La mano tagliata/Parte seconda/II
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II.
fra le sepolte vive.
Il monastero delle Sepolte vive, a Napoli, sorgeva a mezza costa, fra il mare e la collina del Vomero, in una posizione amenissima. La sua costruzione risaliva a due o trecento anni fa, quando fiorì suor Orsola Benincasa, la pia fondatrice di quell’ordine; ma, più tardi, si è venuto ingrandendo man mano e il suo bell’orto, tutto pieno di aranci in fiore, ha perduto un poco della sua ampiezza, per darne spazio ai chiostri delle suore.
L’antica tradizione benincasiana stabiliva una clausura assoluta, non solo, ma persino che le suore portassero sempre il velo abbassato, quando escivano dalle loro celle. Esse, pronunziati una volta i voti sacri, non uscivano più, non vedevano più nessuno della loro famiglia e, solo una volta all’anno, la madre o il padre, o qualche altro parente, poteva venirle a trovare. Ma non li vedevano! Non era neppure a traverso la grata, come in altri conventi di clausura, che avveniva la conversazione, ma a traverso il muro. Un colpo al muro e vi si applicava l’orecchio: le voci arrivavano fioche e sorde, stranissime. Per lo più, il parente abbreviava questo penoso discorso; spesso, l’anno seguente non ritornava più. Le Sepolte vive, date a Dio, erano dimenticate dagli uomini.
Il numero di quelle suore era di trentatrè, quanti sono gli anni di Gesù: e le converse erano sette, quanti erano i dolori di Maria. Ma il numero di trentatrè non era mai completo: le suore erano vecchie, molto vecchie e coi nuovi ordinamenti italiani non vi erano molte che dimandavano di fare il noviziato: tanto che, a ogni morte di suora, le altre si ristringevano di più, diventate poche, dolenti di essere in così piccolo numero. Ma il soffio dei nuovi tempi era penetrato anche là dentro, e due converse se ne andarono. Il convento di suor Orsola Benincasa era oramai troppo grande, per le diciotto o venti suore, per le cinque converse; il giardino troppo vasto e i chiostri troppo larghi.
Però, in quell’anno 18.... le suore avevano avuto una bella consolazione. Raccomandate dal cardinale vicario, di Roma, erano giunte due novizie; una lettera giunta alla madre badessa ne aveva annunciato l’arrivo, e in un giorno di maggio, verso le cinque pomeridiane, era capitata la prima, alla porta del convento.
Era una donna ancora giovane, ma col viso consumato dalle infermità o dai dolori morali. Alta e magra, bionda, pallidissima, ella vestiva decentemente e nella sua carrozza erano restate due valigie, con la sua roba. Veramente, la carrozza non era potuta arrivare sino alla porta del monastero, perchè vi è un viale a scaglioni, per cui vi si accede: ella aveva bussato forte e la conversa portinaia era venuta ad aprire. La portinaia era stata avvertita e comprese subito. Pure, disse:
— Chi siete? —
Costei non rispose direttamente; disse:
— Debbo parlare alla madre badessa; mi manda il vicario.
— Siete la novizia?
— Sì. —
E un profondo sospiro le sollevò il petto.
— Quale delle due?
— Ne aspettate un’altra?
— Sì, da Roma.
— Io vengo da Verona, e da più lontano, anche.
— Allora siete quella che vuol portare il nome di suor Serafina?
— Sì, — e sospirò di nuovo, profondamente.
— Entrate, allora.
— Vi è la mia roba.
— La faremo portare su, — disse la portinaia, aprendo tutto il battente della porta.
Così la novizia entrò, senza dare uno sguardo indietro, non accompagnata da un parente, da un amico, da nessuno. Presto, ella smise le sue vesti civili e indossò un primo abito claustrale, simile a quello delle converse, senza velo. Una cella le fu assegnata; essa era alla punta estrema del dormitorio, sull’angolo del giardino, verso il mare. Suor Serafina si era subito mostrata molto docile, molto obbediente; aveva avuto due o tre lunghe conferenze con la badessa, nel segreto della camera di costei; e ne era sempre uscita con gli occhi rossi. Ella compiva i suoi umili uffizi con molta rassegnazione, pregava molto; ma era spesso distratta. Spesso restava delle lunghe ore, dietro la grata, guardando il mare. Ma alle trentatrè erano molto indulgenti con le novizie, perchè erano ancora troppo fresche del mondo e per far loro prendere amore alla vita claustrale.
La novizia Serafina, in certi giorni, sul suo volto impallidito e stanco, mostrava tale un abbattimento che la madre badessa, dopo aver pregato con lei, al coro, la dispensava da certi lavori pesanti, che alle novizie erano riserbati. Ella ringraziava, con un tenue sorriso:
— Grazie, madre mia.
— Dio vi assista, Serafina. —
E ambedue si segnavano, a quel nome. La novizia Serafina restava in chiesa, a pregare, delle ore. Ma quando vi arrivavano, alla spicciolata, delle altre suore, la trovavano col volto fra le mani, con le labbra mute, spesso prostrata, spesso abbandonata, con le braccia protese sull’altare del coro.
— Piange, — dicevano.
— No, è morta. —
E le monache si avvicinavano a lei, per soccorrerla. Ella non era nè morta, nè svenuta. Si rialzava, più bianca che mai, baciava il crocifisso del suo rosario, si segnava, spariva.
— Che strana novizia! — diceva qualcuna di esse.
— Strana!
— Poveretta! — soggiungeva un’altra.
La compativano. Erano donne tenere e buone, malgrado che mai avessero vissuto la grande vita dell’amore. Solo qualcuna di loro aveva ancora dei ricordi; ma così lontani!
La novizia Serafina era nel convento da solo un mese e tutti si erano abituati al suo viso smorto, ai suoi occhi vaganti, a quell’aria trasognata, che era, poi, ammantata di tanta dolcezza, quando giunse l’altra novizia, raccomandata dal cardinale vicario. Fu nelle primissime ore della mattina. Le donne che bussarono alla porta, erano due; una più di età e che parea di condizione servile, l’altra giovane, bruna, fine, vestita elegantemente di nero.
— Questo è il monastero di suor Orsola Benincasa? — domandò la domestica.
