il suo migliaccio,
La carne assetta in vari e buon bocconi,
E della pelle ne fa maccheroni.

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56.
Dell’ossa poi ne fa stuzzicadenti,
Niente in somma v’è che vada male;
Sicchè, Brunetto figliuol mio, tu senti
Ch’egli è un cattivo ed orrido animale.
Ora torniamo a’ suoi scompartimenti67,
Ove son frutte buone quanto il sale,
Vaghe piante, bei fiori ed altre cose,
Com’io ti potrei dir, maravigliose,
57.
Ma lasciando per or l’altre da parte,
Cocomeri vi son dì certa razza,
Che chi ne può aver uno e poi lo parte,
Vi trova una bellissima ragazza;
Che, per esser astuta la sua parte,
Diratti che tu gli empia una sua tazza
A un di quei fonti lì sì chiari e freddi
Ma se la servi, a Lucca ti riveddi68.
58.
Tu puoi far conto allor d’averla vista,
Perchè mentr’ella beve un’acqua tale,
Ti fuggirà in un subito di vista
E tu resterai quivi uno stivale.
Se tu non l’ubbidisci, ella, ch’è trista,
Vedendo che il pregare e il dir non vale,
Intorno ti farà per questo fine
Un milion di forche69 e di moine,

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59.
E se di compiacerla poi ricusi,
Dirà che tu buon cavalier non sia,
Mentre conforme all’obbligo non usi
Servitù colle dame e cortesia;
Ma lascia dire e tien gli orecchi chiusi,
Non ti piccar di ciò, sta’ pure al quia70;
Gracchi a sua posta; tu non le dar bere
Acciò non fugga, e poi ti stia il dovere71.
60.
Con questa, che sarà fatta a pennello
Come tu cerchi, leverai dal cuore
Ogni doglia ogni affanno al tuo fratello,
Ed io te n’entro già mallevadore;
Vientene dunque meco e sta’ in cervello,
Cammina piano, e fa’ poco romore;
Che se e’ ci sente a sorte o scuopre il cane
Non occor’altro, noi abbiam fatto il pane72.
61.
Zitti dunque, nessun parli o risponda;
Andiamo, ch’e’ s’ha a ir poco lontano.
Così va innanzi e l’altro lo seconda,
E il servitor gli segue anch’ei pian pìano;
Ma quel demonio che va sempre in ronda,
Gli sente e gli vuol vincer della mano73;
Perchè74 gli aspetta, e il vecchio ch’alla siepe
Vien primo, chiappa su come di’ pepe75.

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62.
A casa lo strascina e te lo ficca
’N un sacco e colla corda ve lo serra;
E fatto questo, a un canapo l’appicca
Che vien dal palco giù vicino a terra;
E per pigliar il resto della cricca,
Esce poi fuora; ma nel fatto egli erra,
Chè, quand’ei prese quello, gli altri due
Ad aspettarlo avuto avrian del bue.
63.
Ed oggimai si trovano in franchigia;
Sicchè Magorto quivi ne rimane
Un bel minchione, e n’è tanto in valigia,
Che nè manco daria la pace76 a un cane.
Sfogarsi intende e a quella veste bigia
Vuole un po’ meglio scardassar le lane;
Perciò su verso il bosco col pennato77
A tagliar un querciuol va difilato.
64.
Brunetto, che l’osserva di nascosto,
Vedutolo partire, entra nell’orto
E corre a casa, di veder disposto
Quel ch’é del vecchio, s’egli è vivo o morto.
Così chiuso in quel sacco il trova posto,
Chè ’l poverin, trovandosi a mal porto,
E trema, e stride, e par che giù pel gozzo
Egli abbia una carrucola da pozzo.

