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200 la mano tagliata.


Così, in quella notte, le due novizie si lasciarono, giacchè pareva loro che avessero anche troppo disobbedito agli ordini della superiora. Nessun altro rumore giunse dalla celletta della novizia Serafina e Rachele Cabib ovvero suora Grazia potè supporre che ella si fosse addormentata. Lei, la neocristiana, non potè riprender sonno; il suo sangue ardeva troppo di collera e di dolore, come al primo giorno dei suoi terribili disinganni: ella era troppo giovane e troppo sana per potersi rassegnare, per poter dimenticare. La povera suor Serafina era una donna non più giovine e consumata dalla tristezza e dalla infermità, mentre suora Grazia, cioè Rachele Cabib, conservava tutte le potenze della vita, intatte.

Dall’indomani, una maggiore intimità si stabilì fra loro e l’una ricercava volentieri la compagnia dell’altra. Non già che parlassero del mondo, del passato; ma sentivano di esser venute lì dentro, spinte da una ragione quasi identica, sentivano di cercare insieme quella pace che la esistenza quotidiana non offriva più loro. Al coro si mettevano vicine, pregando insieme; spesso, s’incontravano in giardino, nelle poche pause fra un dovere religioso e l’altro. Prima di andare a dormire si salutavano, rimanendo un minuto insieme, innanzi alla porta delle loro cellette; ognuna rientrava, subito, nella gran solitudine notturna dove, spesso, nessuna delle due trovava il sonno.

La superiora osservava questa familiarità limitata e la sorvegliava, con occhio diffidente. Malgrado che fosse un’anima semplice, entrata in quel convento dalla giovinezza e rimastavi chiusa almeno quarant’anni, ella aveva pratica delle novizie e sapeva quanto è duro e difficile l’anno del loro noviziato.

Ella conosceva che il mondo parla a loro con tutte le sue voci, anche con quelle dei suoi dolori