— Sissignora, — disse la portinaia.
— Questa è la raccomandata del cardinale vicario, — e accennò alla più giovane.
— Ah! va bene, — mormorò la conversa.
E sparve, lasciando le due donne sole nella portineria. La più giovane che non aveva detto una parola, si lasciò cadere sopra una sedia.
— Coraggio, signorina, — disse la domestica.
— Ne ho, — mormorò l’altra — ma sono molto stanca.
— Ora, ora, vi riposerete molto, — disse la serva, guardandosi intorno.
La stanza era imbiancata di calce, nuda, con quattro sedie e un tavolino; delle immagini sacre, sulle pareti. Ma da una finestra si vedeva un angolo dell’orto e, lontano lontano, il mare.
— Starò bene, qui, — disse la giovane novizia.
— La clausura è troppo terribile.
— Ne desidero una così, — rispose subito la novizia, abbassando gli occhi.
— Così terribile!
— Non è mai terribile, servire Iddio.
— In tanti modi si serve!
— Voglio darmi al Signore, completamente.
— Così giovane, signorina mia! — esclamò la donna, con un vero dolore.
— Io non ho più gioventù.
— Non parlate così. Tante speranze, tante idee belle, tante cose.
— Nulla più, nulla più, — disse, a bassa voce, la novizia, chinando il capo sul petto.
— Voi ci ripenserete, è vero?
— Ripensarci?
— I voti non si pronunziano che dopo un anno.
— Che importa? È come se li avessi pronunziati....
— No, no.
— Anticiperò il giorno dei voti.
— Non si può, per fortuna non si può, mi sono informata! — disse la serva.
— Ma che speri, che aspetti? — disse la novizia, con accento freddo e disperato.
— Non so, signorina.... non so, ma non posso persuadermi che ciò possa finire così!
— Eppure!
— Chi sa, io potrò ritornare qui, con una buona notizia!
— Qui?
— Sì.
— Tu vuoi ritornare?
— Si sa.
— No, cara.
— Come?
— Non tornerai!
— Ma perchè?
— Desidero non vederti più, — disse la novizia, con tono fermo.
— Oh, signorina! — e quella quasi piangeva.
— Dobbiamo non vederci più.
— Signorina, signorina!
— Non piangere. Separiamoci oggi.
— No, non può essere, signorina.
— Deve essere così, — disse, con dolcezza, ma sempre fermamente, la novizia.
— Io sono venuta sino qui.... sempre sperando che voi vi pentiste....
— Pentirmi? di darmi a Dio dovrei pentirmi?
— No, no. Ma credevo che sceglieste un ritiro.... non so.... un posto donde si potesse uscire.
— Ho voluto io entrare fra le sepolte vive.
— Signore! Così bella, così fatta per essere amata e per amare.
— Non mi parlare di amore, taci. Senti, è meglio dividersi ora. Ti ho dato i denari per tornare al tuo paese: vacci. Io, qui, sono al sicuro di tutte le tempeste.
— Ma veramente mi dovrò staccare per sempre?
— Veramente.
— Io non partirò, non potrò partire, — disse la serva singhiozzando.
— Che faresti, a Napoli? Non conosco nessuno, non ti conoscono.
— Ci siete voi!
— Ma non puoi vedermi!
— Le novizie si visitano.
— Che ne sai?
— Lo so, lo so.
— Meglio separarsi per sempre, — replicò ancora la novizia, ostinatamente.
— Lasciate, signorina, che io resti a Napoli, almeno. Troverò una casa in cui servire: sono forte, posso ancora lavorare. Ma qui!
— No, Rosa, — disse la novizia, pronunziando a stento questo nome e guardandosi attorno.
— Non verrò qui.
— Potrebbero essi rintracciarti.... e trovata te troverebbero anche me.
— Chi, essi? Vostro padre?
— Mio padre, prima di tutto. Egli mi ha maledetta, è vero: ma mi cerca. E non lo fuggirei, se egli non mi cercasse per un altro.
— L’altro, l’altro! — disse, con voce trepida Rosa.
— L’uomo esecrato, l’uomo infame. Egli è la causa di tutte le mie sciagure. Guai, se sapesse dove sono!
— Che farebbe?
— Chi sa! Ma le mura delle sepolte vive sono salde e qui dentro si spegnerà il nome di Rachele Cabib.
— Grazia Cabib!
— Sì, Grazia: è il novello nome della mia fede, è il nome della mia salvazione. — In questo rientrò la portinaia conversa e annunciò che la madre badessa attendeva la novizia.
— Separiamoci, Rosa, — disse costei.
E le due donne, malgrado la loro diversa condizione, avendo vissuto insieme e insieme sofferto, si gittarono l’una nelle braccia dell’altra, si baciarono, piangendo.
— Addio, Rosa, addio, ti assistano la Vergine e i santi!
— Arrivederci, non addio, signorina. Dio vi benedica! —
E le baciò le due mani, la baciò ancora, sulle guance.
Poi, la porta si richiuse dietro lei, e la novizia, che si era fatta smorta, disse alla conversa, coraggiosamente:
— Andiamo. —
Il colloquio fra la madre badessa e la novizia durò un’ora; quando la cella si riaprì, si vide che la novizia si inginocchiava innanzi a quella vecchia veneranda e che costei la benediceva. E fu detto tutto, giacchè la vestizione da conversa avvenne un quarto d’ora dopo, e alla novizia che aveva preso il nome di suora Grazia, venne data anche la celletta. Era posta accanto a quella della novizia suor Serafina; la penultima verso il mare.
Suora Grazia, così giovane e così bella, interessò subito tutte le poche e antiche monache che erano colà; ma la badessa aveva dovuto impartire gli ordini di non interrogarla, di non disturbarla, giacchè, mentre le sorridevano, salutandola, poco le dirigevano la parola. Suora Grazia che era stata nel mondo ebreo Rachele Cabib, portava sul suo viso una espressione di fierezza, poco consono allo stato monacale; la sua beltà giovanile, così sfolgorante, così seducente, persisteva anche sotto quegli umili panni. Non le avevano tagliato i capelli, perchè questo sacrifizio si compie solo il giorno del voto; e le due grosse trecce non gonfiavano la cuffia bianca. Strana monaca, taciturna, con le sopracciglia aggrottate, con un viso che ancora serbava tutte le tracce delle passioni umane: strana monaca, dagli occhi che non s’inumidivano di lagrime, anzi da un fuoco interno che, forse, era odio!
