La guerra del vespro siciliano/Capitolo XI
Questo testo è incompleto. |
◄ | Capitolo X | Capitolo XII | ► |
CAPITOLO XI.
Il dì medesimo della battaglia, re Carlo trapassava dai mari di
Toscana a quei del regno, avendo seco da quaranta galee, portato da
prosperi venti, da novelle speranze, finchè a Gaeta il nunzio
incontrò, scrivealo al papa egli stesso, di sollecitudine e angoscia.
Più che la perduta flotta, il trafisse la morte e prigionia de’ suoi
gagliardi; del figliuolo sol rammaricossi perch’era un pegno in man
dei nemici; talchè nel solito abbandono di rabbia, o infingendosi,
imprecavagli: «Foss’ei morto com’è prigione! Che m’è a perdere un
prete imbelle, uno stolto che si da sempre a’ consigli peggiori1?» I
terrazzani di Gaeta, che già a stigazion de’ loro usciti erano per
ribellarsi agli avvisi di Napoli, cagliarono vedendo inaspettato con
una flotta il re: il quale non curolli, tirato da vendette maggiori;
che tra due pendeva, o inseguir Loria di presente, o sfogare su Napoli2. A questa come più vicina si volse. Approdatovi il dì otto giugno, ricusava smontare nel porto; soprattenutosi al Carmine, minacciava arder Napoli; talchè a mala pena il dissuasero Gherardo e i nobili, i quali scusando il popolazzo con dirgli: «Sire, e’ furono folli.--E io, rispondea, punirò i savi che ciò soffersero ai folli3.» Lasciò dunque torturare i rei, o creduti4; investigò, borbottò; commosso infine a clemenza, contentossi di cencinquanta, o poco più, impiccati per la gola: ma sperava rifarsene con più largo sagrifizio nell’isola5. Le popolazioni di Puglia, che fortuneggiando il governo avean levato in capo, or s’umiliavano di tanto più basso; profferiano al re averi e persone: ed egli a tal apparenza dell’antico vigor di comando, col gran cuore che allora il portò sì alto, si fidava pure vincer la prova. Mette in punto a Napoli e l’armata sua e le reliquie della disfatta del principe; comanda si fornisca l’altra di Brindisi; scambia nell’armata del regno i capitani, nel civil governo gli officiali; non curante scrive per l’Italia: essersi involata innanzi a lui la flotta de’ ribelli Siciliani, dissipata la codarda e mobil canaglia che gridava in terraferma; avanzargli soldati, marinai, ottantasei galee, teride altrettante, numerosa prole del figliuol suo per la successione al trono; già movea a
compiere il meritato sterminio dell’isola6. Al papa aggiugne: sol
ch’abbia moneta, trionferà questa volta; il papa col solito amore
provegga all’ultimo sforzo. Temendo pure esausto quel cieco zelo o il
tesoro, il dì stesso commette al vescovo di Troia e a Oddone
Polliceno, consiglieri suoi, che procaccino uno imprestito con
l’intesa di fidati officiali del papa; vadano a corte di Roma, in
Toscana, in Lombardia; richieggan città, compagnie, mercatanti, tutto
purchè abbian cinquanta mila once d’oro. Pochi dì appresso
raccomandavasi a maestro Berardo da Napoli notaio del papa, dicendo
accatto non più, ma sussidio7. Nè invano il chiese a Martino, che
fatto per lui tanto sperpero delle decime dell’orbe
cattolico8, or entro un mese gli fornì novellamente quindicimila e seicento once di oro; spigolandole dalle lontane chiese di Scozia, Dacia, Svevia, Ungheria, Schiavonia, Polonia; e allegando sempre l’onore e ’l pro della navicella di Pietro9.
Il quarto poderoso armamento adunava dunque Carlo, con le forze ausiliari della più parte delle città italiane; e die’ superbamente il ritrovo a Reggio, occupata allora dai nostri10. A Brindisi ei cavalcò il ventiquattro giugno; di Napoli fe’ salpar la flotta sotto due ammiragli, l’un provenzale, italiano l’altro, che, girato intorno alla Sicilia, per accrescer terrore a’ nemici, e schivar essi il passaggio dello stretto, niente sicuro con Loria e i Messinesi al fianco, alla flotta dell’Adriatico si congiungessero. Navigando costoro s’avvennero in una nave mercatantesca catalana; e presala, gli uomini tutti, da pochi Romani e Pisani in fuori, gittarono in mare, come se ciò riparasse l’onta della sconfitta di Napoli. Insultate poi qua e là le costiere dell’isola, appresentansi un momento provocando alla catena del porto di Messina; vanno a trovare l’altra armata a Cotrone; e riforniti di vivanda, a mezzo luglio, pongonsi all’assedio di Reggio. Quivi per terra andò il re con l’esercito di diecimila cavalli e quaranta migliaia di pedoni, se da creder è a Bartolomeo de Neocastro. Sommarono a cencinquanta o dugento i legni grossi. Carlo si pose alla Catona con parte dell’oste; il grosso lasciò a campo a Reggio: presala, e come no? si passerebbe in Sicilia11.