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65.
Ed ei le corde al sacco a un tratto sciolte,
E fatto quel meschino uscirne fuore,
Che lo ringrazia e bacia mille volte
E fa un salto poi per quell’amore,
Vi mette il can che guarda le ricolte,
Dandogli aiuto ed egli e il servitore.
E poi con piatti e più vasi di terra,
Due fiaschi di vin rosso, e lo riserra.
66.
E l’attacca alla fune in quella guisa,
Ch’egli era prima, e poi di quivi sfratta;
E del fatto crepando delle risa,
Di nuovo con quegli altri si rimpiatta;
Quando Magorto, in giù viene a ricisa78
Con una stanga in man cotanto fatta79;
Perchè gli par mill’anni con quel tronco
Di far vedere altrui ch’ei non è monco.
67.
Arriva in casa, e sbracciasi, e si mette,
Serrato l’uscio, con quel suo randello
Sopr’a quel sacco a far le sue vendette,
Suonando, quant’ei può sodo a martello.
Il Romito che stava alle velette,
Perchè l’uscio ha di fuora il chiavistello,
Andò, benchè tremando, e con spavento
Che avea di lui; e ve lo serrò drento.

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68.
Ed ei ch’è in sulle furie, non vi bada,
Chè insin ch’ei non si sfoga non ha posa.
Sta intanto il vecchio all’uscio fermo in strada
Ad origliare per udir qualcosa;
E sente dire: o leccapeverada80,
Carne stantia, barba piattolosa,
Ribaldo, santinfizza81 e gabbadei,
Ch’a quel d’altri pon cinque e levi sei!82
69.
Guardate qui la gatta di Masino83
Che riprendeva il vizio ed il peccato,
Se il monello84 ha le man fatte a oncino,
Per gire a sgraffignar poi vicinato!
Ma quel c’hai tolto a me, ladro assassino,
Non dubitar, ti costerà salato;
Chè tante volte al pozzo va la secchia,
Ch’ella vi lascia il manico o l’orecchia.
70.
Poi sente ch’egli, dopo una gran bibbia
D’ingiurie dà nel sacco una percossa
Che tutte le stoviglie spezza e tribbia,
E ch’ei diceva: orsù, gli ho rotto l’ossa;
E che di nuovo un’altra ne raffíbbia,
E che, facendo il via la terra rossa,
Soggiunge: oh quanto sangue ha nelle vene!
Questo ghiottone a me85, beeva bene!

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71.
Bench’ei creda finita aver la festa,
Tira di nuovo e dà vicino al fondo.
Ed il suo cane acchiappa in sulla testa
Che fa urti che van nell’altro mondo;
Ond’egli stupefatto assai ne resta,
Dicendo: qui è quando io mi confondo;
Se tutt’il sangue egli ha di già versato,
Come a gridar può egli aver più fiato?
72.
Brunetto in questo mentre col suo fante
Avea di già, scorrendo pel giardino,
Il luogo ritrovato e quelle piante
Ov’è colei che chiede il suo Nardino.
E già l’ha tratta fuor bell’e galante,
Che non si vedde mai il più bel sennino86;
E con un suo bocchin da sciorre aghetti87
Chiede da ber; ma non già se l’aspetti.
73.
Perch’ei del certo in quanto a contentarla
Non ci ha nè meno un minimo pensiero;
E però quante volle ella ne parla,
Muta discorso e la riduce al zero;
Ma perch’ella è mozzina88, e colla ciarla
Le monache trarría del monastero,
Vede che s’ella bada troppo a dìre,
Si lascerebbe forse convertire;

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74.
Però per non cadere in questo errore,
La piglia a un tratto e se la porta in strada;
Ed al vecchio fa dir pel servitore
Che più tempo non è di stare a bada
E ch’ei ne venga, ch’ei l’aspetta fuore,
Acciò con essi anch’egli se ne vada;
Che lì non vuoi lasciarlo nelle peste,
Ma condurlo al paese alle lor feste.
75.
Così di là poi tutti fer partita,
Ma più d’ogn’altro allegra la fanciulla;
Perchè non prima fu dell’orto uscita,
Ch’ogni incanto ogni voglia in lei s’annulla.
Anzi a’ lor preghi in sul caval salita,
Senza più ragionar di ber nè nulla,
Va sempre innanzi agli altri un trar di mano
Fiera e bizzarra come un capitano.
76.
Brunetto si ridea di Pigolone,
Perch’ei parea nel viso un fico vieto,
E menava a due gambe di spadone89,
Come egli avesse avuto i birri dreto.
E la donna diceva: Giambracone,
Che la duri!90 ed il vecchio mansueto,
Che si vedeva fatto il lor zimbello:
Dàgli pur, rispondea, ch’egli è sassello91.