Fra le due novizie, suor Serafina e suora Grazia, non si erano stabilite maggiori relazioni che con le altre monache: si vedevano, salutandosi, al coro, al refettorio, alle preghiere, nei chiostri. Non una parola scambiata fra loro: non un sorriso di più, nulla. Ma il contrasto fra i loro tipi era evidente anche agli occhi poco esperimentati delle monache sepolte vive: l’una, suor Serafina, snella, magra, bionda, già consunta dagli anni e dai dolori, coi begli occhi azzurri scoloriti, come stinti nelle lacrime, tutta preghiera, tutta raccoglimento, tutta dolcezza; l’altra, giovanissima, bruna, con le labbra rosse, con gli occhi ardenti, senza lagrime, piegandosi a pregare con lo stesso volto chiuso da un dolore che era collera. Pareva che, così diverse, le due novizie non si sarebbero mai potute intendere. Ma non fu così.
Due o tre volte, suora Serafina e suora Grazia si ritrovarono sole nel coro: la badessa permetteva loro di farvi delle più lunghe dimore, giacchè alle novizie si ama lasciarle a lungo in colloquio con Dio. Spesso, in questi prolungamenti, mentre suora Grazia teneva la bocca appoggiata sul suo rosario, a occhi bassi, senza dire orazioni, suora Serafina, accanto a lei mormorava le sue preci, intercalandole con qualche sospiro. Una volta, spezzando il silenzio a cui, sembrava, suora Grazia si costringesse da sè, ella chiese a suora Serafina:
— Che avete, mia sorella?
— Nulla, sorella mia, — aveva risposto l’altra con un sospiro.
— Voi soffrite, è vero?
— Sì, sorella.
— Soffrite molto?
— Immensamente.
— Dio vi consoli, sorella.
— Così sia, mia sorella. — E si tacquero, suora Grazia per discrezione e suora Serafina perchè aveva ricominciato a pregare. Per vari giorni non si parlarono, non essendovene occasione, ma un giorno si incontrarono nell’orto, mentre suora Grazia coglieva una rosa di maggio, tutta rorida di rugiada.
— Voi amate i fiori?
— Li amavo....
— Non li amate più?
— I fiori sono per le persone felici, — disse suora Grazia, a voce bassa, curvandosi a odorare un bocciuolo.
— È vero, mia sorella.
— E voi, li amate?
— Sì, molto. Ma nel mio paese ve ne sono così pochi!
— È molto lontano, il vostro paese?
— Assai.
— Nel nord?
— Nel nord.
— Freddo?
— Freddissimo.
— Qui vi è il sole, — disse suora Grazia, levando gli occhi al cielo.
Nè più si dissero altro, in quel dì.
Ma una notte, mentre ancora la sventurata Rachele Cabib che aveva cangiato il suo nome in quello di suora Grazia, vegliava, passeggiando nella sua celletta, non trovando riposo, le parve udire del rumore, nella celletta accanto, che era proprio quella di suor Serafina. Non vi badò; ma il rumore si ripetè. Era un lamento.
— Ella soffre, poveretta.... —
E s’inginocchiò sulla nuda terra a pregare, per vedere di trovar un po’ di sonno, un po’ di pace. Ma il gemito, dall’altra parte, continuava. Suora Grazia temette che l’altra novizia stesse male e avesse bisogno di soccorso. Pure, la badessa aveva espressamente proibito alle monache di uscire dalle loro celle la notte; e non arrivava a serrarle dentro, perchè era certa di essere obbedita. Ma di fronte a quell’angosciarsi della sua compagna, suora Grazia non resistette e non osando trasgredire gli ordini, bussò al muro mediano, ripetutamente: i lamenti si tacquero un minuto, poi ripresero:
— Suor Serafina, suora? — disse suora Grazia, con la faccia appoggiata al muro.
Costei non le rispose. Un gemito più forte, anzi, le uscì dal petto. Suora Grazia non resse più e uscita dalla sua celletta penetrò in quella della sua compagna.
Suora Serafina aveva lasciata accesa, come ogni notte, una sua lampadina ad olio, innanzi a una immagine della Vergine: lampada fioca che non diradava completamente le ombre della stanzetta. Suor Serafina era a letto, supina; ma aveva gli occhi sbarrati, le labbra schiuse e le ceree mani distese lungo la persona, come quelle di una morta. All’aprirsi della porta, non si era mossa, come se non avesse udito:
— Mia sorella, Serafina, che avete? — disse suora Grazia, piegandosi su lei, prendendole una mano fredda.
L’altra novizia la guardò, come trasognata e disse, balbettando:
— Muoio....
— Dove avete male? Ditemi; vi aiuterò.
— Al cuore.... — mormorò la infelice, quasi soffocando.
Difatti, suora Grazia, allora si accorse che la novizia affannava fortemente, che ogni tanto tentava sollevarsi sull’unico guanciale, quasi non potesse respirare.
— Che posso farvi, ditemelo?
— Nulla.... nulla.... — disse l’altra, come un soffio.
— Ma non posso vedervi soffrire così.
— Non importa, non importa, — mormorò la novizia, con un leggiero moto della testa.
Ma in questo momento il suo male le strappò un gemito più forte e si fece livida. Allora suora Grazia si slanciò su lei e la sollevò nelle sue braccia, perchè quella pareva che affogasse; la tenne stretta così, mentre quella muoveva la testa e la bocca quasi a bever l’aria che le sfuggiva. Tenendola abbracciata sentì che il cuore di suor Serafina batteva convulsamente, precipitosamente.
— Dio mio, — pensò — dovesse morire! —
Suor Serafina, però, in quella posizione, respirava meglio; potè dire:
— Se non mi alzavate, morivo....
— Volete qualche cosa? Chiamo qualcuno?
— No. Sarebbe inutile.
— Così, senza soccorsi....
— Morire, non è un gran male, — mormorò la bionda e pallida novizia.
