Malmantile racquistato/Ottavo cantare

Ottavo cantare

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Settimo contare Nono cantare

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OTTAVO CANTARE.

ARGOMENTO.

Dalle sue Fate Paride vestito,
Vede la galleria di quell'albergo:
D'un'avventura grande è poi avvertito,
E appresso ha un libro che non parla in gergo,
Con una spada d'un acciar forbito;
Ond'ei piglia licenza, e volta il tergo.
Vien Piaccianteo condotto al generale,
Che non gli volle far nè ben nè male.

1.
Vorrei che mi dicesse un di costoro
Che giostran tutta notte per le vie,
Che gusto v’è; perchè, a ridurla a oro1,
Non v’è guadagno e son tutte pazzie;
Poichè, lasciando ch’e’ non è decoro,
L’aria cagiona cento malattie.
Mille disgrazie possono accadere,
Mille malanni, diavoli e versiere.

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2.
Sapete ch’e’ s’inciampa e ch’e’ si casca;
Si può in cambio d’un altro esser offeso;
O dar in un, se t’hai moneta in tasca,
Ch’alleggerir ti voglia di quel peso;
Manca in qual mo’ si può correr burrasca:
Però vi giuro, ch’io non ho mai inteso
La fin di questi tali, e tengo a mente
Quel ch’un tratto mi disse un uom valente.
3.
La notte, disse, è un vaso di Pandora,
Che versa affronti, risichi e tracolli;
Perocchè nel suo tempo sbucan fuora
Tutti i ribaldi, ladri e rompicolli;
Onde sia ben riporsi di buon’ora:
E deve esempio l’uom pigliar da’ polli,
Che l’un di loro al più vale un testone2,
E pria che ’l Sol tramonti, si ripone.
4.
Ed egli, che d’un mondo assai più vale,
Sta fuori tutta notte, o diacci o piova;
E gira al buio come un animale,
Cercando di Frignuccio3 in bella prova;
Nè fia gran fatto poi se gli avvien male,
Chè ben sapesti che chi cerca trova.
Ed eccovene in Paride il riscontro,
In modo che non v’è da dargli contro.

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5.
Perchè le son tutte cose provate
E vere, che non v'è spina nè osso;
E non si trovan poi sempre le Fate,
Che vengano a levarti il mal da dosso;
Come al Garani, quand'a gambe alzate
Andato era la notte giù nel fosso,
Che, mentre conteggiava colla morte,
Da esse ebbe un favor di quella sorte.
6.
Or questi vuol che pur di lui discorra,
Onde di nuovo a' atti suoi ritorno.
Le ninfe, che 'l vedean batter la borra4,
Tutte li son co' panni caldi attorno;
E già tra loro par che si concorra
Di fargli dare una scaldata in forno;
Ma perchè questo in danno suo risulta,
Dir volle il suo parere anch'ei in consulta.
7.
Che terminò di non farn'altro; ond'esse
Lo feron rivestire a spese loro;
Una camicia nuova una gli messe,
C'ha dal collo e da man trina e lavoro;
L'altra il giubbone, un'altra le brachesse,
Tutto di un ricco e nobil quoio5 d'oro;
Un'altra gli ravvia la capelliera
E gli mette il benduccio6 e la montiera7.

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8.
A spasso poi lo menan per la mano
A veder la lor bella abitazione,
Ma poi più buona, benchè sia in pantano,
Perchè a pagar non hanno la pigione;
La quale è un negozio odioso e strano,
Quando quell’insolente del padrone
Ti picchia a casa e con sì poca grazia
Chiede il semestre, ch’e’ non v'è una crazia8.
9.
Circa questo, pensiero elle non hanno.
Nè di fare altre spese, come accade
Ad ogni galantuomo a capo d’anno
D’acconci tasse e lastrichi di strade.
Il vento, e il freddo non può far lor danno,
Perch’il tetto, che scorre e mai non cade,
L’inverno su i pilastri di corallo
Si ferma e forma un palco di cristallo,
10.
Di state il Sole giù ne’ lor quartieri
Non può col frugnolone9 aver l’ingresso;
Tal ch’elle stanno bene e volentieri,
E godono un pacifico possesso.
Paride intanto infra tazze e bicchieri,
E di più sorte vini e frutte appresso,
Con esse ritrovandosi in cantina,
Volle provarne almeno una trentina.

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11.
Nè per questo alterato egli ne resta;
O venga ch’egli è avvezzo in Alemagna,
O che quel vin faccia a salvar la testa,
Ed in quel cambio dia nelle calcagna;
Ragion che quadra bene e quella e questa,
Perch’ei non urta mai chi l’accompagna,
Ma sempre in tuono, e dritto com’un fuso
Con esse per le scale torna suso.
12.
Ov’egli entrato in una bella sala,
Ch’ella sia l’accademia si figura;
Perchè vi son l’aratolo e la pala,
Strumenti da studiar l’agricoltura:
Di lì poi salgon sopr’a un’altra scala
Di baston congegnati infra due mura,
Donde, arpicando come fan le gatte,
Vanno a passar per certe cateratte.
13.
Ma qui la Musa vuol ch’io mi dichiari.
Circa al descriver queste loro stanze;
Chè s’io vi pongo addobbi un po’ ordinari,
Non son per dir bugie nè stravaganze;
Perchè le ninfe han solo i necessari,
Nè voglion pompe nè moderne usanze,
Per insegnare a noi ch’abbiam le borie
Di quadri, e letti d’oro, e tante storie.