E Reggio, debol di sito e di mura, tenne inopinatamente, per la
virtù di Guglielmo de Ponti catalano, e d’un picciol presidio di
Catalani e Siciliani, nel quale si noveravan Messinesi trecento.
Sostennero i nostri ogni più duro assalto; e la vigilanza alle guardie
faticosissima ai pochi: e con fino saettar dalle mura scemavano gli
assedianti, gente vendereccia o venuta a forza, odiante forse il
vecchio re cui la fortuna volgeva le spalle, e mormorante per la
penuria delle vittuaglie, non provvedute abbastanza dal principe di
Salerno, e scarsissime d’altronde quell’anno per tutta
Calabria12. Indi a rinfrancarsi i Messinesi dopo il primo
terrore13. Indi a sgomenarsi in un attimo, nelle maestre mani di
Carlo, la mal costrutta macchina di questa guerra. Tra il sì e il no
di valicare lo stretto14, Carlo aspettò alla Catona infino allo
scorcio di luglio15; e vedendo che l’assedio di Reggio era niente,
corse a incalzarlo egli stesso; e il quattro agosto passò oltre ad
Amendolia; il cinque alle spiagge di Bruzzano: e facea venir
vittuaglie e stromenti da guerra, e par che quivi aspettasse l’esito
di qualche tradimento in Sicilia16, e disegnasse qualche altro
assalto su la costa orientale dell’isola17. Perchè tentando
anco l’esca delle concessioni, forse per chiesta de’ Siciliani con cui praticava, creò vicario generale in Sicilia con pien potere il conte Roberto d’Artois, fidando in esso, dice il diploma, come nella sua persona medesima, e dandogli di poter dispensare perdoni e guarentigie, che il re ad occhi chiusi confermerebbe: e pensava mandarlo in Sicilia con un grosso di genti18. Questo disegno non fu recato ad effetto. Rivien Carlo sopra Reggio; tentata senza pro una scaramuccia, sciogliene l’assedio il tredici agosto19; e tornasi alla Catona con quanto avea d’oste e di navi.
E incontanente in Messina Ruggier Loria, non potendo per tale
smisurato divario di forze uscir con l’armata, ordinò schiere di
cavalli su le spiagge: il popol tutto intrepido e lieto ripigliava le
armi; l’infante Giacomo confortavalo con la sua presenza; nè andò
guari che i Messinesi con sottili barche a remeggio dier principio a
molestar le galee nimiche, motteggiando e saettando se potessero
trarle presso al porto di Messina20. Provocarono invano, perchè il
nemico non pensava ormai che a ritrarsi.
Incredibil fine di tanto sforzo: onde degli scrittori del tempo, altri
disse che re Carlo mandasse due cardinali a trattare in Messina del
riscatto del figliuolo, e che Pier d’Aragona li intrattenesse finchè
fu passata la stagione acconcia alla guerra21; altri die’ a vedere
l’Angioino arrestatosi a un tratto dal passaggio, perchè i nostri
minacciasser di mettere a morte il principe di Salerno22. Tal
minaccia che, mandata ad effetto, pur sarebbe stata alto e salutare
consiglio rinforzando i Siciliani con la virtù della disperazione, io
non la credo da tanto da trattener Carlo fidante nella vittoria. Errar
più manifesto è quel de’ primi, perchè Pietro non tornò giammai di
Spagna in Sicilia, nè di mezzo agosto si potea creder finita la
stagion di combattere. Ma ben altre invincibili necessità volsero
questa seconda fiata negli amari passi di fuga il guerriero angioino.
Malaspina allega la sola mancanza delle vittuaglie, come poi scrisse
il medesimo re Carlo
Saba Malaspina, cont., pag. 413, 414.
Docum. XXIII.
. Più forti cagioni ne mostrano altri diplomi
del re. L’esercito mormorava, fremea, faceasi di giorno in giorno più
immansueto; questa contumacia apprendeasi agli abitanti delle
Calabrie23. Cominciò l’armata ad assottigliarsi per molti
disertori; passò tal contagio nell’oste; non menomavasi per guardie
che il re facesse mettere ai passi; non per le ordinate inquisizioni
strettissime de’ disertori; nè per un atroce comando, che mostra in
Carlo le smanie della tirannide al guardare qual precipizio già il
trascinava. Perch’ei, quasi non sapendo ritener altrimenti i regnicoli
che non lo abbandonassero, assomigliando a fellonia la fuga che
snervava l’esercito regio, ordinò prima il sette agosto da Bruzzano, e
più volte appresso, si mozzasse il pie’ a tutti i disertori; ma disse
il pie’ indistintamente pei Saraceni; pe’ cristiani, da carità
maggiore, designò che si troncasse il sinistro. Gran pezza
continuarono per tutta la ritirata e queste fughe e questi orrendi
gastighi24: nulla giovarono al re. Avea alle spalle Reggio intera e
minacciosa; in Sicilia s’incalzavano gli armamenti; il proprio
esercito si assottigliava, si disfacea, dileguavasi. A che
cercar altre cagioni alla ritirata di Carlo?