Poi, una nuova palpitazione la scosse, la convulsionò; ella si teneva stretta a suora Grazia; gemeva forte, senza fiato, coi denti stretti e le nari dilatate, cinerea nel viso.
— Oh Dio, muoio, muoio....
— Fatevi coraggio, sorella, coraggio.... —
Questo spasimo durò ancora una mezz’ora, nella quale suora Grazia tenne abbracciata suora Serafina, perchè ella non soffocasse; poi, l’angoscia si venne calmando, man mano, Grazia sentì chetarsi quel cuore sconvolto e farsi debole.
— Meglio, è vero? — chiese a Serafina, vedendo che ella socchiudeva gli occhi, come esausta.
— Meglio, sì. È passato: non morirò ancora.
— Questo male, lo avete sofferto altre volte?
— Sì: nel mondo.
— E non si può guarire?
— Pare di no.
— È grave?
— È gravissimo.
— Perchè vi siete chiusa, allora?
— Per vivere in pace, almeno, questo poco tempo che mi resta da vivere.
— E non avete trovato pace, mia sorella?
— No. Il mio male è implacabile.
— Abbiate fede!
— Ho fede, sì, ho fede, — balbettò suora Serafina, guardando nelle ombre della stanza.
— Un po’ di coraggio, anche!
— Ah quello, mia sorella, non lo ho più! — esclamò la novizia, crollando il capo.
— Avete avuto molte tribolazioni?
— Molte.
— Grandi?
— Grandi assai.
— Non ci pensate!
— Il loro pensiero è qui, — disse la novizia, indicando la fronte. — Ma quando mi angoscia troppo, discende sul cuore, come un peso di piombo e il mio male ricomincia.
— Non pensateci, calmatevi, — mormorò suora Grazia, non osando lasciare la malata.
— Voi siete buona.
— Anche io ho sofferto.
— Così giovane!
— Ho cento anni, per i dolori, — disse la povera ebrea fatta cristiana.
— Poveretta, poveretta! — Un ultimo spasimo le contrasse la bocca.
— Ecco, l’accesso è finito, — mormorò — andatevene, sorella mia, non disobbediamo alla madre superiora.
— Non posso lasciarvi così.
— Non ho più nulla, vedete. Sto bene, — disse, con voce fievole, la inferma.
— Tutta sola, qui!
— È il mio destino. Solissima nel mondo. Chi mi amava, è sparito, — disse Serafina, a capo basso.
— Morto!
— Come se fosse morto: o morto, se volete. —
E gli occhi di suor Serafina si riempirono di lacrime: ella si fece di nuovo pallidissima.
— Non pensate al passato, — mormorò suora Grazia, a voce bassa.
— Non posso non pensarci: è il mio incubo, — disse l’altra novizia — lo sapete. Dio ha forse concesso l’oblìo?
— Non ancora, — disse l’ebrea che aveva cercato rifugio nella fede cristiana.
— Non ne siamo degne, forse, — replicò suora Serafina, abbassando gli occhi.
— Avremo questa grazia, certo.
— Speriamo in Lui! —
Così, in quella notte, le due novizie si lasciarono, giacchè pareva loro che avessero anche troppo disobbedito agli ordini della superiora. Nessun altro rumore giunse dalla celletta della novizia Serafina e Rachele Cabib ovvero suora Grazia potè supporre che ella si fosse addormentata. Lei, la neocristiana, non potè riprender sonno; il suo sangue ardeva troppo di collera e di dolore, come al primo giorno dei suoi terribili disinganni: ella era troppo giovane e troppo sana per potersi rassegnare, per poter dimenticare. La povera suor Serafina era una donna non più giovine e consumata dalla tristezza e dalla infermità, mentre suora Grazia, cioè Rachele Cabib, conservava tutte le potenze della vita, intatte.
Dall’indomani, una maggiore intimità si stabilì fra loro e l’una ricercava volentieri la compagnia dell’altra. Non già che parlassero del mondo, del passato; ma sentivano di esser venute lì dentro, spinte da una ragione quasi identica, sentivano di cercare insieme quella pace che la esistenza quotidiana non offriva più loro. Al coro si mettevano vicine, pregando insieme; spesso, s’incontravano in giardino, nelle poche pause fra un dovere religioso e l’altro. Prima di andare a dormire si salutavano, rimanendo un minuto insieme, innanzi alla porta delle loro cellette; ognuna rientrava, subito, nella gran solitudine notturna dove, spesso, nessuna delle due trovava il sonno.
La superiora osservava questa familiarità limitata e la sorvegliava, con occhio diffidente. Malgrado che fosse un’anima semplice, entrata in quel convento dalla giovinezza e rimastavi chiusa almeno quarant’anni, ella aveva pratica delle novizie e sapeva quanto è duro e difficile l’anno del loro noviziato.
Ella conosceva che il mondo parla a loro con tutte le sue voci, anche con quelle dei suoi dolori e che esse, le novizie, non possono dimenticare. Quell’anno di prova, spesso, riesce a male, giacchè colei che è entrata, non trovando pace nelle preghiere, nelle mistiche contemplazioni, è ripresa dal mondo. Ora, per la gloria di Dio e dell’Ordine, il monastero delle sepolte vive deve conservare tutte le anime che vi si vengono a rifugiare!
La madre superiora temeva che, fra loro, le due novizie si comunicassero troppe cose, parlassero troppo delle loro sciagure e che trovassero un ardente pascolo alla immaginazione, in quei discorsi. Veramente esse non discorrevano troppo ed ella non aveva fatto loro, ancora, nessuna rampogna. Soltanto, un giorno, le parve che suor Serafina piangesse, al coro, e che Rachele Cabib, ossia suora Grazia si chinasse, due volte, a dirle qualche cosa di confortevole, all’orecchio. Dopo il coro, ella avvertì la bionda e pallida novizia di venire nella sua cella.
Essa era austera come tutte le altre e un crocifisso d’avorio era sulla tavola, presso la quale sedeva la madre superiora. L’antica monaca teneva le dita incrociate sul suo rosario; e dal volto scialbo e rugato, dagli occhi grigi e velati, traspariva una grande bontà.