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14.
Ch’ognun vuol far il principe al dì d’oggi;
Sebben chi la volesse rivedere10,
Molti si veggon far grandezze e sfoggi,
Che sono a specchio11 poi col rigattiere12.
Il lusso è grande e già regna in su i poggi13,
E son nelle capanne le portiere.
E tra cannelli14 insin qualsivoglia unto
Ha i suoi stipetti e seggiole di punto15.
15.
Orsù, perch’ío non caschi nella pena
De’ cinque soldi16, ecco ritorno a bomba
A brache d’or17, che nel salire arrena
Per quella scala che va su per tromba
Perchè, sebbene ei fa il Mangia18 da Siena
Gli è disadatto e pesa ch’egli spiomba;
E colle ninfe a correr non può porsi,
Massime lì, che v’è un salir da orsi.
16.
Elle di già, com’io diceva adesso,
Uscite son di sopra a stanze nuove,
Aspettando che faccia anch’ei l’istesso
Ch’appunto com’il gambero si muove;
Onde convien poi loro andar per esso,
Ed aiutarlo fin che piacque a Giove,
Che quasi manganato e per strettoio
Passasse ad alto il cavalier di quoio,

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17.
’N un dormitorio grande, ma diverso19,
Ove ciascuna in proprio ha la sua cella,
Che sta, com’io dirò, per questo verso,
Se non erra Turpin che ne favella,
Una stanga a mezz’aria evvi a traverso,
Dov’ella tien le calze e la gonnella,
Il penzol20 delle sorbe e del trebbiano21,
E quel che più le par di mano in mano.
18.
Più giù da banda un tavolin si vede
Che su i trespoli fa la ninna nanna,
E fa spalliera al muro, ove si vede
Una stoia di giunchi e sottil canna.
Evvi una madia zoppa da un piede,
E il filatoio colla sua ciscranna22;
Non v’è letti, se non un per migliaio
Chè tutte quante dormono al pagliaio.
19.
Paride guarda e par che gliene goda;
Chè la gente alla buona e positiva
Sempre gli piacque, e la commenda e loda.
In questo mentre a un’altra porta arriva,
E nel sentir un certo odor di broda
Che tutto lo conforta e lo ravviva,
Entra di punta, perchè s’indovina
Che quella sia senz’altro la cucina.

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20.
Dal che sentitosi allegare i denti23
Si pensa che vi sien grand’apparecchi;
Ma trova in ozio tutti gli strumenti
E i piatti ripuliti come specchi:
Teglie e padelle, inutili ornamenti
Star appiccate al muro per gli orecchi;
Ed anche son per starvi più d’un poco,
Perchè il gatto a dormir vede in sul fuoco.
21.
Ond’egli offeso molto se ne tiene,
Ch’una mentita per la gola tocca;
Ma quelle che s’avveggon molto bene
Ch’egli ha l’arme di Siena24 impressa in bocca,
Gli accennan ch’ei vedrà25 se il corpo tiene;
Ed ei ghignando allor più non balocca,
E con esse ne va di compagnia
Per ultimo a veder la galleria.
22.
Di maiolica nobil di Faenza
Ivi le soglie sono e i frontespizi;
Quivi son quadri di gran conseguenza
Di principi ritratti e di patrizi,
Originali fatti già in Fiorenza
Da quel26 che gli vendea sotto27 gli Ufizi;
Ed evvi dello stesso una sibilla,
Ed una bella cittadina in villa.

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23.
Di cartapesta mensole e sgabelli
Intorno intorno innalzan, sopra al piano
Statue eccellenti di quei Prassitelli28,
Ch’a i sassi danno il moto in Settignano29;
Cedano i Buonarruoti e i Donatelli
A quel basso rilievo di lor mano30,
Ch’a’ Padri Scalzi pur si vede ancora31
Sull’arco della porta per di fuora.
24.
Sicchè quest’opre che non hanno pari,
Quanto i suddetti quadri c’han del vago,
Non si posson pagar mai con danari,
Perchè son gioie che non hanno pago.
Uno scaffale v’è di libri vari,
Ch’eran la libreria di Simon Mago,
Ch’abbellita di storie e di romanzi,
Fu poi venduta lor dal Pocavanzi32.
25.
Evvi un tomo fra gli altri scritto a penna,
Ch’a me par bello e piace sine fine,
Ove si legge in carta di cotenna
Tradotte le libréttine33 in sestine;
E che Galeno e il medico Avicenna
In musica mettean le medicine;
Però, se il corpo sempre a chi le piglia
Gorgheggia e canta non è meraviglia.

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26.
Un ve n’è in rima che La Sfinge è detto,
Scelta d’enigmi che non hanno uguali;
Perch’ognuno è distinto in un sonetto
Che il poeta ha ripien tutto di sali:
Perch’ei, che sa che è sale, ebbe concetto,
Acciocchè i versi suoi sieno immortali
E i vermi dell’obblio non dien lor noia,
Porgli fra sale e inchiostro in salamoia.34
27.
Altri poemi poi vi sono ancora,
Ed hanno35 caparrato alla Condotta36
Grillo37, il Giambarda, Ipolito e Dianora,
I sette Dormienti, e Donna Isotta,
E un certo Malmantil, che s’e’ va fuora,
Ecco subito bell’e messe in rotta
Le Dee col Bambi38, che l’ha chiesto, e vuole
Farne all’acciughe tante camiciuole.
28.
Evvi anch’un libro di segreti, il quale
Giova a chi legge e insegna di bei tratti,
E infra gli altri, a far che le cicale
Cantin, senza che ’l corpo se le gratti;
E a far che i tordi magri, coll’occhiale
Guardandogli, divengan tanto fatti.
Descrive poi moltissimi rimedi
Per chi patisce de’ calli de’ piedi.

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29.
S’io vi narrassi tutto il continente39,
Costui, diresti, ha i lucidi intervalli;
Pur vo’ contarven’ una solamente
Ch’è vera, nè crediate ch’io sfarfalli;
Racconta d’una tal parturïente
Che una carrozza fece a sei cavalli,
E ch’una voglia fu che avea avuta;
Ed io lo crederò senza disputa.
30.
Perchè la donna, come altera e vana,
Sopr’agli sfoggi ognor pensa e vaneggia;
E bench’ell’abbia un ceffo di befana,
Pomposa e ricca vuol che ognun la veggia:
Perciò colei ebbe la voglia strana
Della grandezza dell’aver la treggia
Ancorchè tutte, perchè il cervel gira,
Le girelle vorrian, chè ’l sangue40 tira.
31.
Ma basti circa i libri quanto ho detto;
Perch’io, che negli studi non m’imbroglio
E questi mai nè altri non ho letto,
Chè forse i fatti lor saper non voglio,
A qualche error non voglio star soggetto,
Chè pur troppi n’ho fatti sopr’al foglio;
E poi perchè son tanti e tanti i tomi,
Che né anco so dir d’un terzo i nomi.