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77.
Così scherzando, com’io dico, in briglia92
Ne vanno senza mai sentirsi stanchi;
E sempre ognun più calda se la piglia,
Perchè il timor gli spinge e sprona i fianchi
Perciò, dopo aver fatte molte miglia,
E che lor parve un tratto d’esser franchi,
Tutti affannati per sì lunga via,
D’accordo si fermaro a un’osteria.
78.
Dove il padron, che intende fare a pasto93,
Trova gran roba per parer garbato;
Ch’ei tien che a far non abbian troppo guasto,
Ma e’ non sa ch’e’ non hanno desinato.
Ben se n’accorge alfin ch’ei v’è rimasto,
Quando in sul desco poi non restò fiato,
E che quella per lui è una ricetta,
Che il guadagno va dietro94 alla cassetta.
79.
Magorto intanto, finalmente stracco,
Di menar il randello a quel partito,
Sciolto ed aperto avendo omai quel sacco
Per cucinar la carne del romito,
Ed in quel cambio vistovi il suo bracco
Tra cocci e vetri macolo e basito,
Resta maravigliato in una forma,
Ch’ei, non sa s’ei sia desto o s’ei si dorma.

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80.
S’io percossì quel vecchio mariuolo,
Com’ho io fatto, disse, un canicidio?
So ch’io lo presi e lo serrai qua solo,
Chè gnun potea vedermi o dar fastidio;
Non so s’io sono il Grasso Legnaiuolo95
A queste metamorfosi d’Ovidio,
Che sono in ver meravigliose e strane
Poichè un romito mi diventa un cane.
81.
Cane infelice, povero Melampo,
Che netto qua tenei96 quanto si scerne!
Chi più farà la guardia al mio bel campo
Adesso che t’hai chiuse le lanterne?
Io ho una rabbia addosso ch’io avvampo,
Con quel vecchiaccio barba d’Oloferne97
Che al certo fatto m’ha così bel giuoco;
Che dubbio? metterei le man nel fuoco.
82.
Oimè! le mie stoviglie e il vin di Chianti98
Ch’io tolsi in dar la caccia a un vetturale,
A cagion di quel tristo graffiasanti
In un tempo e versato e ito male.
Giuro al ciel ch’io non vo’ ch’ei se ne vanti;
E s’ei non vola, può far capitale
Ch’io voglia ritrovarlo; e s’ei c’incappa
Che mi venga la rabbia s’ei mi scappa.

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83.
Lo troverò bensì, perch’io vo’ ire
Qua intorno per veder s’io lo rintraccio.
Così corre alla porta per uscire,
Ma ei non può farlo perch’e’ v’è il chiavaccio.
Lo squote e sbatte per voler aprire,
Ed or v’attacca l’uno or l’altro braccio.
Noiato alfine vanne e corre ad alto,
E da’ balconi in strada fa un salto.
84.
Ma perchè ei vede quivi le pedate
Volte al giardino e poi verso la via,
Che Brunetto e quegli altri avean lasciate
Quando v’entraro e quando andaron via,
Insospettito lascia andare il frate
Ed entra nel giardino, e a quella via
Scorge quel suo cocomero diviso,
Ch’è stato99 il fargli un fregio sopr’al viso.
85.
Poichè levata gli han quella figliuola
Che in esso, com’io ho detto, si trovava,
Per la stizza non può formar parola;
Si sgraffia, batte i denti e fa la bava;
E spalancando poi tanto di gola,
Urla, bestemmia il ciel, minaccia e brava,
Dicendo: o Macometto e tu comporti
Che si facciano al mondo questi torti?

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86.
In quanto a te, chi ti pisciasse addosso,
So ben che tu non ne faresti caso;
Ma io che da miei dì mai bevvi grosso,
E le mosche levar mi so dal naso,
Saprò ben io a costor fare il cul rosso:
Credilo pur; perchè s’e’ si dà il caso,
Che si darà senz’altro, ch’io gli arrivi,
Io me gli vo’ di posta ingoiar vivi.
87.
Ma dove col cervel son io trascorso?
Più bue di me non è sotto le stelle;
Perch’innanzi ch’io abbia preso l’orso
Vo’, come si suol dir, vender la pelle.
Fatti ci voglion qui, perchè il discorso
Fuorchè a i sensali, non fruttò covelle;
E mal per chi ha tempo e tempo aspetta:
Chè mentre piscia il can, la lepre sbietta.
88.
E però prima che a viola a gamba100
Una fuga mi suonin di concerto,
A casa Pigolon vogl’ir di gamba
Che vi sarà co’ complici del certo.
Così conchiuso, corre ch’ei si sgamba,
E come un bracco va per quel deserto,
Tutti quanti quei luoghi a uno a uno
Cercando, s’ei vi scopre o sente alcuno.