— Mia figlia, io ho a dirvi qualche cosa, — ella si volse a suor Serafina che, ritta, la guardava coi suoi occhi gonfi di lacrime.
— Parlate, mia madre.
— Voi avete pianto, al coro?
— Sì, madre.
— Il vostro cuore è oppresso?
— Sino a morirne, mia madre.
— Pregate, mia figliuola, pregate molto.
— Lo faccio, lo faccio.
— E ancora non otteneste pace?
— Ancora, no.
— Ci vuole perseveranza.
— Non avrò pace che con la morte, — mormorò la novizia, non più giovine, abbassando gli occhi.
— Queste sono parole disperate e non voglio udirle da voi, — disse la superiora, aggrottando le ciglia.
— Mia madre, perdonatemi!
— Bisogna dominare anche i nostri dolori, — replicò più mitemente la badessa, di fronte alla umiltà della novizia.
— Come fare?
— Pensate che il mostrare le lagrime è dare scandalo!
— Madre mia!
— Così è. È aspra la legge, ma bisogna subirla. In un convento, tutte le manifestazioni della vita debbono essere coordinate: la regola è assoluta. Neppure piangere si può in pubblico.
— Ciò è così crudele!
— Mia figlia, riflettete. Tutte le suore, al vostro pianto, si distraggono dalle orazioni; la curiosità le vince ed esse cadono in peccato. Anche il pianto è una tentazione.
— Mia madre, mi frenerò.
— Fatelo! D’altronde, farsi vedere a piangere, significa mostrare che la grazia del Signore non ha ancora toccato il vostro cuore; ciò è così male!
— Come fare? Io sono, certo, una creatura indegna.
— Tutti siamo indegni. Ma chiedete questa grazia e l’avrete. Poi, pensate anche a colei che avete accanto, al coro....
— Suora Grazia?
— Sì, anch’essa è novizia. Voi la scoraggiate, piangendo.
— Anch’essa piange, talvolta.
— Lo so. Sono le tracce del mondo, che non vogliono ancora scomparire. Avete scambiato delle confidenze, è vero?
— No, madre.
— Qualche cosa, almeno?
— Qualche cosa vaga.
— Avete fatto male. Non dite altro. I dolori si esaltano, parlandone. Confidatevi solo a Dio, al confessore e a me, se avete bisogno di espansione umana.
— Ubbidirò, mia madre.
— Voi siete figlia, per me, — disse la superiora, con voce più affettuosa. — Se vi è cosa che io desideri, è di vedervi serena in Dio. —
La novizia si chinò e le baciò la mano.
Poi, uscì. La badessa si fece il segno della croce e disse sommessamente una breve orazione. Fu bussato alla porta della sua celletta, pian piano:
— Entrate, mia figlia, — diss’ella.
— Sia lodato Gesù e Maria, — mormorò suora Grazia, la povera Rachele Cabib, entrando.
— Oggi e sempre, — rispose la superiora, segnandosi.
Tacquero. La badessa pensava, raccolta in sè.
— Mia madre mi ha fatto chiamare?
— Sì, mia figliuola.
— E che debbo fare, per obbedirvi?
— Volevo dirvi qualche cosa. La vostra intimità con l’altra novizia mi spiace.
— È malata, è mortalmente malata.
— Lo so. Assistetela, ma non più che fareste con un’altra. Tutte vi sono sorelle, qua dentro.
— Ella soffre più delle altre, forse.
— Tutte abbiamo sofferto.
— Anche voi, madre mia?
— Anche io!
— E ora?
— Ora non soffro più.
— Dio vi ha concesso la pace! — e l’ebrea fatta cristiana sospirò profondamente.
— La concederà anche a voi.
— Chi sa!
— Il dubitare è un peccato.
— La mia vita è stata tutto un tramite di dolori, mia madre, — disse suora Grazia, con accento desolato.
— Voi pensate troppo al mondo.
— Come non pensarvi?
— Dimenticate, dimenticate.
— Oh madre mia, se sapeste?
— Qualche cosa mi avete detto. Parlate ancora, se ne avete bisogno.
— Ho ancora visto in sogno mia madre, — mormorò suora Grazia, a bassa voce.
— Ella è morta, è vero?
— Non lo so.
— Non lo sapete?
— Mio padre, Mosè Cabib, volle sempre farmi credere che ella fosse morta; ma io non lo credo.
— Povera figliuola, — disse la badessa, facendo un atto fuggevole di carezza verso il volto solcato dal dolore di suora Grazia.
— Madre, io la vedo sempre, in sogno. È lei che mi ha spinto a farmi cristiana; è lei che mi ha fatto fuggire di casa mia; è lei che mi ha consigliato di chiudermi in un convento....
— Sempre in sogno?
— Sempre!
— Anima santa?
— Ritengo che sia cristiana anche lei, o mia madre.
— Come si chiamava?
— Sara. Ma deve aver cangiato nome.
— La credete viva?
— Fermamente, sì.
— E non l’avete cercata?
— Ho tentato. Come potevo, sola, povera, abbandonata, perseguitata?
— Perseguitata?
— Non vi hanno scritto che qualcuno mi cercava?
— Sì.... — Marcus Henner! Uno spirito infernale! Il mio più terribile nemico!
— Vi amava?
— Sì: lo diceva. Un impostore, un sacrilego, madre, che osava portare il nome del divino Gesù!
— Come?
— Già, si faceva chiamare il Maestro.
— Ma che era?
— Un gobbo, un mostro. Credo che adoperasse la magìa; certo, conosceva dei fascini.
— Dio ci scampi! E gli siete sfuggita?
— Miracolosamente. Ma, vedrete, mi cercherà anche qui.
— Qui, è impossibile. Non si penetra che con un permesso del vicario.
— L’otterrà! Dio mio!
— No. Non temete. Non fu il vicario a raccogliere l’abiura, a mandarvi qui?
— Sì.
— Non sa egli tutto?
— Sì.
— Non gli avete detto che è questo mostro?
— Sì, sì, madre mia, ma temo tanto! Egli è l’origine delle mie sciagure.
— Voi amavate qualcuno, è vero? — riprese lentamente la madre badessa.
— Sì, — disse con voce fievole, Rachele Cabib, abbassando il capo.