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32.
Però seguiam con Paride le Dee
A veder cose belle e stravaganti;
E prima troverem di gran miscee:
Corpi di mummie ed ossa di giganti:
Essere in corpo a un pesce due galee
Impietrite con tutt’i naviganti,
Legni, li quali esse han per tradizione
Che fur fatti del giuggiol41 di Nerone.
33.
Chiuse in un vaso poi vedrem le gotte
Ch’ebbe quel vecchio chioccia42 di Sileno;
E l’asta che fu, dicon, di Nembrotte,
Con che volle infilzar l’arcobaleno;
Benchè si creda più di Don Chisciotte:
E veramente non può far di meno,
Perchè in vetta, nel mezzo della lama,
V’è scritto Dulcinea ch’era sua dama.
34.
Pende dal palco un secco gran serpente
Che quasi al coccodrillo s’assomiglia;
E dicon che la coda solamente
Per la lunghezza arriva a cinque miglia;
Ma quel che più curioso di nïente
È certo, è una grandissima conchiglia,
Ove fra minuta alga e poca rena
Sta congelato un uovo di balena43.

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35.
Evvi un mantice, il qual per via d’ingegni
Soffiando fa girare uno strumento
D’un arcolaio a ventiquattro legni,
Invenzion nuova d’orivolo a vento;
Perch’ogni stecca ha i suoi numeri e segni
Che mostran l’ore, e’ quarti e ogni momento.
Chi vi dipana sa quant’ei lavora,
Ch’al fin d’ogni gomitol suona l’ora.
36.
Una sfera bellissima si vede
Ch’è sopr’a un ben tornito piedistallo,
Che per giustezza tutte l’altre eccede,
O sien fatte di legno o di metallo;
Vada pure e sotterrisi Archimede
Con quella sua ch’ei fece di cristallo,
Ch’e’ bisogna guardarla e starsi addietro,
Perchè si rompe44 giusto come il vetro.
37.
Chè questa, che con ogni diligenza
Di purgate vesciche fu commessa,
Se per disgrazia o per inavvertenza
Perquote o cade, ell’è sempre la stessa.
E se ’l cristallo ha in sè la trasparenza,
La vescica al dïafano s’appressa;
Ed è un corpo che giammai non varia,
E quel si cangia ognor secondo l’aria.

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38.
Se in Grecia fatta fu la cristallina,
E questa45 di vesciche vien da Troia,
Che a Fiesol fa portata a Catilina
La notte ch’ei fuggì verso Pistoia;
Ch’ei non giunse nè anco alla mattina,
Ch’il poveraccio vi tirò le quoia46;
Sicchè due capitan sue camerate
La presero, e la diedero alle Fate.
39.
Mentre s’ammira così bel lavoro
E vi si fanno su cento argomenti,
Paride guarda, e vede una di loro
Cavarsi un occhio, la parrucca e i denti,
E dargli a un’altra, perchè in tutto il coro
Delle naiadi ch’ivi son presenti,
O fuora, chè pur anche son parecchi47,
Han sol quei denti, un occhio e due cernecchi48.
40.
Peroch’elle son cieche e vecchie tutte,
E loro i denti son di bocca usciti;
Ma non per questo ell’appariscon brutte
Ch’ell’hanno volti belli e coloriti;
E se mangiar non posson carne e frutte,
Elle s’aiutan con de’ panbolliti,
Perchè quei denti, come l’occhio e i ricci,
Non hanno più virtù, ch’e’ son posticci.

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41.
Gli portan per bellezza solamente
Una per volta, acciocchè per la via
S’ell’ha ir fuora a vista della gente,
Asconda ogni difetto e mascalcía;
Ma il tenergli la legge non consente,
Se non un’ora, e poi a quella via
A riportargli a casa vien costretta,
Acciocch’un’altra dopo se gli metta.
42.
Così per osservar le lor vicende,
Questa ch’io dico se gli cava adesso,
Già ritornata dalle sue faccende
Perch’il portargli più non l’è permesso;
Ond’a quell’altra gli consegna e rende,
Cedendo ogni ragion e ogni regresso49,
Perchè in quest’ora a ornarsi ad essa tocca
La fronte e il capo, e riferrar la bocca.
43.
Piena di cibi intanto una credenza
Vien pari pari aperta spalancata.
E fatta da vicin la riverenza,
Parole pronunziò50 di questa data:
Cavalier, se tu vuoi far penitenza,
E in parte a noi piacere e cosa grata,
Ho munizion da caricar la canna,
E poi da bere un vino ch’è una manna.

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44.
Credilo a me ch’egli è del glorïoso;
Però qua dentro, via, distendi il braccio,
Chè troverai del buono e del gustoso
Se tu volessi ben del castagnaccio51.
Paride fece un po’ del vergognoso;
Ma nel veder le bombole52 nel ghiaccio
Mandò presto da banda la vergogna,
E fece come i ciechi da Bologna53.
45.
Levatagli poi via la calamita
Di quel buon vino e massime del bianco,
Gli fataron le Dee tutta la vita,
Dalla basetta infuor del lato manco;
Sicchè, in quanto ad aver taglio o ferita
In altra parte, era sicuro e franco:
Poi dangli un brando colla sua cintura,
E del trattarlo l’intavolatura.
46.
E perchè il tempo ormai era trascorso
Che inviarlo dovean di quivi altrove,
Prima in sua lode fatto un bel discorso,
Che l’agguagliava a Marte, al Sole e a Giove,
Figliuol, dissero, quanto t’è occorso
Fin qui stanotte, e il come e il quando e il dove
A noi palese è tutto per appunto,
Anzi sei qui per opra nostra giunto.

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47.
Acciò tu vada incontro a un’avventura,
A pro d’un, pover uomo questa notte.
Questo è un tal, cognominato il Tura,
Ch’in Parïon54 gonfiava le pillotte.
Era in bellezze un mostro di natura,
sicchè tutte le donne n’eran cotte;
E lasciando i rocchetti ed i cannelli,
Per lui, ch’è ch’è, facevano a’ capelli.
48.
Non ch’ei ne desse loro occasïone,
Come qualche Narciso inzibettato,
Ch’una cuffia ch’e’ vegga a un verone,
Di posta corre a far lo spasimato;
Anzi è un di quei ch’al mondo sta a pigione,
A bioscio nel vestire e sciamannato;
Ch’addosso i panni ognor tutti minestra
Tirati gli parean dalla finestra.
49.
Ed esse eran capone; ma chiarite,
Alfin lasciando quel suo cuor di smalto,
Fecer come la volpe a quella vite
Ch’aveva sì bell’uva e tanto ad alto,
Che dopo mille prove, anzi infinite,
Arrivar non potendovi col salto
Gli è me’, disse, ch’io cerchi altra pastura,
Chè questa ad ogni mo’ non è matura.

