Le confessioni di una figlia del Secolo (1906)/A Donna Paola
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A «DONNA PAOLA»
Paola mia,
Non comincierò con la classica frase di tutti i suicidi «Quando riceverai questa lettera, io sarò morta....» Ho avuto sempre, nel sangue, il ribrezzo della volgarità e, per quanto la vita abbia fatto il possibile per rendermene immune, a forza di propinarmene, io credo che — appunto — di quell'attossicamento io muoio.
Perchè, proprio, fra breve io morirò, o mia Paola!... Ma prima di partire, prima di lasciare questa strada — su cui le poche rose, ch’io colsi, dovetti contendere e strappare alla malignità di una sorte nemica — io ti chiamerò presso me. Tu verrai al mio letto e mi vedrai finire — e piangerai. Non io piangerò, Paola, amica mia, perchè quella fine l’avrò preparata con l’abile mente ed eseguita con le mani intrepide, che ogni giorno, entro il bicchiere che riflette la gioia dell'iride, versano e portano alle labbra la bevanda venefica.
Tu verrai, sì... Ed io, oggi — benché ancora a mezzo cammino della meta, che mi sono imposta, — già mi figuro, anzi vedo, la sorpresa e l'angoscia del tuo cuore all'improvvisa chiamata. Ma tu verrai, perchè io ti dirò una parola unica, che comprenderai essere un comando, più che una preghiera — ed io, che sarò sola, avrò la carità della tua mano sopra i miei occhi, finalmente chiusi alla scena del mondo. Tu mi aiuterai a morire, Paola, perchè l' ultimo bacio di amore mi verrà dalle tue labbra, che non sanno la finzione — ed anche perchè tu accetterai l'incarico penoso ch'io ti confiderò in quell'ora ultima.
In questi non molti giorni, che ancora mi avanzano, io voglio scrivere alcune lettere. Saranno esse il mio testamento, perchè entro le loro pagine io lascierò, più che degli ori e dei palazzi, la mia anima intera.
Io ho tanto bisogno di parlare, vedi?... Tanto bisogno di dire, finalmente — non fosse che per morire subito dopo — tutto ciò che, in fondo al mio cuore ed alle mie viscere, si agita e si è agitato in ogni tempo nel non lungo trascorrere della mia vita ... Io ho sofferto sempre di questa necessità di tacere, di chiudere entro me tutto quanto sgorgava a torrenti dal mio cervello e correva ad invadere le mie vene. Ma come fare altrimenti? ... E mai concesso, in vita, dire tutto?
Tu stessa, vedi, pur così affettuosa, e così aperta di idee, e così pronta all’indulgenza non mi hai mai dato quella confidenza senza riserva, ch’era necessaria perchè ti aprissi intero il mio cuore. Ho taciuto spesso; a volte ho accennato appena; ho lasciato che tu ignorassi, o che tu indovinassi ... ma la vera rivelazione di me e della mia vita non te l’ho fatta mai.
E ne ho sofferto ... perchè, forse, tu avresti potuto aiutarmi a vincere, od a rifarmi — io, che sono sempre stata una sconfitta! ... Ho sofferto ... ed ho compreso la sapienza antica, che creò la favola del barbiere di Mida ... Io pure, vedi, avrei voluto a volte, poter fare lo stesso: gridare i miei tormenti, i miei dubbi, i miei desideri in una qualsiasi buca del terreno, pur di liberarmene il petto, pur di rialzarmi dal suolo leggera e franca, ricca del rinnovato possesso della mia anima!
Ed anche ho capito come il cattolicismo abbia fatto suo prò di questo bisogno morale di sfogo e di liberazione, istituendo la confessione. Ah! ... potersi prostrare dinanzi ad un uomo, che non si conosce, che non vi conosce, e dire a quella mente, e dire a quelle orecchie, e versare dietro la simbolica barriera tutto l’intero carico dell’anima! ... Potersi levare di là, e trarre un grande sospiro di sollievo, e guardarsi d’attorno, quasi rinati alla vita, e trovare il sole più fulgido e l’aura più fresca ed i colori più gai ... come trovano tutto bello e tutto ridente coloro che, dalle mani del chirurgo, sono usciti mondi da un tumore vergognoso!