Il caso l’affrettò con una crudele tempesta, che percosse di notte le navi ancorate alla Catona senza schermo: le quali per manco male si lanciavano in alto mare; e tornate a dì, dopo aver corso gravi pericoli, trovaron l’esercito in terra poco men di loro travagliato dalle folate del vento e dell’acqua. A mezzodì, splendendo in Messina un bel sereno, di nuovo si scaricarono le procelle su’ lidi opposti; che parea, dice il Neocastro, ch’anco il cielo e ’l mare scacciassero gli stranieri25. Ma più degna è di nota la virtù di Ramondo Marquet catalano, vice ammiraglio d’Aragona. Costui, mandato dal re con quattordici galee, quando si seppero in Catalogna i novelli apparecchiamenti del nemico, navigava nel mar di Milazzo. Vistol da terra, un Villaraut cavalier catalano comandante di quella città, spiccasi ansioso sur una barchetta a dirgli dell’enorme flotta nimica ingombrante lo stretto; e Ramondo a lui: «Comandommi il re di condur queste navi a Messina; innanzi ad umana forza non volterò:» e seguitava il suo corso. Villaraut ne spacciò tosto avviso all’infante. E lo stuol delle navi nostre, gareggiando coi pro’ Catalani, escì di Messina a incontrarli infino a torre di Faro. Entrambi in faccia al nimico, non molestati, si ridussero in porto26.
Dopo questi fatti non tardò Carlo a sgombrare; e scorgendo ciò i nostri, davansi a molestarlo, come già nell’ottantadue, mettendo in mare, tra catalane e di Sicilia, cinquantaquattro galee. Le quali come fur pronte, Ruggier Loria, convocati in piazza di San Giovanni Gerosolimitano comiti e ciurme e le altre genti, fatto grande silenzio per la riverenza dell’uomo, così parlò: «Ecco la seconda fuga dell’usurpatore di Napoli! Vedete confusi in quel navilio, Provenzali da noi in mare sconfitti due volte; Francesi inesperti; e, diversi ben di costumi e di voglie, Toscani e Lombardi stipendiati, regnicoli disaffetti: italica gente tutta, che di noi ricorda i renduti prigioni, il mite adoprare in guerra, e, perchè no? la cacciata stessa di quegli stranieri insolenti. Ma voi, Catalani e Siciliani, diversi di lingua solo, una gente siete d’affetto e di gloria; provati insieme in battaglia: e che è a voi la mal ragunata moltitudine di là? Assalitela dunque, sperdetela, mentre nostra è la fortuna27!» E il popolo a una voce: «Alla battaglia, gridava, alle navi;» e tumultuoso correavi; nè aspettato comando, salpò. Portavanli vento e corrente gagliardissimi a Reggio, forse a ineluttabile perdita, quando un comito di galea: «Restate, sclama, restate! si raccolgan le vele;» e ubbidito senza intender perchè, come in moltitudine avviene: «Non v’accorgete, seguiva, che in secco andiamo, a darne senza combattere a’ Francesi!» Costui salvò la flotta. Rivolte le prore, ancorossi al Peloro, a dodici miglia dalla nemica.
Ivi chieser le genti, o l’ammiraglio disegnò un assalto sopra Nicotra, tenuta dal conte Pietro di Catanzaro, con cinquecento cavalli e duemila soldati da pie’ e altrettanti terrazzani; spensierati per fidar nelle vicine forze del re. Loria, trascelte dieci galee, piombavi a mezza notte; non sì improvviso pure, che il conte non facesse pria sfondar otto galee ch’avea in arsenale, e con tutti que’ della terra fuggisse. Poco sangue perciò fu sparso; ma fatto grande e ricco bottino. Appiccan fuoco dispettosi i nostri alle galee e alla città, per toglier comodo al nimico, che fatto aveane sua stanza principale in quella guerra: e ne tornò ai Nicotrini che senza patria miseri paltoneggiando, riparar dovettero qua e là per Calabria, e i più a Monteleone e a Mileto. Preso fu quella notte un Geraci da Nicotra cavaliere, e dicollato a Messina per fellonia; sendosi una volta recato in parte per lo re di Aragona, e po’ fallitogli. Pietro Pelliccia, cavaliere alsì e da Nicotra, incontrò più crudo supplizio. Costui, governando Reggio per noi, da invidia e malvagio animo, avea fatto a furia di popolo ammazzare sette de’ maggiori uomini della città: indi catturato per comando di Pietro; e dal carcere si fuggì. Coltolo a Nicotra, l’ammiraglio il da in balìa a’ figliuoli di quegli uccisi; che fecerlo in pezzi.