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50.
Così non la saldò55 già Martinazza;
La qual non vi trovando anch’ella attacco,
Poichè gran tempo andata ne fu pazza.
Avendo il terzo e quarto e ognuno stracco56,
Condurre un giorno fecelo alla mazza57;
E per via d’un che le teneva il sacco58,
Avvezzo a tosar pecore ed agnelli,
Mentr’ei dormiva, gli tagliò i capelli.
51.
Quei capelli, ch’un tempo avea chiamati
Del suo fascio mortal funi e ritorte,
Le bionde chiome, o Dio! quei crini aurati,
Che ricoprivan tante piazze morte59;
Onde60 scoperti furo i trincerati,
Ove il nimico si facea sì forte;
Perchè, per quanto un autore accenna,
Lo rimondaron fino alla cotenna.
52.
E così Martinazza ebbe il suo fine,
Volendo vendicarsi per tal via;
Perocchè buona parte di quel crine.
Ch’alcun non se n’avvedde, leppò via;
E fabbriconne al Tura le rovine,
Con una potentissima malía,
Che registrata in Dite al protocollo
In un lupo rapace trasformollo.

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53.
E questo lupo raggirar si vede
Intorno a un montuoso casamento61
D’una gente, che mentre move62 il piede
Sopra alla terra v’è rinvolta drento.
Di questa cosa il tempo non richiede
Così per ora fartene un comento;
Perch’egli è tardi, e pria che tu l’intenda,
Spedir devi lassù questa faccenda.
54.
Or dunque vanne, e perchè tu non faccia
Qualche marron ma venga a arar dritto,
Acciò tal magistero63 si disfaccia,
Perchè scattando64 un pel tu avresti fritto,
In questo libro qui faccia per faccia
L’ordine e il modo si ritrova scritto;
Portalo teco, e acciocchè tu discerna,
Perch’egli è buio, to’ questa lanterna.
55.
Egli la prende con il libro insieme,
Dicendo che varrassi dell’avviso:
E che d’incanti e diavoli non teme,
Perch’egli è uom che sa mostrare il viso.
Si parte, e perchè al campo andar gli preme
In due parti vorrebbe esser diviso:
Pur vuol servirle, perch’ei si figura
Che non ci vada gran manifattura.

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56.
Considerando poi nel suo cervello
Che s’a quel luogo a bambera65 s’invia,
Potrebbe andar a Roma per Mugello66,
Perch’ei non si rinvien dov’ei si sia,
Ricerca nel suo mastro scartabello
Di quei paesi la geografia;
Ma quel, per quanto noi potrem comprendere,
Non si vorria da lui lasciare intendere.
57.
Fu Paride persona letterata
Che già studiato avea più d’un saltero67;
Ma poi non ne volendo più sonata,
Alla scuola studiò di Prete Pero68;
Però, s’ei non ne intende boccicata,
È da scusarlo; e poi, per dire il vero,
Lettere ed armi van di rado unite,
Perc’han di precedenza eterna lite.
58.
Ma benchè la lettura sia fantastica
A un che si può dir non sa nïente,
E ch’altro69 di virtù non ha scolastica
Che pelle pelle l’alfabeto a mente,
Tanto la biascia, strologa e rimastica,
Ch’a cómpito leggendo, finalmente
Il sunto apprende, e fra l’altre sue ciarpe
Ripone il libro, e sprona poi le scarpe.

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59.
Così cammina, e a quel castello arriva;
Passa dentro, lo gira e si stupisce
Che quivi non si vede anima viva,
Perch’a quell’ora in casa ognun poltrisce.
Ma perchè non è tempo ch’io descriva
Quanto col Tura a Paride sortisce,
Con buona grazia vostra farem pausa,
Per diffinir di Piaccianteo la causa.
60.
Che da quei tristi, com’io dissi dianzi70,
Fatto, mentre pappava, assegnamento
D’insaccarsi per lor quei pochi avanzi,
Toccò de’ piè nell’arsenal del vento.
Di poi gli stessi sel cacciaro innanzi
Giusto come il villano il suo giumento.
Pungolandolo come un animale,
Finchè lo spinser dove è il generale.
61.
Appunto il generale a far s’è posto
Alle minchiate71, ed è cosa ridicola
Il vederlo ingrugnato e maldisposto,
Perchè gli è stata morta una verzicola.
Le carte ha dato mal, non ha risposto,
E poi di non contare anco pericola,
Sendo scoperto aver di più una carta,
Perchè di rado, quando ruba, scarta.

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62.
Costoro alfine se gli fanno avanti,
Per dirgli del prigion c’hanno condotto;
Ma e’ posson predicar ben tutti quanti,
Perch’egli, ch’è nel giuoco un uomo rotto
E perde una gran mano di sessanti
E gliene duole e non ci può star sotto,
Lor non dà retta, e a gagnolare intento,
Pietosamente fa questo lamento:
63.
Che t’ho io fatto mai, fortuna ria,
Che t’hai con me sì grande inimicizia,
Mentre tu mi fai perder tuttavia
Che e’ non mi tocca72 pure a dir Galizia?
Questo non si farebbe anche in Turchia,
L’è proprio un’impietade un’ingiustizia.
Vedi, non lo negar, che tu l’hai meco;
E poi se n’avvedrebbe Nanni cieco.
64.
Ma se volubil sei quanto sdegnosa,
Facciam la pace, manda via lo sdegno;
E se tu sei de’ miseri pietosa,
Danne col farmi vincer qualche segno.
«Fu il vincer sempre mai lodevol cosa,
«Vincasi per fortuna o per ingegno;»
Perciò de’ danni miei restando sazia,
La fortuna mi sia, non la disgrazia.