Io no. Io non ho potuto mai far ciò. Io non ho mai creduto abbastanza, da confessarmi al prete per fede di perdono ... né ho mai non abbastanza creduto, da servirmi del Sacramento come di un comodo sfogatoio. Ed appena sono stata padrona delle mie azioni, ne sono rimasta lontana ... privandomi così anche della illusione di sentirmi alcuna volta libera e sollevata dall’incubo che mi opprimeva.
E pure non mi sarebbe mancata, a compenso, la confidente e l’amica. Ma tu sei donna ed io, per quanto abbia potuto volerti bene, ho sempre provato un’avversione inesplicabile per le confidenze di donne. T’ho fatto torto, lo so; tu avevi larga la mente, per comprendermi e largo il cuore per condonarmi; ma, non so perchè, le confidenze femminili hanno sempre avuto per me sapore di pettegolezzo, quando riflettevano piccole cose, di vanterie, quando si trattava di cose grandi. Il solo timore che tu mi avessi potuto sospettare piccina, o esagerata — la prima cosa per misoneismo spirituale, la seconda per megalomania sentimentale — mi ha arrestata sempre, pur quando le buone manifestazioni della nostra amicizia mi avrebbero incitata ad aprire la bocca.
Non ho, dunque, parlato mai — rassegnandomi, nelle gravissime difficoltà, in cui mi trovai inceppata, a ricorrere al mio raziocinio o ad affidarmi al caso — né questo, ohimè! mi servì sempre peggio di quanto non mi abbia servito la mia più accurata dialettica.
E nella gioia — nelle poche gioie, ch’io aveva conquistato con tante lacrime — io neppure ho parlato... e ho sofferto di doverla soffocare entro me, di non poterla gridare alto su i tetti, per i cieli, e chiamare tutto l’universo a testimonio del mio trionfo! È così grande, Paola, la voluttà di dirsi felici!... Ci si sente così vibranti, così elevati, così forti — quando si crede di possedere quella infidissima felicità — che su tutto e su tutti si vorrebbero espandere le proprie vibrazioni... ed erigersi e dominare e mostrare, nel riso largo e stridente, come quello d’un satiro, tutta la forza che dilaga entro i muscoli. Coloro, che hanno la felicità silenziosa, assomigliano a coloro che hanno il vino malinconico; gli uni e gli altri son di carattere obliquo, o pure la loro psiche è ottusa ai richiami genuini delle sensazioni.
Ma ora, Paola mia, bisogna che parli. Se io tacessi ancora, io credo che, pur nella tomba, le mie ossa non poserebbero in pace ... Io muoio, forse, per poter parlare, finalmente!
⁂
Ho qui dinanzi questo tuo magnifico ritratto del Benvenuti di Firenze... Egli deve essere un artista: ha saputo scolpirti e farti viva sulla carta... Ma perchè hai voluto darmelo, che mi ti mostra con le spalle nude?... Conosci tu la strana, profonda influenza che ha su me la nudità femminile?... E, conoscendola, hai tu forse voluto accrescere, con l’offerta di una cotale fotografia, la grande attrattiva che tu hai sempre esercitato su i miei sentimenti e, quasi direi, su i miei sensi?... Non credo — benchè io, forse, non ti abbia abbastanza nascosta, come avrei voluto, questa mia singolare debolezza. Nella mia tenerezza per te — e tu sai se fu molta — la simpatia fisica è stata di un grande coefficente, sin da quando tu, bimba, io, giovanetta ormai, abitavamo la medesima camera del convento.