— Un uomo libero?
— Sì.
— Un cristiano?
— Sì.
— Vi amava?
— Mentiva! — gridò la novizia, lampeggiando dai begli occhi neri.
— Mia figlia, mia figlia, calmatevi, non parlate così. Avete bisogno di sfogare, ma non vi abbandonate alla passione, vi dovrei punire.
— Quell’uomo mi ha ingannata, madre. Dio gli perdoni! Io.... non posso.
— Perdonerete, perdonerete. Vi aveva fatto dei giuramenti?
— Sì, sacri, innanzi a Dio e alla Madonna. Doveva sposarmi, quantunque fosse cristiano, nobile e ricco.... — Troppa lontananza, figliuola mia. E gli metteste fede?
— Completa. Mi fu fedele, un anno.
— E poi?
— Mi tradì. Fu trovato mortalmente ferito sulla soglia della casa di una sua amante.
— Ed è morto?
— No, non è morto.
— Non lo avete riveduto?
— No. Avrei dovuto ricercarlo in casa di lei; colà era stato ricoverato.
— Chi lo aveva ferito?
— Un suo intimo amico, ma suo rivale, il conte Roberto Alimena.
— E costui?
— Fu incarcerato. Pendeva il processo, quando sono entrata qui.
— Che cose orribili!
— Atroci, madre mia. Oh, che giorno fu quello, per me! Ero fuggita di casa mia, con Rosa, sole, di notte, esposte a mille rischi.... per le vie di Roma.... come due pazze.... come due avventuriere....
— Avete potuto fare questo?
— Quell’uomo mi perseguitava.... dovevo fuggire.... ero perduta....
— Oh, povera figliuola!
— La più misera di tutte le creature umane, mia madre.
— E che avvenne? —
Suora Grazia tacque un pochino, abbassando il capo sul petto.
Il più penoso che dovesse dire, era proprio quello, il racconto della notte fatale in cui era fuggita dalla casa del vicolo del Pianto ed era andata dal conte Ranieri Lambertini, giù, al portone, come una poverella.
— In quella notte, madre mia, ho sofferto quanto umanamente si può soffrire, credetelo, per quanto noi amiamo la Vergine!
— Dove andaste?
— A casa di lui.
— Così, tutta sola?
— Con Rosa. Del resto, avevo una fiducia assoluta in lui. Doveva sposarmi, perchè mi amava, perchè lo amava. E poi, madre.... quell’uomo.... quel mio persecutore.... mi faceva troppo spavento!
— Ebbene?
— Ebbene, egli non vi era.
— Dio mio, quale sgomento!
— Restammo mezz’ora, fuori quella porta, a notte alta, quasi all’alba, esposte alle curiosità malevoli di chiunque passasse!
— E poi?
— Poi, ci aprirono: il portiere ci disse che non vi era.
— Ve ne andaste?
— Dove andare? Da chi? Come? Restammo, con Rosa, aspettandolo.
— E non venne?
— No. Non venne.
— Era partito?
— In quella notte era stato ferito mortalmente.
— In quella? ... Che cosa terribile!
— Terribile, terribile, madre mia.
— Povera fanciulla!
— E lo seppi da un servo, sotto un portone, e mi fu soggiunto che era in casa di lei, della contessa Loredana.... Io non vi andai!
— Faceste bene.
— Ma quanta è stata la mia angoscia, o madre, non la potete immaginare. In cinque minuti, crollate tutte le mie speranze, senza più padre, senza più sposo, senz’amore, senza casa, senza nulla, mia madre, in cinque minuti.
— Dio! Dio! — mormorò la vecchia monaca che si era lasciata prendere anche lei da quel soffio ardente di dramma.
A capo basso, la novizia era assorbita dalla rinnovata tetraggine dei suoi pensieri. L’occhio vivido era secco; s’intendeva che ella non piangesse mai, nelle ore di strazio, sofferendo mille volte di più. Tutta l’alterezza di un animo nobile e fiero spasimava innanzi a quel tradimento, a quell’abbandono, ma non si arrendeva.
— E che faceste, allora?
— Non so.... non so bene dirvi, il mio stato. Mi vidi perduta. Non avevo che quella misera serva, ignorante, contadina, rozza; eppure, essa mi salvò.
— Essa?
— Sì. Dio agisce per vie così umili! Ella conosceva un ritiro di dame sole, quasi monacale: vi andammo. Non volevano accettarci. Ma quando seppero che ero ebrea e che volevo farmi cristiana, ebbero pietà di me e mi tennero. Ma rimasi colà in preda al più grande dolore e al più grande spavento.
— Temevate quell’uomo?
— Sì! Ero straziata per il tradimento di Ranieri e avevo una paura orribile del gobbo.
— Rimaneste in quel ritiro?
— No. Mi avrebbero scoperta. Da sicuri indizi ero certa che mi cercavano alacremente.
— A chi ricorreste?
— Al vicario. Egli mi fece condurre a Torre degli Specchi, dove restai del tempo, ancora. Ma neppure lì ero al sicuro. Appena entravo in un monastero, dopo pochi giorni ricominciavano ad apparire delle facce losche, accadevano dei fatti atroci, delle cose sospette si manifestavano.... — Una persecuzione implacabile!
— Implacabile! Avete detto la parola, madre mia; ma Dio mi aiutava.
— Cambiaste vari monasteri?
— Sì, tre, in Roma. Sono stata anche a Spoleto e a Rovigo. Ho viaggiato, vestita da monaca velata, di notte, sorvegliata. Ma che!
— Da ogni posto siete venuta via, per lui?
— Sì.
— Non era una vostra fantasia?
— No. Io non ne sapeva nulla.
— Come?
— Erano le madri superiori che si accorgevano di queste indagini, di questi volti equivoci, di questi pericoli....
— Ebbene?
— Mi mandavano subito altrove!
— E poi?
— Dissi al vicario: trovatemi un convento dove si muoia alla vita, per sempre, donde io non possa uscire, neanche cadavere, dove nessuno, mai, possa entrare, trovatemelo, vi entrerò, sarò monaca di quest’ordine, sparirò, sarò morta!
— E allora?