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65.
Ma che gracch’io? forse che tai preghiere
Mi faran, dopo così gran disdetta,
Vincer la posta o porre a cavaliere73?
Sì, sì; ma basta poi non aver fretta.
O baccellaccio! l’orso74 sogna pere,
L’è bell’e vinta, ovvia tientela stretta.
Capitale!75 sai tu quel che tu hai a fare?
Se tu non vuoi più perder, non giocare.
66.
E così finiran tanti schiamazzi
Di chiamar la fortuna e i giuochi ingiusti;
Chè, mentre vi ti ficchi e vi t’ammazzi,
Tu spendi e paghi il boia che ti frusti.
Gli è ver; ma il libriccin del Paonazzi76,
Ov’io ritrovo ognor tutt’i miei gusti,
Per forza al giuoco mi richiama e invita
Appunto come il ferro a calamita.
67.
E sarà ver ch’io abbia a star soggetto
Ad una cosa che mi dà tormento?
Come tormento? oibò! s’io v’ho diletto!
Sì; ma intanto per lui vivo scontento.
Oh perfido giocaccio! oh maladetto
Chi t’ha trovato e me che ti frequento!
Tu non ci hai colpa tu; a me il gastigo
Si dee dar, poichè con te m’intrigo.

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68.
Datemi dunque un mazzo in sulla testa:
Vedete! eccomi qui ch’io non mi muovo;
Nè voi farete cosa men che onesta,
Se dal giocar, morendo, io mi rimuovo:
So ch’ogni dì sarebbe questa festa,
Ch’altro diletto che giocar non provo;
Ed a giocare omai son tanto avvezzo,
Che’l pentirmi non giovami da zezzo.
69.
L’usare ogni sapere, ogni mia possa
Non vale a farmi contro al giuoco schermo;
Imperocch’io l’ho fitto sì nell’ossa,
Ch’amo il mio mal qual assetato infermo,
E forse giocherò dentro alla fossa.
Che forse! diciam pur: tengo per fermo;
E se trovar le carte ivi non posso,
Farò, purch’e’ si giuochi, all’aliosso77.
70.
Van co’ libri alla fossa i gran dottori,
I bravi colla spada e col pugnale:
Con libro ed armi anch’io da giocatori
Sarò portato morto al funerale,
Grillandato di fiori; e a picche e cuori
Trapunta avrò la veste, e per guanciale
Quattro mattoni78; e poichè pien di vermini
I quarti avrò, vo’ fare un quarto a’ Germini79.

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71.
Volea seguir; ma tutti della stanza
Gli dieron su la voce, con il dire
Che il perdere è comune, e star usanza80;
E perde una miseria di tre lire;
Però si quieti pure e abbia speranza,
Chè un giorno la disdetta ha da finire;
Perocchè i tempi variabili sono,
E dopo il tristo n’ha a venire il buono.
72.
Intanto gli mostraron il prigione,
Che sott’il manto dell’ipocrisia
In carità, dicendo, in divozione
Faceva lo scultore81, idest la spia;
Però, perch’in effetto egli è un guidone,
L’impicchi, s’ei vuol fare opera pia:
Serragli pur, dicean, la gola; e poi,
S’ei ridice più nulla, apponlo a noi.
73.
Amostante, ch’è uom di buona pasta
E poi dabbene, ancorch’egli abbia il vizio
Di questo suo giocar dov’ei si guasta,
Fa liberarlo senz’alcun supplizio,
Dicendo ch’a impiccarlo non gli basta
L’aver semplicemente un po’ d’indizio;
Ma quand’anch’egli avesse ciò commesso,
Del far la spia non se ne fa processo.

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74.
Ed al prigion preterito imperfetto82
Rivolto colle carte in man, l’invita,
Già fattoselo porre a dirimpetto,
A giocar d’una crazia la partita;
Ovver si metta fuor in sul buffetto83
Un testoncino84, e sia guerra finita85;
Così lo prega, lo scongiura e in parte
Bada pur sempre a mescolar le carte.
75.
Quegli, che compiacerlo non gli costa
E vede averla avuta a buon mercato,
L’invito tiene e regge86 a ogni posta,
Bench’ei non abbia un bagattino87 allato;
E dice: al più faremo una batosta88,
Quand’ei mi vinca e voglia esser pagato;
Di rapa sangue non si può cavare,
Nè far due cose: perdere e pagare.
76.
Duraro a battagliar forse tre ore
Poi la levaron quasi che del pari;
Se non ch’il general fu vincitore
Di certa po’ di somma di danari.
E perchè gli domanda e fa scalpore,
Quei, che gli spese in cene e in desinari,
Non aver, dice, manco assegnamento89;
Talchè Amostante resta al fallimento,