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89.
Quel della cella del romito è il primo,
Ove trovando il passo e porto franco,
Intana drento e non vi scorge nimo101,
Fruga e rifruga in qua e in là, nè anco;
Sgomina ciò che v’è da sommo a imo,
Ma tutto invano; ond’egli al fine stanco
Se n’esce colle man piene di vento,
Ma dieci volte più di mal talento.
90.
Entrò nel bosco e ogni contrada scorse
E in somma ne cercò per mari e monti;
E vedde senza metterla più in forse,
Il pigiato esser lui al far de’ conti;
Onde nel fine all’arti sue ricorse,
Chè pur vuol vendicar sì grandi affronti;
Così v’arriverò po’ poi in quel fondo,
Se voi foste, dicea, di là dal mondo.
91.
E poichè fatti egli ha certi suoi incanti
Che gli riescon bene e vanno a vanga102,
Andate, dice, o stummia103 di furfanti,
Poich’a pianger volete ch’io rimanga.
Che sieno in casa vostra eterni pianti,
Tal che ciascuno e fino al gatto pianga.
E così poi di quanto aveva detto
Nè più nè manco ne seguì l’effetto.

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92.
Poichè Brunetto e le sue camerate
Pagaron l’oste (il quale assai contese,
Perchè le gole lor disabitate104
Gli eran parute care per le spese),
Partiron, e poi dopo altre fermate,
Ei le condusse salve al suo paese;
E giunto a casa, ringraziando il cielo
Entra in sala, e di posta fa un belo105.
93.
Entra la donna col romito appresso,
E, cominciaro a piangere ambedui;
Entra il famiglio e anch’egli fa lo stesso,
Senza saper perchè, nè men per chi.
Trovan Nardino ancor di male oppresso
E sbietolar lo veggono ancor lui;
L’astante che porgevagli l’orzata,
Pur ne faceva la sua quattrinata106.
94.
Nardin vede colei bell’e vezzosa
Com’appunto l’aveva nel pensiero.
E dice: benvenuta la mia sposa;
Voi mi piacete a fè da cavaliero;
Ma voi piangete? ditemi una cosa,
Voi ci venite a malincorpo, è e’ vero?
Non vogliate risponder ch’e’ non sia,
Perchè voi mi diresti una bugia.

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95.
Mettete pur così le mani innanzi,
Rispond’ella, signor, per non cadere;
Mentre temendo ch’io non mi ci stanzi,
Specorate107 sì ben, ch’egli è un piacere:
Ch’io mi vi levi, ditemi, dinanzi,
Chè voi non mi potete più vedere,
Senza darmi la burla, ch’io m’acquieto,
E senza replicar do volta a dreto.
96.
Nè sossopra la man108 non volterei,
Chè l’andare e lo star, mi son tutt’una;
E bench’al mondo io sia come gli Ebrei
Che non han terra ferma o patria alcuna,
Andrò pensando intanto a’ fatti miei,
Per veder di trovar miglior fortuna;
Perchè, come dìceva Mona Berta,
Chi non mi vuol, segn’è che non mi merta.
97.
Ed ei risponde: oimè! Signora mia!
Non vi levate in barca così presto;
S’io non v’ho detto o fatto villanía,
Perchè venite voi a dirmi questo?
Abbiate un po’ più flemma in cortesia,
Ch’ogni cosa andrà bene in quanto al resto;
Voi siete bella ed anco di più sposa,
Però non vogliat’esser dispettosa.