Ricordi? Tu eri una bimbetta, palliduccia e delicata e, parecchio, anche bruttina. Io aveva invece sedici anni, e già sentiva — allora non sapeva dove e pensava di sentirmela addosso I — una irrequietezza ed un languore insieme, un bisogno di prendere qualcuno, o anche semplicemente qualcosa, per stringermelo al seno e coprirlo di baci, in un tentativo, di cui non comprendeva l’assurdità, di smorzare così le singolari torture, che mi accendevano!...
Oh, le mie tribolazioni di spirito quando, alla sera, nel coro immoto e buio, dopo il solenne comando della suora, io prendeva la testa fra le mani e m’accingeva all’esame giornaliero della coscienza! ... Un grande silenzio incombeva sulle nostre piccole anime di fanciulle: un silenzio pauroso come un alito d’al di là. Ed allora inabissata nel mistero, io mi scervellava a ricercare, nei miei innocenti impeti di acerba femmina, il quid oscuro, da cui movevano, e che mi sembrava atrocemente colpevole...
Ricordi? tu eri magrina, in quel tempo: avevi un piccolo collo, sottile come uno stelo — e pure i primi baci di donna che soffre e che desidera, io te li ho dati lì, su quel sottile collo ... mentre tu pettinando la massa dei capelli ribelli, chinavi la testa. La piccola Paola gettava, a volte, un grido e si metteva a ridere ... ma spesso, meno paziente, mi tirava dei calci, indispettita che il mio intempestivo intervento le avesse mandato in malora l'architettura monastica dei capelli! Che bimba indiavolata eri, allora!
E le nostre chiacchiere? Ti ricordi, Paola, delle nostre chiacchiere? ... Alla sera, quando ci portavano via il lume e noi restavamo al buio nei nostri letticciuoli, il sommesso bisbigliare cominciava. Tu eri piccolina; ma avevi già quegli occhi aperti ed azzurri e quella tua testardaggine di opinione, che mi ti faceva rispettare. E, veramente, io ti parlava come se anche tu avessi sedici anni e già ti sentissi il seno a disagio, entro il rigido e meschino corpetto della uniforme.
Ah, o Paola, quei miei sedici anni! ... Io, vedi, li circondava di tale un’aureola di gloria, io aveva, per quei miei sedici anni, tale una venerazione, che quasi mi sarei prostrata dinanzi a me stessa, per adorare la mia femminilità, ormai assodata, ed incontestabile, e sbocciante come un fiore impaziente di sole! ...
La mia infanzia non era stata lieta, oh no! Tu sai che mia madre era morta e che mio padre era passato a seconde nozze, poco tempo dopo avermi messa nel convento. Nei primi dieci anni di vita, io aveva veduto troppe volte le lacrime della mia povera madre, e troppo aveva sofferto di dovermi convincere che, per esse, ella era morta, perchè poi, divenuta giovinetta e però meglio riflessiva, io non ne serbassi in me una incancellabile impressione di dolore, quasi una diffidenza anticipata verso la vita. E pure di quante rose, di quante mortelle, io festonava, con la fantasia di adolescente quella, che sarebbe stata la via della mia vita! ... Sì: l’esistenza era stata miseranda per la mia povera mamma ... Ma per me no ... oh! per me no, non sarebbe stata tale! Non aveva io il tesoro di forza e di bellezza dei miei sedici anni? ... Ancora qualche mese, e poi sarei sfuggita di là, e poi avrei preso il volo, e poi sarei entrata, nuova farfalla, entro ii grande giardino del mondo! ...
E come le mie parole si addensavano su questo sfolgorante avvenimento! Ricordi, Paola ... ricordi quante strane teorie — io aveva delle teorie, allora! — piene d’inesperienza e di contradizione io sfoderava, per asseverare che avrei dovuto trovare, e sibito, la felicità?