Tornatosi alla sua flotta allo schiarire del dì, l’ammiraglio vide quella di re Carlo far vela per lo mare Ionio, rimontando a Cotrone; onde messosi a inseguirla, trovaronsi a sera, distanti quattro miglia tra loro, alla marina di Castelvetere. Ciò allettò Ruggiero ad esplorar da sè stesso i nimici. Perchè montata una barchetta peschereccia, cheto sguizzando tra le lor navi, ebbe a udire il cicaleccio delle genti; ch’altri lodava lui stesso ancorchè nimico; altri lacerava re Carlo, malurioso e fatto dappoco; e i più anelavano tornarsi a lor case. Corse allor l’ammiraglio un gran rischio, e, come mille altre volte, l’aiutò la fortuna. «Chi è dalla barca?» gli gridò una scolta; e l’ammiraglio pronto: «Povero pescatore; e m’affatico per servigio del re.» Ma tornato di presente al suo navilio, prendevi una man di trecento tra Catalani e Siciliani, per assalire Castelvetere, terra a quattro miglia dalla spiaggia. Taciti giungono sotto le mura; non hanno scale, e fansele con le aste delle armi legate insieme; sulle quali un Fasano messinese montò primo tra tutti. Abbattutosi con le guardie ch’eran deste, ne uccide quattro costui, ucciso è dalle rimagnenti; ma pochi altri Messinesi seguendolo schiudean le porte; ondechè fu messa la terra a sacco, con assai più sangue che a Nicotra. La notte appresso, spintosi infino a Castrovillari, quindici miglia entro terra, se n’insignorisce l’ammiraglio; e nel tornarsi alle navi, anco di Cerchiaro e Cassano; e rientrato in nave, assaltò Cotrone. Fe’ vela indi per Sicilia; lasciando il re che in fretta riconducea in Puglia navilio ed esercito.
Dal canto del Tirreno peggio precipitaron gli eventi. Matteo Fortuna,
condottier di due mila almugaveri, impavido era rimaso tutta la state
nelle occupate terre di Basilicata; che non si crederebbe, ma forse
Carlo, per troppa fretta del passaggio in Sicilia, lo sprezzò. Costui
inanimito agli esempi dell’ammiraglio, una piovosa notte, d’un sol
colpo guadagnava Morano, terra e castello; e poscia Montalto, Regina,
Rende, Laino, Rotonda, Castelluccio, Lauria, Lagonegro, e altre terre
in val di Crati e Basilicata. Eran le armi del re fuggitive e lontane;
per contrario, presente nei popoli l’esempio di Nicotra, vivi gli
umori di ribellione; ed ivano attorno con molti altri eccitando gli uomini di maggior seguito, due frati calabresi della famiglia
dei Lattari: talchè tutti alla nuova dominazione si volser gli animi;
fecersi occultamente le bandiere con le insegne di Sicilia; e un
soffio a’ Calabresi bastava a chiarirsi. Il fe’ Tropea, mossa da due
frati; e Strongoli, Martorano, Nicastro, Mesiano, Squillaci. E sì
certo pareva il tracollo della signoria di Carlo, che principiando a
fallirgli i suoi stessi, Giovanni de Ailli, o Alliata, francese,
signore di Fiumefreddo in val di Crati, venne a Messina a fare omaggio
all’infante Giacomo; il quale confermavagli quel feudo, e un altro ne
concedeva. Mileto, Monteleone e altre terre tentennarono ancora: tutte
le Calabrie perdeansi, se non era pel conte d’Artois. Questi, seguito
alquanto il re, com’ebbe quegli avvisi, pronto voltò coi suoi cavalli;
ponendosi a Monteleone a raffrenare i vogliosi di novità, e troncare i
passi a una picciola banda di almugaveri, che da Tropea tentava le
usate scorrerie ne’ casali d’intorno. I quali, or battuti dagli
almugaveri ed ora dal conte, più maledivano lui che i nemici; perchè a
nudrir le sue genti iva dissotterrando i grani occultati nella
durissima carestia di quell’anno. Arrigo Pier di Vacca, aragonese,
uomo di nome e valente in arme, mandato dall’infante Giacomo, forse in
Tropea, a maturare con l’autorità di vicario del re quegli importanti
moti delle Calabrie, poco operò per aver poche forze28.