— Allora, egli mi rispose: giacchè lo volete, vi manderò alle sepolte vive di Napoli. E, sono qui, madre.
— Dio vi conforti, mia figlia, perchè i vostri venti anni sono stati una desolazione. Qui, nessuno vi troverà.
— Ne siete certa? —
La monaca ebbe un pallido sorriso.
— Qui si è morta, figlia mia, al mondo, morta materialmente e moralmente.
— Egli non mi troverà?
— Come trovarvi?
— E se sospettasse?
— Non entrerà.
— Credete, credete?
— Non entrerà.
— Se andasse dal vicario del Papa?
— Non vi andrà; e vi andasse, non entrerebbe qui.
— Oh madre mia! — disse suora Grazia, in un impulso di tenerezza, inginocchiandosi innanzi a lei e baciandole la mano.
In questo momento, fu bussato alla porta della celletta. La badessa, invece di dire avanti, andò lei ad aprire la porta. Era la conversa che stava al portone.
La conversa parlò sottovoce con la madre superiora, per un momento; costei restò perplessa, senza rispondere. Poi, rimandò via la portinaia, con un ordine sommesso, e ritornò nella celletta. Suora Grazia, la povera, la infelicissima Rachele Cabib, si era inginocchiata e con la faccia tra le mani, pregava.
— Mia figlia? — chiamò la badessa.
— Madre?
— Il vostro animo è più calmo?
— Sì, abbastanza.
— Lo sfogo che avete fatto, è stato benefico, dunque?
— Sì, mia madre.
— Vi sentite più forte?
— Che volete dire, madre? — ella domandò, con voce subitamente angosciata.
— Non vi allarmate: ho da darvi una notizia.
— Quale notizia? Quale?
— Eccovi turbata di nuovo. Evidentemente, siete troppo poco forte e io non vi dirò nulla.
— Per pietà, madre, parlate!
— Mi promettete di essere tranquilla?
— Sì.
— Promettetemelo per la Vergine dei Dolori a cui siete devota.
— Lo prometto, — disse solennemente suora Grazia.
Un minuto di pausa vi fu, fra le due donne: poi la madre superiora riprese:
— Vi è qualcuno che desidera parlarvi.
— Qui?
— Sì.
— Una monaca?
— No, gente di fuori.
— Gente di fuori? Ma chi? Ma chi? — gridò Rachele, con le guance accese subitamente.
— Figliuola mia, e la calma?
— Oh madre, che sgomento! È lui, è lui, non è vero?
— Chi, lui?
— Marcus Henner, il perverso, il mostro, il mio persecutore!
— Vi ho detto che egli non avrebbe mai posto il piede qui dentro!
— Vedete, mi cercano!
— Non è lui.
— E chi è?
— Una donna, figliuola mia.
— Una donna?
— Sì, Rosa, la vostra domestica, quella poveretta che vi ha tanto aiutata. —
Un sospiro di sollievo dilatò il petto di suora Grazia.
— Meno male, — mormorò.
— È giù, Rosa, — disse la badessa.
Suora Grazia non rispose.
— Volete voi vederla? — riprese la vecchia monaca.
La novizia levò gli occhi, quietamente, e rispose:
— No, mia madre.
— Perchè?
— Perchè, no.
— Ditemene la ragione.
— Madre!
— Io debbo saperla.
— Non voglio avere nessun contatto col mondo.
— Comprendo. Ma costei era la sola persona, umile e servizievole, che vi abbia voluto bene.
— Gli affetti umani non mi riguardano più.
— Va bene; ma costei vuole forse vedervi per l’ultima volta.
— No, madre. L’ho salutata, l’ho baciata. Non ho più nulla da dirle, più nulla da udire.
— Chi sa, poveretta, avrà qualche bisogno!
— Le ho dato tutto quello che possedevo.
— Non volete vederla?
— No.
— Io debbo insistere, con voi. Non volete vederla?
— Ma perchè, madre, insistete?
— Perchè è il mio dovere. Siete novizia e non posso separarvi totalmente dal mondo.
— Pure, non dovreste lasciare le tentazioni giungere sino a me.
— V’ingannate. Ho fede in voi e so che resisterete. Queste prove sono necessarie, — disse teneramente.
— Io non voglio vedere Rosa, — disse con voce fievole suora Grazia.
— Ma perchè?
— Perchè ella mi ricorda il mio fatale, il mio sciagurato amore, perchè mi parlerà di Ranieri Lambertini!
— Speriamo di no, — disse la badessa, a voce bassa.
— Sì, me ne parlerà e io mi sentirò schiantare il cuore, mia madre, questo povero cuore ferito e trambasciato! Oh! non fatemi andare giù, mia madre, lasciate che io resti sempre sola, che io possa dimenticare! —
E cadde inginocchioni innanzi alla madre superiora, tenendole le braccia.
— Alzatevi, — disse costei. — Manderemo via Rosa. —
E uscita sulla porta della sua celletta, chiamò una conversa. Dopo pochi minuti, la portinaia riapparve.
— Direte a quella buona donna che la novizia suora Grazia non può discendere. —
La portinaia crollò il capo.
— Reverenda madre, essa non vorrà andar via.
— E perchè?
— Perchè si è seduta, perchè ha detto che aspetterà anche due ore, anche un giorno, ma che non vuole andare.
— Ebbene, la convincerete ad andarsene.
— Dirò che Vostra Reverenza non vuole.
— Non già. È proprio la novizia, che non vuole scendere.
— Sono io, — disse suora Grazia, con voce ferma. — Non posso scendere, non voglio scendere.
— Andate, Maria Crocifissa. —
Costei uscì, lentamente.
La superiora guardò la novizia, con un pallido sorriso.
— Avete fatto bene, mia figlia. Dio vi assista!
— Beneditemi, mia madre. È l’ultima rinunzia, questa. —
E curvò la bianca fronte, su cui la madre superiora posò la mano scarna e un po’ debole.
Una luce vivida apparve negli occhi della vecchia monaca e la sua voce ebbe una velatura di emozione, dicendo le sacre parole:
— Dio, benedite quest’anima che è vostra! —
Ma come la novizia, a capo basso, pallida in volto, si disponeva per la seconda volta a escire da quella celletta, dove era restata così a lungo, Maria Crocifissa, la conversa, rientrò e disse:
— Non vuole andar via, quella donna. Dice che ha cose della massima gravità da comunicare alla novizia.