Nel buio della notte, distesa nel lettuccio — e tu, a volte, monella, ti addormentavi al meglio della mia dimostrazione — io accumulava gli argomenti su gli argomenti, come carte su carte mettono i bimbi, che si divertono a fabbricare castelli, per dimostrare che, matematicamente, io avrei dovuto essere felice. E che argomenti! Come tagliavano la testa al toro! ... Io sarei stata una donna virtuosa — ecco — e tanta cura avrei avuto della mia casa, e il mio marito — oh Dio che parola rimuginante! — l’avrei adorato, e i miei bambini — quanti, quanti ne voleva! — li avrei allevati con tanta passione e ne avrei fatti dei buoni cristiani, sì certo, ed anco dei buoni cittadini! ... Ed io domandava al buon Dio — ed a te — come mai, con tanto santi propositi e tanto zelo e tanta virtù, io non sarei stata felice! Ma tu, spesso, a questo punto dormivi ... ed io rimaneva con la mia domanda inappagata. Oggi io capisco il profondo significato del tuo sonno — quelle teorie erano tanto papaveriche! — e capisco anche il significato del silenzio, nel quale piombava la mia interrogazione ... Chi — tu o Dio — avrebbe potuto rispondermi, senza mentire, che le mie previsioni erano legate a fil di logica?
E allora, nella notte — mentre tu bimba balbettavi nel sonno le tue preoccupazioni di scolara, o le tue bizze di cocciuta — io mi raccoglieva devotamente in un pensiero, che mi dava tutte le torture e tutte le delizie.
Io mi figurava nel mondo: in una società, in un ballo. Che cosa bella! che luce! che brio! ... Io aveva un abito che mi stava d’incanto; era molto graziosa — spingeva anzi l’audacia sino a dire che era molto bella — e mi pareva che tutti gli occhi si posassero su me. Un grande imbarazzo mi pungeva allora. Che cosa avrei fatto, mio Dio!.. Che cosa avrei detto? Come avrei potuto muovermi e parlare e ballare disinvolta? ...
Ma, sormontato alfine il capo burrascoso con molti incitamenti al coraggio, io precipitava di un colpo nella terribile commozione. Sì ... qualcuno aveva detto di amarmi; sì ... io aveva udito uscire dalle labbra di un uomo quella spaventevole e paradisiaca parola di amore ... io aveva veduto uno sguardo acceso ... un sorriso tentatore di uomo ... mi era sentita stringere fra le braccia avviluppanti di un uomo! .... E allora — la figurazione era tanto intensa, che io tremava nel mio letto di delizia e di terrore — mi pareva che, a quegli sguardi, a quelle parole, a quei moti, io sarei piombata a terra di vertigine... ch’io avrei domandato alla terra di aprirsi per inghiottirmi ... con lui. Ah sì: con lui! Questo era indiscusso. Chiunque egli fosse, quell’uomo che mi aveva detto pel primo di amarmi, io pensava che sarei stata sua, senza altro, senza discussione perchè non era possibile che io non adorassi un uomo, che mi amava.
Nè io mi domandava, qui giunta, se le mie teorie ed i miei virtuosissimi propositi erano compatibili con tutto questo fulmineo precipitare nella adorazione e nelle braccia di un uomo. La domanda mi sarebbe parsa di una stoltezza piramidale! O che? ... Il sillogismo non era forse chiaro come la luce del sole? Egli mi amava, dunque mi sposava, dunque io ero sua, dunque virtù su tutta la linea, dunque felicità indiscutibile prima in terra e poi in cielo!
Ah Paola, Paola, Paola!!!⁂
Se io potessi ottenere da te ancora una risposta — ma tu questa lettera l’avrai, ch’io sarò morta — io vorrei domandarti perchè mi hai dato un ritratto in décolleté. Se io te lo debbo dire, la vista di questo tuo ritratto mi ha fatto sempre male. Tutto ciò, che io ti ho scritto ora, io l’ho vissuto spasimando ogni volta che ho veduto il tuo collo fuor delle trine... il tuo collo di donna, ch’io ho baciato, soffrendo, quando il mistero dell’amore incombeva su i miei sensi, come una tortura. Il ricordo di quelle mie prime immature sensazioni è troppo legato a tutta la mia vita e però, oggi che io sto per morirne, io ti domanderei, se tu potessi rispondermi, perchè mi hai dato quel ritratto.