Colpa dell’ammiraglio che potendo col temuto navilio osar la fortuna
di quelle prime fazioni, e distrugger la flotta nemica, e compier se
non altro la sollevazione delle Calabrie e di Basilicata, non
curandosi di ciò che avveniva dalla parte del Tirreno, per invidia o
avarizia, disegnò una impresa da pirata, come se non ci fosser nemici
più da combattere. In alto mare, mette il partito di assalire la
fertil isola delle Gerbe, poche miglia discosta dal continente
d’Affrica, tra Tunisi e Tripoli; impresa, dicea, al nome cristiano gratissima, a loro utilissima, perchè quei can maumettisti securi e imbelli nelle ricchezze nuotavano. Gli fan plauso le ciurme: invocan Dio e la Vergine; e arsi di cupidigia navigano alle Gerbe. Giunservi il dodici settembre. La notte posta una galea nel canale tra l’isola e la terraferma, breve e guadoso a basso fiotto, e tolto così lo scampo, agl’indifesi abitatori dan di mano. Qual rimorso con infedeli? Ammazzato al par chi resiste e chi fugge; quanti ascondeansi in cave sotterra, sbucati come volpi col fumo; i più menati schiavi; e d’oro, argento, masserizie fu grandissima la preda. Due mila i prigioni, secondo il Montaner, sei mila secondo il Neocastro; e gli uccisi sommarono quattro mila, ch’è orribile a dirsi, ma forse vero, perchè non credo uno scrittore sì insensato da cercar vanto qui nell’esagerare. Ciò temo del Montaner quando leggo il bottino di questa e somiglianti imprese; onde parmi, che da soldato avventuriere ch’egli era, contava sogni d’invidia, scrivendo come tolte tutte le spese, tanta preda si spartisse tra le genti di Loria, che sdegnavan poi a gioco tutt’altro conio che d’oro, e appena avrian sofferto nella bisca chi ponesse mille marchi d’argento. Si riscattarono gl’isolani avanzati alla schiavitù o alla spada; giurarono omaggio alla corona di Sicilia29; e l’ammiraglio fabbricovvi una fortezza, e s’ebbe poi l’isola in feudo30. In questo tempo un Margano principe d’Arabi, cavalcando con grande stuolo alla volta di Tunisi lunghesso la riva, fu appostato, e preso dalla gente d’un galeon catalano, e recato allo infante, che il tenea, scrive Neocastro, come preda, non come prigion di guerra, nel castello di Messina31, per istrana avventura compagno di carcere al principe di Salerno. Ma la cattività dell’Affricano, nè nocente a noi nè nemico, fu trapasso di ladroneccio e avarizia da pirati, non gloria alle nostre armi. Nol fu tutto questo fatto dell’isola delle Gerbe, se non che il malo acquisto si mantenne poi con onor della nazione. Restò alla corona di Sicilia, non ostante la ribellion dell’ammiraglio che aspirava alla sovranità di quell’isola, e non ostanti le guerre e calamità in cui fummo avvolti; nè si perdè che negli ultimi anni di Federigo II, quando l’aristocrazia sfrenata e patteggiante, consumò tutte le forze nella esecranda guerra civile. Ruggier Loria riducendo l’armata in Messina a svernare, empiè la Sicilia di schiavi gerbini, e ripassò in Calabria con un grosso di cavalli. Quivi s’insignorisce di Agrataria e Roccella; combatte un Iacopo d’Oppido, feudatario; il rompe; mette a sacco e a fuoco il paese. Voltosi a Nicotra con altro animo, rifà le mura, afforza le castella, richiama gli sparsi abitatori: e incontanente, come per ammenda di quest’opra di umanità, torna in Sicilia a sfogare con altre enormezze quell’animo irrequieto, sanguinario, ambiziosissimo e superbissimo oltre ogni dire32.
