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e che esse, le novizie, non possono dimenticare. Quell’anno di prova, spesso, riesce a male, giacchè colei che è entrata, non trovando pace nelle preghiere, nelle mistiche contemplazioni, è ripresa dal mondo. Ora, per la gloria di Dio e dell’Ordine, il monastero delle sepolte vive deve conservare tutte le anime che vi si vengono a rifugiare!

La madre superiora temeva che, fra loro, le due novizie si comunicassero troppe cose, parlassero troppo delle loro sciagure e che trovassero un ardente pascolo alla immaginazione, in quei discorsi. Veramente esse non discorrevano troppo ed ella non aveva fatto loro, ancora, nessuna rampogna. Soltanto, un giorno, le parve che suor Serafina piangesse, al coro, e che Rachele Cabib, ossia suora Grazia si chinasse, due volte, a dirle qualche cosa di confortevole, all’orecchio. Dopo il coro, ella avvertì la bionda e pallida novizia di venire nella sua cella.

Essa era austera come tutte le altre e un crocifisso d’avorio era sulla tavola, presso la quale sedeva la madre superiora. L’antica monaca teneva le dita incrociate sul suo rosario; e dal volto scialbo e rugato, dagli occhi grigi e velati, traspariva una grande bontà.

— Mia figlia, io ho a dirvi qualche cosa, — ella si volse a suor Serafina che, ritta, la guardava coi suoi occhi gonfi di lacrime.

— Parlate, mia madre.

— Voi avete pianto, al coro?

— Sì, madre.

— Il vostro cuore è oppresso?

— Sino a morirne, mia madre.

— Pregate, mia figliuola, pregate molto.

— Lo faccio, lo faccio.

— E ancora non otteneste pace?

— Ancora, no.

— Ci vuole perseveranza.