Note

  1. St. 1. Ridurla a oro. Vedi c. III, 48.
  2. St. 3.Testone. Moneta che valeva lire italiane 1, 68.
  3. St. 4. Frignuccio pare un nome proprio, ma significa male, malattie; da infrigno che vale grinzoso, infermiccio.
  4. St. 6. Batter la borra. Tremare, battere i denti.
  5. St. 7. Quoio o cuoio d’oro si chiamano certe pelli conciate e dorate.
  6. Benduccio. Striscia di panno lino bianca, che s’appicca pendente alla spalla o alla cintola dei bambìni, perchè si possano con essa nettare il naso. (Minucci.)
  7. Montiera. Sorta di berrettino, in forma di piccol cappello, con mezza piega.
  8. St. 8. Una crazia valeva 7 centesimi.
  9. St. 10. Frugnolone. Vedi c. VII, 37.
  10. St. 14. Chi la volesse rivedere. A esaminar bene la cosa.
  11. Specchio. Lista, libro; qui, dei debitori.
  12. Rigattiere. Rivenditore di robe usate.
  13. In su i poggi. Anche i montanari si tengono in lusso.
  14. I cannelli sono arnesi dei tessitori di lana, i quali facilmente sono unti.
  15. Di punto. Ricamate e trapuntate.
  16. St. 15. Pena dei cinque soldi. Vedi c. V, 30.
  17. Brache d’or. Il Garani. Vedi st. 7. Così chiamasi anche il fante di danari nelle minchiate, perchè è dipinto con calzoni gialli.
  18. Fa il mangia. Fa il bravo, che mangerebbe gli uomini vivi. Era il Mangia una statua posta sulla torre dell’oriuolo di Siena. La dolorosa istoria del Mangia è questa. Dicono che un gobbo fiorentino ritrovandosi a Siena, volle salire sulla torre, dicendo che andava a fare una visita al Mangia. Quando fu su, guastò in parte il congegno pel quale la statua ad ogni ora veniva fuor dalla torre a batter le ore. Sceso ch’ei fu, gli domandarono; Che t’ha detto il Mangia? Rispose il gobbo: E’ m’ha detto ch’all’undici sarà in piazza. E con questo si partì per Firenze. Allo scoccar dell’undici il povero Mangia fu in pezzi nella piazza di Siena. Ma la memoria di lui dura eterna: Salutami il Mangia è anche oggidi l’addio scherzoso che si dà a chi parte per Siena.
  19. St. 17. Diverso. Strano.
  20. Penzolo. Qui, Mazzo pendente.
  21. Trebbiano. Qui intende l’uva così detta.
  22. St. 18. Ciscranna. Specie di seggiola.
  23. St. 20. Allegare i denti. Qui, venir voglia di mangiare.
  24. St. 21. L’arme di Siena. La lupa (fame).
  25. Vedrà ecc. Sperimenterà ecc. Mangerà e beverà. Modo plebeo.
  26. St. 22. Da quel. Un povero pittore da pochi soldi che forse fu contemporaneo del Poeta.
  27. Sotto le logge degli ufizi di Firenze si vendono ancora robicciuole e merci a vil prezzo.
  28. St. 23. Prassitelle. Prassítele, celebre scultore greco.
  29. In Settignano, borgo vicino a Firenze, ove sono molti scarpellini che danno il moto a i sassi levandoli dalle vicine cave, per farne poi stipiti ecc.
  30. Di lor mano. Lavorata daì Prassíteli di Settignano.
  31. Si vede ancora. Questo brutto basso rilievo fin dal 1677 non si vede più sulla facciata di questa chiesa che comunemente è chiamata San Paolino.
  32. St. 24. Il Pocavanzi fu povero libraio fiorentino che s’era ridotto a non vender quasi altro che leggende.
  33. St. 25. Le libréttine. Libretto che insegna le figure e le prime regole dell’abbaco.
  34. St. 26. Questa ottava è di Antonio Malatesti, l’autore del libro in essa descritto, il quale costrinse il Lippi a introdurla nel suo Malmantile. Per maggiore intelligenza della medesima è da sapere che il Malatesti fu guardiano dei magazzini del sale di Firenze.
  35. St. 27. Ed hanno ecc. Queste ninfe, queste Dee, come più sotto le chiama, han dato la caparra per comprare ecc.
  36. Condotta è il nome di una via di Firenze ove sono moltissime botteghe di cartolai e alcune di stampatori e librai.
  37. Grillo ecc, Son titoli di leggende e altre frottole.
  38. Il Bambi era un pizzicagnolo.
  39. St. 29. Il continente. Credo che sia detto per giuoco, invece di il contenuto di questo libro.
  40. St. 30. Il sangue. La cognazione fra le girelle delle carrozze e quelle delle lor testine.
  41. St. 32. Giuggiolo ecc. Un tal Neri o Nerone, contadino, stando ascoso fra i rami di un giuggiolo, fu scoperto da certi suoi amici che per celia andavano a rubargli la casa; e vistolo esclamarono: Neron, tu sei in sul giuggiolo; modo che poi significò: L’esecuzione del mio progetto è impedita.
  42. St. 33. Vecchio chioccia, Vecchio malandato che cova il letto, come la chioccia i pulcini.
  43. St. 34. Un uovo di balena. La balena, come è noto, non fa uova, ma figlia come i mammiferi. Perciò questo fenomeno è più curioso di niente, di qualsiasi altra cosa.
  44. St. 36. perchè si rompe ecc. La lezione più comune di questo verso è: Per timor che si rompa qualche vetro. Si è creduto però di preferire quella dell’edizione di Finaro, perchè è assai più bizzarro e spiritoso il dire che il cristallo si rompa giusto come il vetro.
  45. St. 38. E questa. L’e qui è semplicemente enfatica. Si può toglierlo, e il senso corre egualmente.
  46. Tirò le quoia. Vedi c. IV, 20.
  47. St. 39. Parecchi può usarsi con nomi maschili e femminili.
  48. Cernecchi. Capelli pendenti dalle tempie. Qui, Parrucca.
  49. St. 42. Regresso, Azione, dritto. Vedi c. VII, 104.
  50. St. 43. Pronunziò. Pare che la Credenza stessa parli: seppure non si sottintende la fata che ora aveva l’occhio, i denti e la parrucca.
  51. Il castagnaccio, pan di castagne, se non sia assai bene condito, è tutt’altro che un boccon ghiotto.
  52. Bombole. Vasi di vetro da mettere il vino in fresco.
  53. I ciechi di Bologna. Ci vuole un soldo per farli cantare, e due per farli chetare.
  54. St. 47. Parione è una strada di Firenze dove soleano giocare a palla e a pillotta.
  55. St. 50 Non la saldò. Non la finì con lui.
  56. Straccare il terzo e il quarto. Pregare con grande insistenza questo e quello perchè ci renda un servigio.
  57. Alla mazza. Alla sua rovina in un agguato.
  58. Tenere il sacco. Esser complice.
  59. St. 51. Piazze morte. Qui, Cicatrici e margini senza capelli.
  60. Onde. Per la qual tosatura si scopersero quei luoghi trincerati quelle margini alle quali rodevan si bene gl’insetti.
  61. St. 53 Montuoso casamento. Il castello di Montelupo, poco lontano da Firenze e vicino a Malmantile.