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98.
Ella soggiunge, ed egli ribadisce:
Ella non cede, ed ei risponde a tuono:
Pur gli acquieta Brunetto, e al fin gli unisce,
Sicchè l’un l’altro chiedesi perdono;
Ma non per questo il lagrimar finisce,
Ch’ognora in casa e fuora e ovunque sono,
Perchè sempre si smoccica e si cola,
Hanno a tenere agli occhi la pezzuola.
99.
Vivono in somma in un continuo pianto;
Piangono i servi e piangon gli animali;
Onde il guazzo per terra è tale e tanto,
Che e’ portan tutti quanti gli stivali.
Ma torniamo a Magorto, che frattanto,
Per saper quel che sia di questi tali
E dove la sua figlia si ritrovi,
Ha fatto al consueto incanti nuovi.
100.
E veduto ch’ell’è tra buona gente
Moglie d’un ricco e nobil baccalare109
E che giammai le può mancar nïente
Perch’ella è in una casa come un mare,
Non vi so dir s’ei gongola e ne sente
Contento grande e gusto singolare;
Di modo ch’ei si pente, affligge e duole
Di quanto ha fatto, e risarcir lo vuole.

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101.
Perciò, per un suo cogno110 se ne corre,
E nell’orto lo porta dove è un frutto
C’ha i pomi d’oro, e ne comincia a corre
Durando fin che l’ebbe pieno tutto.
E poichè dentro più non ne può porre,
Sapendo che ’l suo aspetto è molto brutto,
Si lava, ripulisce e raffazzona,
E rimbellisce tutta la persona.
102.
E presa addosso poi quella sua cassa
Ch’è tanto grave ch’ei vi crepa sotto,
Si mette in via, e presto se ne passa
Ov’è la figlia e il flebile raddotto,
Che al suo venire ogni mestizia lassa
Mutando in riso il pianto sì dirotto;
E versa i pomi in mezzo della stanza
Poi si sberretta in termin di creanza.
103.
E dice ch’egli è il padre della sposa,
E che di lui non abbiano spavento;
Perch’egli omai scordato d’ogni cosa,
L’antico sdegno totalmente ha spento.
Anzi, come persona generosa,
Vuol dare agli sponsali il compimento,
Ch’è quello che la sposa abbia la dote,
E che non vadia a marito a man vote.

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104.
E perchè qualsivoglia donnicciuola
Porta la dote ed il corredo appresso,
Acciocch’in quella casa la figliuola
Possa mostrar d’aver qualche regresso111,
Nè che112 gli abbian a aver quel calcio in gola
Che un picciolo nè anche v’abbia messo,
La vuol dotar conforme al grado loro
Con quel gran monte di bei pomi d’oro.
105.
Gli sposi allor brillando con Brunetto
Gli rendon grazie e fan grata accoglienza;
Ed ordinato un grande e bel banchetto
Reiterâr le nozze in sua presenza.
Ed egli poi al fin con ogni affetto
Riverì tutti e volle far partenza,
Lodandosi del furto del romito,
Che sì grand’allegrezza ha partorito.