Ma tu non sai — e te lo dico ora — che quel tormento d’amore, quel bisogno d’amore, quello struggimento d’amore, è rimasto ancora intatto, egualmente acre ed egualmente pungente a tra verso a tanti amori e ad infinite delusioni! Io, oggi, a trentanove anni, alla vigilia di morire, sento ancora invincibile il bisogno di vivere di quella sensazione — sofferenza e desiderio — che mi pervase la prima volta, ch’io posai le labbra sul tuo collo... e di provare quel languore e quella irrequietezza insieme, che mi facevano afferrare qualsiasi cosa, anco un guanciale, con la folle ansia di spegnere con i baci un ardore sconosciuto ... E questo bisogno io sento ancora perchè, pur dopo aver tanto amato ed aver tanto, quasi con rabbia impaziente, cercato e cercato, io ho ritrovato troppo tardi, troppo tardi quelle sensazioni ... mentre ho consumato tutta la vita nella nostalgia di ritrovarle! Della stanchezza di questa nostalgia — insieme ad altre! — io muoio oggi, perchè è la disperazione — con altre, con altre! — di non poterla soddisfare ormai più, quella, che rende intrepida la mia mano quando conduce alle labbra la bevanda, che non perdonerà.
Ma io ti vedo stupire. E non è senza ironia che io ti vedo stupire! ... Se tu fossi una donna comune ti udirei anche esclamare: — Come! Viviana che io credeva una donna onesta! ... — Ma tu non sei una donna comune: tu, al pari di me, aborri dalla stupidità volgare. E però ti limiterai a levar le ciglia, in un moto di stupefazione, udendo da me, che io ho avuto di quelli, che, comunemente, si chiamano amanti,
E pure è così, mia cara Paola. Io ho avuto degli amanti. Confesso che questo coronamento è di uno stile ben differente, dell’edificio di virtuosissime teorie, che io mi fabbricava, quando aveva sedici anni ... e confesso che la mostruosità architettonica che ne consegue, è alquanto ripugnante. Pensa! ... Un campanile gotico sopra una chiesa di stile barocco; una cupola di pagoda cinese sopra uno chalet svizzero!.. Io non posso fare a meno di ridere, pensando alle strane superfetazioni edilizie, che le illusioni e le realtà della mia vita presentano.
Ma, vedi, Paola mia, la superfetazione è più apparente che non reale. Io non avrei, a sedici anni, sognato tanto e tremato tanto de’ miei sogni; non avrei sentito, con tanto trasporto, l’anima mia volare incontro all'amore e le mie viscere trasalire nella febbre di quel volo — a sedici anni — se non avessi avuto, nell’anima e nelle viscere, la imposizione di un cotal fatto su tutta la mia vita. Sino da quei primi agresti impeti, io era la creatura d’amore, la cratura plasmata dalla natura e scagliata nel mondo, per vivere — ed anco morire! — d’amore. Confusamente io lo sentiva allora, quando, esitante e turbata, esaminava la mia coscienza, nel buio e nel silenzio del coro conventuale, pieno di anime dubbiose di fanciulle. E da quel tempo io l’ho sentita, sempre più altamente e limpidamente, quella imposizione — sino ad oggi, in cui, per la troppa scienza del mio fato, io mi condanno a morire.
Sì; ho avuto degli amanti — parecchi. Fra i completi e gii abortiti una mezza dozzina, una diecina, non so bene. Ma, nel numero non piccolo, i completi sono stati pochissimi: forse uno solo, anzi, — secondo il significato, che si vuol dare a questa completezza. Ah! Paola mia ... se l’ora non fosse tristissima, se non avessi sul cuore l’orrendo peso dell'inutilità di tutti questi miei amanti, io troverei straordinariamente comico questo rendiconto finale, questo bilancio amatorio, a cui, con tanto discernimento pratico, io faccio premettere la suddivisione in classi.