  62. Mentre Move ecc. Con questa circonlocuzione designa i fabbricatori di vasi di terra.
  63. St. 54. Magistero. Qui, Malia.
  64. Scattando. Allontanandoti minimamente dall’istruzione.
  65. St. 56. Mugello. Regione di Toscana. — A Bambera. Sconsigliatamente.
  66. A Bambera. Sconsigliatamente.
  67. St. 57. Saltero. Libricciuolo contenente alcuni Salmi, che si dà a leggere a’ ragazzi, quando hanno imparato a conoscere le lettere dell’abbiccì. (Minucci.)
  68. Prete Pero, cioè Piero, dicono che insegnava dimenticare.
  69. St. 58. E ch’altro. Costr. E che non ha altro di virtù scolastica.
  70. St. 60. Come dissi dianzi. Vedi c. V, verso la fine.
  71. St. 61 Minchiate. Ad intelligenza di questa e delle ottave seguenti, si è creduto necessario riprodurre la lunga nota del Minucci. Asso, fino a dieci, e nell’undecima è figurato un Fante, nella 12 un Cavallo, nella 13 una Regina, e nella 14 un Re: e tutte queste carte di semi, fuorchè i Re, si dicono cartacce. Le 40 si dicono Germini, o Tarocchi: e questa voce Tarocchi, vuole il Monosino che venga dal greco ἐτάροι, colla qual voce, dice egli coll’Alciato, denotantur sodales illi, qui cibi causa ad lusum conveniunt. Ma quella voce non so che sia; so bene che ἔταιροι e ἐταροί vuol dire sodales: e da questa voce diminuita all’usanza latina si può esser fatto hetaroculi, cioè compagnoni. Germini, forse da gemini, segno celeste, che fra’ Tarocchi col numero è il maggiore. In queste carte di Tarocchi sono effigiati diversi geroglifici e segni celesti: e ciascuna ha il suo numero, da uno fino a 35 e l’ultime cinque fino a 40 non hanno numero, ma si distingue dalla figura impressavi la loro maggioranza, che è in quest’ordine: stella, luna, sole, mondo, e trombe, che è la maggiore, e sarebbe il numero 40. L’allegoria è, che siccome le stelle son vinte di luce dalla luna, e la luna dal sole, così il mondo è maggiore del sole, e la fama, figurata colle trombe, vale più che il mondo; talmente che anche quando l’uomo n’è uscito, vive in esso per fama, quando ha fatte azioni gloriose. Il Petrarca similmente ne’ Trionfi fa come un giuoco; perchè Amore è superato dalla Castità, la Castità dalla Morte, la Morte dalla Fama, e la Fama dalla Divinità, la quale eternamente regna. Non è numerata né anche la carta 41 ma vi è impressa la figura d’un matto, e questa si confà con ogni carta, e con ogni numero, ed è superata da ogni carta, ma non muor mai, cioè non passa mai nel monte dell’avversario, il quale riceve in cambio del detto matto un’altra cartaccia da quello che dette il matto: e se alla fine del giuoco quello che dette il matto non ha mai preso carte all’avversario, conviene che gli dia il matto, non avendo altra carta da dare in sua vece; e questo è il caso nel quale si perde il matto. Di tali Tarocchi altri si chiamano nobili, perchè contano, cioè, chi gli ha in mano vince quei punti, che essi vagliono: altri ignobili perchè non contano. Nobili sono 1, 2, 3, 4 e 5, che la carta dell’Uno conta cinque, e l’altre quattro contano tre per ciascuna. Il numero 10, 13, 20, e 28, fino al 35 inclusive, contano cinque per ciascuna, e l’ultime cinque contano dieci per ciascuna, e si chiamano arie. Il matto conta cinque, ed ogni re conta cinque, e sono ancor essi fra le carte nobili. Il numero 29 non conta, se non quando è in verzicola, chè allora conta cinque, ed una volta meno delle compagne respettivamente. Delle dette carte nobili si formano le verzicole, che sono ordini e seguenze almeno di tre carte uguali, come tre re, o quattro re; o di tre carte andanti, come 1, 2, 3, 4 e 5, o composte, come 1, 13, e 28; 1, matto, e 40, che sono le trombe, 10, 20, e 30, ovvero 20, 30, e, 40. E queste verzicole vanno mostrate prima che cominci il giuoco, e messe in tavola: il che si dice accusare la verzicola. Con tutte le verzicole si confà il matto, e conta doppiamente o triplicatamente, come fanno l’altre che sono in verzicola, la quale esiste senza matto, e non fa mai verzicola, se non nell’uno, matto, e trombe. Di queste carte di verzicola si conta il numero, che vagliono tre volte, quando però l’avversario non ve la guasti, ammazzandovene una carta o più con carte superiori, chè in questo caso quelle, che restano, contano due volte, se però non restano in sequenza di tre. Per esempio: io mostro a principio del giuoco 32, 33, 34 e 35, e mi muore il 33 o il 34, che rompono la seguenza di tre, la verzicola è guastata: e quelle che restano contano solamente due volte per una, ma se mi muore il 32 o il 35, vi resta la seguenza di tre, e per conseguenza è verzicola, e contano il lor valore tre volte per ciascheduna. Il matto, come s’è detto, non fa seguenza, ma conta sempre il suo valore due volte o tre, secondochè conta la verzicola, o guasta o salvata. E quando s’ha più d’una verzicola, con tutte, va il matto, ma una sol volta conta tre, ed il resto conta due, E questo s’intende delle verzicole accusate e mostrate prima che si cominci il giuoco: perchè quelle fatte colle carte ammazzate agli avversari, come sarebbe, se avendo io il 32 ed il 33 ammazzassi all’avversario il 31 o il 34, ho fatta la verzicola, e questa conta due volte. Quando è ammazzata alcuna delle carte nobili, ciascuno avversario segna a colui a cui è stata morta, tanti segni o punti, quanti ne valeva quella tal carta; eccetto però di quelle che sono state mostrate in verzicola, delle quali, sendo ammazzate, non si segna cosa alcuna, se non da quello che per privilegio non giuoca; perchè tali segni vengono dagli avversari guadagnati nello scemamento del valore di essa verzicola, che dovria contar tre volte, e morendo conta due: ed il 29, morendo la verzicola dove esso entrava, conta solo cinque. L’altre carte poi, le quali si dicono carte ignobili o cartacce, non contano (sebbene ammazzano talvolta le nobili che contano, come i Tarocchi dal numero 6 in su ammazzano tutt’i piccini, cioè l’1, 2, 3, 4, e 5; dall’11 in su ammazzano il 10; dal 14 in su ammazzano il 13; e dal 21 in su ammazzano il 20, ed ogni Tarocco ammazza i Re), ma servono per rigirare il giuoco. Questo giuoco appresso di noi non usa, se non in quattro