Note

  1. St. 1. Girone (giro). Villaggio a tre miglia da Firenze.
  2. St. 2. Anzichè no. Pare che sia usato in senso di Ma, anzi no.
  3. Questi. L’astemio ha l’utilità dello star sempre in cervello, ma non altro; ma non sente nessun piacere.
  4. St. 3. Pecchia. Succia, come pecchia.
  5. St. 5. Barbaglio. Ciò che abbarbaglia; una meraviglia.
  6. St. 6. Paride ecc. Vedi c. III, 11.
  7. Lova. Lupa, meretrice.
  8. Busecchie. Tasche.
  9. Cerboneca. Vino fradicio.
  10. St. 7. Sperando d’appropriarsi l’avanzo del danaro.
  11. Calìa, Rimasugli dell’oro o argento che si lavora. Qui, avanzo.
  12. St. 8. Slazzera. Cava fuori e paga; dal Lazzare, veni foras.
  13. St. 9. Gatto Frugato. Uomo accorto.
  14. Le furon buone mosse dicesi quando i barberi del palio vengono davvero, dopo che molte volte si è sentito invano gridar dalla gente: Eccoli! Eccoli!
  15. St. 10. Briccone. Brindisi.
  16. St. 11. Dal vedere ecc. In un batter d’occhio.
  17. St. 12. Serqua. Dozzina, 12 uova.
  18. Lotte. Forze.
  19. Sventri. Scoppi.
  20. portata di nuovo vino dopo molto mangiare e bere.
  21. St. 11. Dal vedere ecc. In un batter d’occhio.
  22. St. 12. Serqua. Dozzina, 12 uova.
  23. Lotte. Forze.
  24. Sventri. Scoppi.
  25. portata di nuovo vino dopo molto mangiare e bere.
  26. St. 14. In su la schiena ecc. in pantani o stagni, che non è buono.
  27. St. 15. Minchioni la mattea. Burli. Vedi c. IV, 15.
  28. St. 18. Spulezza. Va via in furia.
  29. St. 19. Sciaguattare. Frequentat. di sciacquare.
  30. St. 21. Il romano fu uno stufaiuolo, che insegnava nuotare alla gioventù fiorentina.
  31. Mette a entrata. Tien per certo; dall’allibrare a entrata che fanno i computisti il danaro ricevuto.
  32. St. 22. Pannocchie. Spighe della saggina, panico e simili.
  33. St. 23. Musiche acquaiuole. Ranocchie.
  34. Bergamasca. Un certo ballo.
  35. Cazzuole. Animaletti neri del genere de’ batraciani.
  36. St. 24. Non fa farina. Non m’importa e non mi frutta nulla.
  37. St. 25. Sbraculato. Senza brache o calzoni.
  38. Mona Checca chiamavano i fanciulli fiorentini uno scheletro rivestito, che solevasi esporre nei sotterranei della Basilica di San Lorenzo, il 2 novembre.
  39.  — Cilecca, Celia, burla.
  40. Ho Stoppato. Vedi c. III, 34.
  41. Per san Giovanni. Il giorno di San Giovanni, patrono di Firenze, soleva il magistrato della zecca mandare in offerta un gran carro in forma piramidale, assai alto (e però facile a scuotersi e tremare), con in cima un uomo legato a un palo, che rappresentava il Santo. Dice il Biscioni che questa usanza fu abolita perchè, fra le altre indecenze, la plebe soleva dire a quel figuro che era stato legato al palo, san Giovanni birbone.
  42. St. 30. Servir di coppa ecc. Far da coppiere e da scalco; farsi scambievolmente ogni maggior servizio.
  43. St. 31. Aguzzato il mulino. Vedi c. IV, 58.
  44. St. 32. I Simili. Titolo di commedia in cui due personaggi, simili in modo da scambiarsi, sono cagione di mille equivoci.
  45. St. 33. Rensa. Tela di lino fina; da Rems ove fabbricavasi.
  46. Lensa o Lenza, filo dell’amo.
  47. St. 35. L’impruneta è a cinque miglia da Firenze.
  48. St. 36. Miccio. Ciuco, asino.
  49. St. 37. A credenza. Qui, sconsigliatamente, senza fondamento
  50. Insacca ecc. Dà nella rete d’amore.
  51. Frugnolo è quella lanterna con cui di notte si va a caccia agli uccelli.
  52. Tien ecc. Crede che, come primo rimedio, sia ottima ricetta una sedia portatile in cui rimandarlo a casa.
  53. St. 39. Pianta una vigna. Non bada affatto, perchè è tutto assorto nel suo pensiero, come il contadino nel piantar la vigna.
  54. St. 40. La biacca adoperavasi come rimedio esterno per leggerissimi mali.
  55. Alla moda. Ciò che incomincia a venire in moda è insolito e strano.
  56. St. 42. Dentro è chi ecc. si dice di chi ha buona cera ma viscere guaste.
  57. Succhiellare. Tirar la carta da giuoco, che, è coperta, adagio adagio. Qui, si disponga a...
  58. St. 45. Ancroia Così chiama il Berni la sua vecchia cameriera.