Ed invero, malgrado tutto, io rido un po’, ora, mentre questo mio passato d’amore mi sta dinanzi, con così lacrimevole aspetto. Quanti rapimenti, quante belle estasi, quanti trionfi intimi, ogni volta che mi pareva di avere trovato! Allora il petto mi si allargava in un ampio sospiro di sollievo: tutto il mio corpo riprendeva vigore e sanità; io mi drizzavo sulla vita ed alzava la testa, come un fiore reciso, pietosamente messo nel calice pieno di acqua. Era dunque vero!... L’aurora si levava... Che meraviglia di tinte! che impromesse di meriggio splendido! E che mèsse di felicità da cogliere a piene mani, a piene braccia, come una ebrezza!
Ed io mi buttava a capo fitto nell’avventura, senza l’ombra di una esitazione, senza l’ombra di un dubbio. Non era quella la felicità? Non era quello l’amore? Non era — finalmente, finalmente ! — la certezza di ritrovare la sensazione genuina, vergine, acuta come uno strazio, e dolcissima come una voluttà? Perchè, dunque, avrei esitato? Non avrei io commesso un delitto, esitando? La vita precedente, la ricerca precedente non mi aveva essa dato abbastanza lacrime ed abbastanza delusioni? Ed io doveva lasciar trascorrere l’onda, che veniva a me e che voleva dissetarmi ? Doveva lasciar disperdere l’ossigeno, che alitava intorno alla mia testa e che voleva discendere nei miei polmoni e vivificarli?... Eh via! io non avrei saputo perdonarmelo mai... mai!.. E neppure ora, vedi, io me lo perdonerei; ora che io muoio per essermi troppo tuffata in quell’onda ed aver troppo bevuto di quell’ossigeno!
⁂
Ed ecco, Paola mia, ch’io sono al fine della mia lettera. Quante cose dovrei dirti ancora! Per quante gallerie, per quanti andirivieni io dovrei condurti per mano ancora, come entro una inesplorata rete di catacombe, se volessi raccontarti tutta la mia vita e mettertene dinanzi ogni mistero! Ma il tempo incalza. Ed incalza la fine. Io non ho tempo da perdere — questa è la verità inesorabile. Quando si è chiamata, come io ho chiamata la morte; quando le si è imposto, come io le ho imposto, di possedervi, non si può, ne temere, né illudersi, che essa non corra, ratta, al convegno. Fra brevi giorni essa sarà entro me, come entro un palazzo debitamente proprio. Non me le dò io? È l’ultima mia dedizione, questa — né, fra le altre, è la più tragica, o la più folle. E la morte mi prende, mi coglie, per come io me le sono offerta: ghiottamente.
Pure, prima di lasciarti, una cosa ancora voglio dirti. È una raccomandazione, che ti faccio, è un fastidio, che ti dò: ma tu sei buona e vorrai assumertelo, ed anche vorrai continuare l’opera mia, perché so che tu sei, al pari me, disposta a fare il bene, qualunque ripugnanza ti debba esso costare. Tu conosci la mia cameriera. È una ragazza di venticinque anni, abbastanza attiva, se bene delicata di salute, che sa il suo mestiere e che lo fa con esattezza.
Un anno dopo, circa, ch’io l’aveva presa con me, seppi che da me essa era venuta, dopo di essere stata, per qualche tempo, in un luogo infame. Come vedi, l’immediata sua provenienza non era, né poteva riuscirmi, molto simpatica. Ma, malgrado i consigli di ributtarla nella strada, io l’ho tenuta ancora con me.