Perchè la gelosia dell’impero, crescendo per lontananza di luogo nell’animo di Pietro e per invidia in Ruggiero e negli altri ministri dell’infante Giacomo, si portava già in Sicilia a crudeli consigli; come è nelle cose di stato assai incerto il confine tra il guardarsi e l’offendere. E sembra in vero che, tenendo una parte de’ nostri baroni a ristrigner la balìa della corte aragonese, e tirandosi sempre all’opposizione, alcun di loro si mostrò benigno ai prigioni francesi, e massime al principe di Salerno; altri tenne forse pratiche con re Carlo: e che la fazion della corte aragonese, ingrossata dagli usciti calabresi e pugliesi, esagerò quelle pratiche, le appose ugualmente a chi le avea maneggiato e a chi sol volea mantener le franchige della nazione; e tutti accagionò di tradimento, per aver pretesto a spegner chi le paresse, e trovare riscontro nel popolo, abborrente sempre da’ suoi antichi tiranni. Però dopo il ritorno della flotta dall’isola delle Gerbe, e la ritirata e scompiglio dell’esercito di re Carlo, la fazione aragonese, ormai secura dalle armi di fuori, diessi a riurtar contro gl’interni oppositori; e fece spegnendo pochi dei più grandi o più audaci, e nel medesimo tempo menando grande strepito di condannagione del principe di Salerno33. E prima due nobili uomini, Simone da Calatafimi e Pieraccio d’Agosta, eran puniti nel capo; questi, confessa il Neocastro, a stigazion degli emuli suoi, come fautor di parte francese; l’altro perchè, noto già come avverso alla rivoluzione e al nuovo principato, s’era partito di Sicilia sotto colore d’andarsene colla moglie e’ figliuoli in Inghilterra al servigio di quel re, ma poi fu preso che riparavasi in Napoli contro il dato giuramento34. Poi il grande Alaimo soggiacque ancora alla giovanile perfidia di Giacomo; del quale Montaner fa lode col proverbio catalano: «Spina non punge se non nasce acuta35:» e tal fu l’infante; ma acuto e precoce al male; a vent’anni maturo già ai tradimenti.
Affrettossi la ruina d’Alaimo per la moglie tracotante, che sfatava, non ch’altri, Costanza stessa; negando chiamarla reina, ma sol madre di don Giacomo; schifava le sue carezze; infrequente a corte, se non era a lussureggiar di nuovo spendio di ornamenti; e una volta andovvi a tastar gli animi quando il principe di Salerno venne prigione. Costei sendo incinta, volle come maggior d’ogni legge, pretestando malattia, far soggiorno nella casa dei frati minori a Messina, per l’amenità e solitudine del luogo; dove ita Costanza a visitarla, il nimichevole animo non placò. Partorita Macalda, mandava per Alaimo la regina, offrendo con Giacomo e Federigo tener al fonte il bambino; e la donna se ne scusò con dir che temea pel nato dal freddo dell’acqua; ma tre dì poi fecelo da popolani battezzare in chiesa. Notavasi ancora come un’altra stagione in Palermo, sapendo che la regina inferma fosse andata in barella al santuario della Vergine a Morreale, il dì appresso Macalda, nè per cagionevole salute nè per voglia di visitar santuari, si fece portare in una barella coperta di scarlatto per le strade della città; e fu vista poi viaggiare di Palermo a Nicosia nella stessa guisa, che parve strana in quei tempi; e di crudo verno a capriccio affaticar soldati e vassalli sotto il peso della bara. Questi femminili dispetti o vanaglorie, a corte eran misfatti. In tal colore li scrive il Neocastro, aggiugnendo più nero, che Macalda dall’infeminito Alaimo si facesse dar sacramento di fuggir la corte, non mischiarsi in consigli contro i Francesi, e fin procacciare che riavessero il reame. Di fatti palesi, narra come girando l’infante in quel tempo d’una in una le terre della isola, e intrudendosi ad accompagnarlo Macalda come avea costume, questa fiata non solo agguagliavalo in lusso e corteggio, ma con arroganza novella, essa facea da giustiziere quanto il marito: e peggio temeasi, vedendola, col principe scortato da soli trenta cavalli, trar dietro a sè trecento sessanta uomini d’arme, di dubbia fede o sospetti, spigolati apposta da varie terre.
Allora nei consigli di Giacomo si tramò un colpo di stato. Portatosi in Palermo, ei dà segretissimo avviso ai Catalani de’ vicini luoghi, fosser cavalieri, officiali del fisco, o fanti di presidio in castella, che tutti trovinsi a Trapani a tal dì; mandavi nove galee catalane delle quattordici di Marquet; vi sopraccorre egli stesso con buono stuol di cavalli; nè il fa intender che alcuni dì appresso ad Alaimo, il quale ripudiato dalla corte, per altra via andò a Trapani con Macalda. Ma un dì, quasi tornandolo in grazia, adunato il consiglio, Giacomo chiama inaspettatamente Alaimo36: e rivolto a lui, toccava i pericoli che si vedean sovrastare non ostanti le fresche vittorie; il padre non muoversi per lettera o messaggio a mandar grossi aiuti; non veder, dicea, chi potesse svolgerlo, se non che Alaimo; salvasse egli la patria e la corona; andasse al re, sulle galee lì pronte a tornare in Catalogna: e finito il dir dell’infante, più efficaci di lui i consiglieri facean ressa ad Alaimo. Li comprese; non vide scampo il grande; li guardò in volto; e rispose che andrebbe. Lo stesso giorno dunque, che fu il diciannove novembre dell’ottantaquattro, entrò in nave; ebbe cruda tempesta a Favignana, sì che una galea ruppe a Levanzo; con le rimagnenti a Barcellona arrivò. Quivi tutto lieto in volto l’accoglie re Pietro; ascolta, loda, promette che faranno insieme ritorno in Sicilia: vezzi leonini, che nè Alaimo nè altri ingannarono37.