  59. St. 46. Se rinviene. Se quegl’impiastri secchi rigonfiano.
  60. St. 48. Macone. Macometto, Maometto, il diavolo.
  61. St. 49. Fiorito. Pien di fiori.
  62. St. 50. Teneva il campanello. Parlava sempre lui.
  63. St. 51. Sei nato vestito. Sei fortunato.
  64. St. 53. ’N una buca. A Fiesole, mostrano anche oggidì la Buca delle Fate.
  65. St. 54. Va in su i balestri. Ha gambe sottili e torte.
  66. St. 55. Berlingaccio. Giovedì grasso.
  67. St. 56. Scompartimenti del suo giardino. Quadri, aiuole.
  68. St. 57. A Lucca ti riveddi. Non la vedrai più.
  69. St. 58. Forche. Smorfie, lezi, carezze.
  70. St. 59. Sta’ pure al quia. Sta’ sodo.
  71. Ti sta il dovere diciamo a cui sia incolto un male meritato.
  72. St. 60. Abbiam fatto ecc. Abbiam dato nel laccio. È finita per noi.
  73. St. 61. Aver la mano, al giuoco, vale Essere il primo a tirare, il che spesso è vantaggio.
  74. Perchè. Perciò.
  75. Come di’ pepe. Colla massima facilità. Di’ sta in luogo di dir: l’ r, nel pronunziare rapidamente, sparisce.
  76. St. 63. Non darìa la pace. Non lascerebbe vivere in pace nemmeno un cane.
  77. Pennato. Coltellone adunco da potare.
  78. St. 66. A ricisa. Difilato.
  79. Cotanto fatta. Tanto grossa e lunga. Così diciamo accompagnando il detto col gesto.
  80. St. 68. Peverada. Brodo. Leccabrode, Porco.
  81. Santinfizza Gabbadei, Ipocrita.
  82. Che nella roba altrui poni cinque (dita), e ritiri la mano con sei (cose); le 5 dita e la cosa rubata che fan 6.
  83. St. 69. La gatta di masino fingeva d’esser morta.
  84. Se il monello. Sottintendi guardate se ecc.
  85. St. 70. A me. Secondo me.
  86. St. 72. Bel sennino. Bella donna, savia e pulita.
  87. Sciorre aghetti. A volere sciogliere co’ denti un nodo in un cordoncino che abbia o no il puntale di metallo si atteggia la bocca in un certo modo, che essa pare molto stretta.
  88. St. 73. Mozzina. Astuta.
  89. St. 76. Menar di spadone a due mani s’intende bene quel che significhi: detto a due gambe, vale fuggire.
  90. Che la duri tu a camminare! — Dice il Minucci che Giambracone fu un tale che andava sempre dicendo: Che la duri!
  91. Sassello è una specie di tordo che si crede più astuto degli altri; e però appena scoperto col frugnolo, si dice: Dàgli colla ramata, chè è sassello e scappa presto. Qui il detto è preso in un altro senso, quasi dicesse: Canzonate quanto vi pare.
  92. St. 77. Scherzano in briglia i cavalli nell’uscire di scuderia.
  93. St. 77. A pasto. A pagare un tanto per persona, non un tanto per vivanda.
  94. Va dietro e non dentro alla cassa; dunque non v’è guadagno.
  95. St. 80. Il Grasso Legniaiuolo fu un Fiorentino tanto semplice, che, gli fu dato a credere, ch’e’ non era più lui. Vedi la Novella così intitolata.
  96. St. 81. Tenei per tenevi.
  97. Barba d’Oloferne è lo stesso che Testa d’impiccato.
  98. St. 82. Chianti. Regione di Toscana che produce vino eccellente.
  99. St. 84. Che è stato ecc. La qual cosa è stata il maggiore sfregio che a Magorto potesse farsi.
  100. St. 88. Viola a gamba. Violoncello. Fuga, concerto sono termini musicali.
  101. St. 89. Nimo. Nemo, niuno
  102. St. 91. Vanno a vanga. Vanno bene, come quando la terra cede quasi al peso della vanga.
  103. Stummia. Schiuma.
  104. St. 92. Gole disabitate. Insaziabili.
  105. Belare. Piangere, e così appresso sbietolare.
  106. St. 93. Quattrinata. Parte; quel tanto di merce che si può avere per un quattrino; e così diciamo scudata ecc.
  107. St. 95. Specorate. Belate, piangete
  108. St. 96. Sossopra la man ecc. Mi è tanto indifferente l’una o l’altra cosa, che non mi prenderei la pena di voltare una mano perchè segua più presto l’uno che l’altro effetto.
  109. St. 100. Baccalare. Uomo di stima. Baccelliere e Licenziato
  110. St. 101. Cogno. Congius; misura.
  111. St. 104. Qualche regresso. Qualche facoltà di rivalersi, qualche autorità.
  112. Nè che ecc. E che dal non aver lei dote non abbiano a prender motivo di conculcarla.