— Io non voglio discendere, — mormorò suora Grazia, un po’ scossa, ma con voce ancora ferma.
— Sostiene che ha notizie di una persona assai cara alla novizia, — ripetè monotonamente la conversa, che era abituata alla parte meccanica dell’ambasciatrice.
— No.... — balbettò suora Grazia, con voce fievole.
— Credete che si tratti di lui? — disse la madre superiora, all’orecchio della novizia.
— Lo credo: è di Ranieri che vuole parlarmi.
— La novizia non può discendere, — disse con tono austero la superiora.
Maria Crocifissa sparve di nuovo. Suora Grazia era livida in volto.
— Voi soffrite assai, mia figlia? — chiese la badessa.
— Assai, assai.
— Andate in cappella, a pregare. Dite le laudi della Madonna.
— Le dirò, madre, — rispose la povera Rachele Cabib, con viso e voce di disperata.
Uscendo, ella pensò di aver compiuto l’ultimo sacrificio a Dio. Respingere Rosa che le portava notizie dell’unico uomo che aveva amato, della persona in cui ella aveva riposte tutte le sue speranze, era stato un atto di suprema volontà, ma il suo cuore ne soffriva orribilmente. Pieno di orgoglio, questo cuore che aveva adorato Ranieri Lambertini, adesso era affogato in un’amarezza senza confine, sentiva di non poter perdonare il tradimento. Di un temperamento sano e vivace, di un carattere leale e forte, Rachele Cabib non trovava niuna giustificazione a quel tradimento così volgare, così ignobile, commesso in pieno amore, perpetrato con una brutalità che l’aveva atterrata. Sì, Ranieri Lambertini era stato subito punito del suo grave errore; egli aveva incontrato una ferita mortale, forse la morte, sulla porta della perfida Sirena che lo aveva ammaliato; ed era stato per mano di un amico, amico infido, che egli era stato colpito, a tergo, dicevano. Forse egli non era morto! Che ne sapeva, lei? Povera pecorella smarrita, ella era andata a ricoverarsi sotto le ali proteggitrici della religione, ed era passata di convento in convento, perseguitata dallo sgomento di Marcus Henner, credendo almeno di essere perseguitata da lui, non avendo neanche pace nel chiostro e finendo per venire a seppellirsi viva sotto quel terribile ordine di sepolte. Morto! Anche lei, oramai, era morta al mondo ed erano stati inutili la sua gioventù e la sua bellezza, era finita ogni sua speranza, era spezzato ogni suo vincolo con l’esistenza; ed ella si sentiva morta.
Che venivano a chiamarla, nella sua tomba? Perchè sollevarne la lapide funeraria? Che volevano mai dirle? Forse egli era vivo; ma ella era morta. Forse egli era vivo, ma l’amore non crollato, dileguato; il beffardo tradimento rideva e sghignazzava su quella rovina. Che le importava, se egli fosse vivo? Morto l’amore e morta lei.
Prostrata sul freddo marmo del coro, ella cercava invano di piegare la sua attenzione e la sua anima alle dolci laudi della Vergine, in cui tante volte aveva versate la piena del suo sentimento; ma il suo cuore trafitto, piagato, era profondamente distratto dalle preci. Come Lazzaro, ella si lagnava che la venissero a trarre fuori dal suo sepolcro; e la luce della vita le sembrava odiosa. Non aveva pace. Si levò, andò verso la grata che affacciava nella chiesa bassa di suor Orsola Benincasa, fittissima grata, a cui era lecito di accostarsi solamente nelle ore delle grandi funzioni religiose, giù. La chiesa era deserta. Rachele Cabib appoggiò la fronte a quei legni incrociati e guardò. Ombra e silenzio, giù. Solo, accanto a un pilastro, Rachele che mirava con occhio avido, vide inginocchiata una donna. Il suo acuto sguardo aquilino riconobbe Rosa, la sua domestica, la fedele che voleva dirle qualche grande notizia, ma che ella aveva così reiteratamente respinta.
Ah che, in quel momento, il cuore della povera fanciulla ebrea, fatta cristiana, si franse in due, pensando che, forse, la verità e la vita erano in quella donna che, tutta sola, scacciata dalla presenza della sua padrona, pregava, inginocchiata!
Ella, dietro a quella grata, versò un fiume di lagrime cocenti, sapendo di non poter richiamare quella donna, sapendo che ella doveva essere coerente a sè stessa e ubbidiente agli ordini della madre superiora. Lei, Rachele Cabib, lei, la novizia delle sepolte vive, lei, suora Grazia, aveva detto di no, aveva respinto la verità e la vita raccolte in quell’umile servente. Come richiamarla? Come osar di dire alla superiora che si era pentita della sua fermezza e della sua astensione? Come confessare che il suo cuore, tutto destinato a Dio, ardeva ancora di passioni umane? Ella si tormentava, dietro a quella grata, con la fronte contro il legno, con la voglia di gridare a Rosa che tornasse, che risalisse sopra, che bussasse alla porta del convento ed ella sarebbe discesa, a piedi scalzi, anche, per sentire da lei che cosa dovea dirle; ma la voce soffocata non le usciva dalla strozza, una irrefrenabile ver gogna le faceva ardere il viso. Torturandosi nella sua impotenza, ella vide Rosa pregare a lungo, poi levarsi pian piano, farsi il segno della croce, attraversare la chiesa, salutare l’altare, in fondo alla chiesa, e sparire. Finito tutto, dunque?
Come folle, Rachele Cabib uscì dal coro, per i chiostri; sperava che Rosa, da sè, avesse insistito per entrare, fosse ritornata; sperava di incontrare la conversa portinaia, Maria Crocifissa, che venisse a richiamarla. Nessuno, nessuno. Ella sarebbe andata, ora; avrebbe disobbedito a sè stessa e alla segreta volontà della superiora. Ma nessuno apparve, salvo qualche monaca che andava attorno per faccende e che scambiava il solito saluto con suora Grazia. Tutto era finito.