Comandato avea senza dubbio Pietro medesimo questo rapimento d’Alaimo,
in un con la dimostrazione di condannare il principe di Salerno,
strettamente connessavi, com’anzi dicemmo, e dagli storici, per amor
di parte o dubbiose notizie, narrata variamente sì, ma in modo da non
dilungarsi gran tratto dal vero, e lasciarci vedere in fondo che fu
artifizio per ritrovare i ligi della corte e i resistenti; per troncar
tutte pratiche, spaventando e i nostri e i prigioni; per ridestar le
antiche passioni del popolo a tanto strepito; e prepararsi lodi di
longanimità con trattener la scure che sospendeasi sul capo al
figliuol di re Carlo. E avea Alaimo, o in adunanza pubblica o in
maneggi privati, contrastato questa condannagione del principe; il che
forse fu cagion principale del suo precipizio38. Ma divulgato
questo in un baleno per tutta l’isola, con maraviglia e dolore dell’universale, caddene l’animo ai partigiani d’Alaimo, crebbe a que’ della corte. Ond’ecco l’ammiraglio con la fama delle recenti imprese, seguito da una mano d’usciti del reame di Napoli, gittasi a sollevar la plebaglia di Messina, gridando tradimento contro i migliori che teneano per Alaimo. Rabbiosa e diversa, chiamando a morte i prigioni francesi, corre la canaglia alle case d’Alaimo, ove assai n’erano, e al palagio del re, che serravane cencinquanta sotto la guardia di venti soldati catalani: e qui seguia grand’esempio di virtù da una parte, di atrocità dall’altra, a mostrare a che estremi opposti portinsi gli uomini. Perchè i Catalani alla prima fecer testa; ma vedendosi sforzati, sciolgono i prigioni, e armatili alla meglio, lor dicono: «Insieme, per le vostre vite combatteremo,» e da finestre, da tetti, coi tegoli, con le armi ributtano gli assalitori, ancorchè ingrossati al romore. Allora gli usciti gridarono al fuoco; e mettean cataste intorno il palagio. Soffocati dal fumo, quei miseri saltan dalle finestre, chieggon mercè; ma son trafitti, ripinti semivivi nelle fiamme; e narra Malaspina degli usciti tal altro orrore, che nè il credo io, nè il dirò39. Prigioni e guardie, ei ripiglia, tutti periano. Il Neocastro tace quelle crudeltà, scema anco i prigioni a sessanta; altri li porta a dugento, e ricorda le fiamme40. L’umanità della regina, e la fortezza di Matagrifone, salvarono con molti altri il principe.
Poi si tenne un parlamento in Palermo a deliberare di lui; dove, dice il Neocastro, tutti accordavansi a mandarlo a morte in vendetta di Corradino, se non che dissentirono i Messinesi con Giacomo e la reina. A questo aggiungon fede, non ostante il divario delle circostanze, il Montaner, Giachetto Malespini, il Villani, e sì una lettera di re Alfonso di Aragona a Eduardo d’Inghilterra, nella quale trattando di pace con Carlo II si afferma condannato lui dai Siciliani, e scampato dal re. Favoleggiò un altro contemporaneo, che la regina un venerdì facesse intendere a Carlo d’apparecchiarsi alla morte; e che poi gli perdonasse per la sua fortezza a tal nunzio, e la rassegnazione a morire lo stesso dì che si ricorda la passione di Cristo; ma tal novella nacque manifestamente dal vero fatto narrato dianzi. Certo è che il principe in questo tempo, per tor luogo ad attentati in favor di lui, o contro, fu tramutato nel castel di Cefalù. Liberati gli altri prigioni, tutti sotto fede di non militar contro noi; ma non altri che Galard poi la osservò41.