persone al più: ed allora si danno 21 carta per ciascuno: e quando si giuoca in due o in tre, se ne danno 25. E giuocandosi in quattro persone, il primo che seguita dopo quello che ha mescolate le carte in sulla mano dritta (che si dice aver la mano), ha la facultà di non giuocare, e paga segni trenta a quello che nel giuoco piglia l’ultima carta: e questo che piglia l’ultima carta (che si dice far l’ultima) guadagna a ciascuno di quelli che hanno giuocato, dieci segni. Colui che non giuoca, guadagna ancor egli de’ morti, cioè segna ancor lui il valore della carta a colui al quale è ammazzata detta carta. Se questo primo giuoca, il secondo ha la facultà di non giuocare, pagando 40 segni: se il secondo giuoca, il terzo ha detta facultà pagando 50 segni; se il terzo giuoca, passa la facultà nel quarto, che paga 60 segni come sopra. Ma se il giuoco è solamente in tre persone: non ci è questa facultà di non giuocare. Mescolate che sono le carte, quello de’ giuocatori, che è a mano sinistra di quello che ha mescolato, n’alza una parte: e se ve n’è nel fondo di quella parte del mazzo, che gli resta in mano, una delle carte nobili o un Tarocco dal 21 al 27 inclusive, la piglia, e seguita a pigliarle fino a che non vi trova una carta ignobile. Quello che ha mescolato le carte, dopo averne date a ciascuno, ed a sè stesso dieci la prima girata e undici la seconda, e scoperta a tutti l’ultima carta, la scuopre anche a sè medesimo, e poi guarda quella che segue: e la piglia, se sarà carta nobile o Tarocco dal 21 al 27, e seguita a pigliarne come sopra: e questo si dice rubare. E queste carte, che si rubano e si scuoprono, sendo nobili, guadagnano a colui a chi si scuoprono, o che le ruba, tanti segni, quanti ne vagliono: e coloro che le rubano, è necessario che scartino; cioè si levino di mano altrettante carte a loro elezione, quante ne hanno rubate, per ridurre le lor carte al numero adeguato a quello de’ compagni: e chi non scarta, o per altro accidente di carte mal contate si trova da ultimo con più carte o con meno degli avversari, per pena del suo errore non conta i punti che vagliono le suo carte, ma se ne va a monte. Colui che dà le carte, se ne dà più o meno del numero stabilito, paga 20 punti a ciascuno degli avversari: e chi se ne trova in mano più, e’ deve scartare quelle che ha di più; ma non può far vacanza, cioè gli deve rimanere di quel seme che egli scarta: se ne ha meno, la deve cavar dal monte a sua elezione, ma senza vederla per di dentro, cioè chieder la quinta o la sesta, ecc. di quelle che sono nel monte: e quello che mescolò le carte (che si dice far le carte), fattele alzare, gli dà quella che ha chiesto. Cominciasi il giuoco dal mostrar le verzicole che uno ha in mano: poi, il primo dopo quello che ha mescolato le carte in sulla mano destra, mette in tavola una carta (il che si dice dare), quegli altri che seguono, devon dare del medesimo seme, se ne hanno; e non ne avendo, devono dar Tarocco: e questo si dice non rispondere: e dando del medesimo seme, si dice rispondere. Chi non risponde, ed ha in mano di quel seme che è stato messo in tavola, paga un sessanta punti a ciascuno, e rende quella carta nobile che avesse ammazzato. Per esempio: il primo dà il Re di danari, ed il secondo, benchè abbia danari in mano, dà un Tarocco sopra il Re, e l’ammazza: scoperto di avere in mano denari, rende il Re a colui di chi era, e paga agli avversari sessanta punti per ciascuno, come s’è detto. Ogni Tarocco piglia tutti i semi, e fra lor Tarocchi il maggior numero piglia il minore, ed il matto non piglia mai, e non è preso, se non nel caso detto di sopra. Così si seguita dando le carte, ed il primo a dare è quello che piglia le carte date: ed ognuno si studia di pigliare all’avversario le carte che contano: e quando s’è finito di dare tutte le carte che s’hanno in mano, ciascuno conta le carte che ha prese: ed avendone di più delle sue 21, segna a chi n’ha meno tanti punti, quante sono le carte che ha dì pìù: dipoi conta i suoi onori, cioè il valore delle carte nobili e verzicole, che si trova in esse suo carte, e segna all’avversario tanti punti, quanti co’ suoi onori conta più di esso: ed ogni sessanta punti si mette da banda un segno, il quale si chiama un sessanta, o un resto: e questi sessanti si valutano secondo il concordato. E tanto mi pare, che basti per facilitare l’intelligenza delle presenti ottave, a chi non fosse pratico del giuoco delle minchiate che usiamo noi Toscani, che è assai differente da quello che colle medesime carte usano quelli della Liguria: che lo dicono ganellini; perchè minchiate in quei paesi è parola oscena. Da questo giuoco vengono molte maniere di dire: come essere il matto fra’ tarocchi, entrare in tutte le verzicole, essere le trombe, cartaccie, contare, non contare, e simili.»
  72. St. 63. Non mi tocca. Non ho punto il conto mio; non posso fiatare. È ignota l’origine di questo proverbio.
  73. St. 65. Porre a cavaliere. Restar superiore.
  74. L’orso ecc. Ognun sogna di quel che brama.
  75. Capitale! Modo correttivo, che vale: Piaccia a Dio che non segua in contrario!
  76. St. 66. Il Paonazzi fabbricava carte da giuoco.
  77. St. 69 Aliosso. È un giuoco di sorte che si fa gettando sopra una tavola o in terra quell’osso che hanno nelle gambe di dietro gli animali d’ugna fessa. Quest’osso ha naturalmente certi buchi e segni a cui si dà un valore convenzionale; e secondochè, nel gettarlo, resta di sopra l’uno o l’altro segno si vince o si perde.
  78. St. 70. I mattoni sono i Quadri.
  79. Germini Vedi st. 61.
  80. St. 71. Star usanza. È detto alla maniera dei Tedeschi che, incominciano a ciangottare la nostra lingua.
  81. St. 72. Scultore, Ascoltatore.
  82. St. 74. Preterito imperfetto. Vuol dipingere la goffaggine di Piaccianteo e il suo viso grasso, grosso e tondo.
  83. Buffetto. Tavolino.
  84. Testoncino. Moneta che valeva lire italiane 1, 68.
  85. E sia ecc. E sin finito il giuoco.
  86. St. 75. Regge ecc. Tiene ogni posta.
  87. Bagattino. La quarta parte d’un quattrino.
  88. Una batosta. Una questione a parole.
  89. St. 76. Assegnamento. Nè danari nè modo di trovarne.