Che vuoi! la mia pietà cristiana non è forse, molto ardente, in quanto si riferisce alle pratiche esteriori del culto — e ciò mi ha attirato, più di una volta, lo sdegno e gli anatemi degli ipocriti. Ma di Cristo io seguo, con sincero slancio interiore, i santi insegnamenti di carità. Fare il bene ha avuto sempre per me un’attrattiva profonda ed io l’ho fatto, questo bene, ne ho la soddisfazione, anche quando, non solo il danaro, ma la mia pace, persino la mia salute, erano certe di averne danno. Che dirti?... A me piace fare il bene: è una simpatia che io ho per la carità: dare soccorrere, confortare, sono state sempre le più vive tendenze del mio sentimento. Ed ho dato, a volte, per soccorso e per conforto anche l’anima mia, anche il mio amore!
La mia cameriera non la licenziai, dunque. Perchè ? ... Da quando era in casa mia nulla, nella sua condotta, lasciava presupporre la vergogna di un simile passato.
E d’altronde che cosa m’importava di esso? Se un errore, una disgrazia, una fatalità, l’avevano condotta entro le miserie di un luogo infame — e se la sua coscienza, risvegliata, il suo rimorso ne l’avevano tratta, doveva io soltanto disprezzarla, o non piuttosto compiacermi de’ suoi propositi, ed aiutarla a mantenerli?...
Chi può sapere le ragioni, per cui una povera giovane serva cade? Quante prepotenze di padroni e quanta nostalgia di affetti, debbono tormentare la vita di una giovinezza, che null’altra risorsa di esistenza ha, oltre l’opera servile! Adele era caduta forse vittima di una prepotenza o di una nostalgia: due cose diverse: odiosa l’una, l’altra pietosissima, dinanzi a cui io non mi sen- tiva l’autorità di mostrarmi inesorabile. D’altronde io aveva avuto modo di giudicarla: era una ragazza intelligentissima, avida d’imparare, molto sensibile. Come seppi del suo tristo passato, anzichè licenziarla e ricacciarla, forse, nel fango donde essa, con tanto buon volere e, certo, penosi sforzi, s’era tolta io la richiamai più presso me. Togliendo a pretesto che ella sapeva appena scrivere cosa incompatibile con le nuove esigenze civili — le insegnai molte cose. A tempo perso, mentre mi pettinava o mi vestiva, alla sera, quando non uscivo e rimanevo sola in casa, io la intratteneva di fatti storici, di fenomeni fisici, di questioni morali.
Adele mi ascoltava a bocca aperta, con gli occhi dilatati nel volto pallido. E come si appassionava! ... Il mio modesto bagaglio scolastico, amica mia, non mi fu mai così prezioso, come quando parlai con la mia serva! Così, pian piano, io ho cercato di elevare il suo spirito, di illuminarlo, di fargli vedere le grandezze della storia e di fargli ammirare le meraviglie della natura. Ho fatto un po’ la pedagoga, è vero; ma non mi sono annoiata ... Anzi! Non mai, parlando nei salotti, o facendo dello spirito nei ritrovi, io ho provato tanta intima soddisfazione. E così ho tenuto per cinque anni Adele — benché essa mi venisse dal più grande abisso di miseria e di dolore. Né ho avuto a pentirmene, perchè la povera ragazza mi è molto affezionata e già si inquieta di vedermi ogni giorno deperire, ogni giorno cadere in deliquio. E come soffrirà essa quando mi vedrà morire! Per lei io provo uno dei pochi rimorsi, che mi tormentino nella morte: io poteva esserle utile ancora, ed invece l’abbandono!
Ma tu, Paola, rileverai il compito mio. Non la lasciare, te ne supplico; non fare che, nello smarrimento della solitudine, o nel bisogno di un nuovo affetto, che la compensi del mio mancatole, ella corra il rischio di ricadere nella abiezione. Ora, che io l’ho un po’ illuminata, più grande si farebbe la sua disperazione nel ritrovarsi nel fango, ma forse — pur troppo, pur troppo! — più difficile le riuscirebbe ritrarsene fuori. Io te ne prego, mia buona Paola: abbi pietà di quella povera figliuola!
Ed ora addio. Sii felice, Paola mia, come tutto il mio tenero affetto, come tutta la mia ultima speranza ti augura. E ricordati ancora — ancora! — della tua amica
Viviana.