Macalda intanto, sol essa non isbigottita tra tanti suoi partigiani, sperando tuttavia volger sossopra ogni cosa, andata era in Messina: ma con tal audacia fe’ rincrudire i governanti, i quali incontanente promulgan reo d’alto tradimento Alaimo; spoglianlo dei beni, e dispensanli a lor favoriti o partigiani; fan perir di mannaia a Girgenti il tredici gennaio Matteo Scaletta, fratel di Macalda, confessante, diceasi, congiura col cognato. Indi a diciannove febbraio incarcerarono nel castel di Messina la stessa Macalda co’ figli; alla quale era nulla tal rea fortuna, sì che ilare e contegnosa passava il tempo a giocare col principe arabo e co’ famigliari; e una volta, quando portossi l’ammiraglio a strapparle i titoli del feudo di Ficarra, essa, come nell’alto della possanza, il garrì: «Bel merto ne rende il padron tuo! Compagno, non re, il chiamammo; ed egli usurpa lo stato, e di soci fatti n’ha servi42. Bene a noi sta; ma digli che non muterei questi miei ceppi nè il palco, col suo trono pien di misfatti!» Sembra tuttavia che la sventura consumasse quest’animo che non potea domare; e che Macalda tosto morisse in prigione, perchè la storia null’altro ne dice di lei. Non andò guari che Alaimo co’ nipoti Adenolfo di Mineo e Giovanni di Mazzarino, nel campo di Pietro in Catalogna fur sostenuti. Un corriero diceasi preso con lettere di Alaimo al re di Francia, piene di tradimenti: ch’ei domandava sicurtà per sè e’ nipoti, e l’andrebbe a trovare, e fiderebbesi con dieci galee rivoltar la Sicilia a casa d’Angiò. Mostrolle Piero ad Alaimo, il quale negò; onde fu lasciato, e vegliato: ma i nipoti indi a poco uccisero un segretario che le avea scritto. Scoperto l’omicidio, un famigliare e Adenolfo alla tortura il confessano, e Adenolfo anche la tentata tradigione con Francia; e però con Alaimo e Giovanni è chiuso nel castel d’Ilerda. Re Pietro fin qui. Più crudo il figlio, salito al trono di Sicilia procacciava lor morte43. Poco del resto è da credere a questi misfatti, come li spacciò da lontano la corte aragonese. Que’ che s’apposero ad Alaimo in Sicilia non son meno incerti. Ne tacciono i due scrittori catalani, come per coscienza di colpa de’ lor signori. Malaspina scrive, che Giacomo nimicava il leontino per aver contrariato la condannagione del principe. Il Neocastro nol fa nè reo nè innocente, ma portato dalla superbia della moglie; e parla incerto, come ammirator dell’eroe di Messina, e ministro insieme di re Giacomo. Di documenti non avvi altro che il mandato del supplizio d’Alaimo nell’ottantasette, sì scuro44, che, se delitto prova, è di Giacomo, il quale senza forme di giudizio assassinò il glorioso vecchio. Portò costui la pena d’aver puntellato di tutta la sua riputazione re Pietro contro Gualtiero di Caltagirone e’ sollevati dell’ottantatrè. E del rimanente furon sole sue colpe, gli obblighi di casa d’Aragona, la gloria della difesa Messina, del dato reame, la riverenza e amor di tutta Sicilia, la grandezza con poca modestia, e sopra tutto l’invidia di Procida e Loria, non cittadini ma venturieri, pronti a sagrificare ogni cosa a chi lor dispensava beni e comando.
Mentre que’ primi casi d’Alaimo travagliavano la Sicilia, re Carlo consumava le forze del regno e sè stesso, nel delirio di tornar sopra l’isola. Ritirandosi, inseguito dall’armata nostra, sostò pochi giorni a Cotrone; ove crebbe a cento doppi lo scompiglio de’ moltissimi disertori: e indi tutto dispettoso e truce passò il re a Brindisi45; e trovò per conforto gli avvisi d’un altro insulto di quel Corrado di Antiochia, che adoprò sì caldo nell’impresa di Corradino. Costui, adunati esuli del regno e altra gente presso i confini, ove imperava in nome la Chiesa, in effetto ogni sfrenato feudatario o ladrone, entrò a mano armata in Abruzzo al racquisto della contea di Alba. Il conte di Campania li fronteggiò e ruppe46: ei rife’ testa, aiutato di danari dalla reina Costanza47. Un Adinolfo surto in quel tempo stesso a turbar la Campania, disfatto fu da Giovanni d’Eppe con le genti pontificie. Perugia ancora, Urbino, Orvieto e altre città d’Italia levarono in capo contro la Chiesa e parte guelfa, tuttavia poderosa, ma duramente percossa in re Carlo48.
E questi vinto dal disagio, convalescente di quartana, rodeasi tra
mille cure: in man dei nemici il figlio: saltati essi in terraferma:
perduto armamenti, uomini, spesa: affogar nei debiti del danaro
accattato in Francia, e per ogni luogo d’Italia: e come sopperire agli
smisurati bisogni della guerra, se i popoli di Napoli sbuffano, e
negan quasi apertamente e gabelle e collette49? Nondimeno
dissimulando alla meglio, e facendo sempre gran dire della guerra che
porterebbe la vegnente primavera ei stesso in Sicilia e il re di
Francia in Aragona50, provvede a racconciar le navi; scrivere por
forza i marinai; vittovagliar tutte le castella; adunar grani;
preparar biscotto; fabbricar immenso numero di saette e altre arme e
arnesi fabbrili: alletta i feudatari al militare servigio, permettendo
che levassero nuove sovvenzioni da’ vassalli51. E anelando sempre danari, poich’ebbe esauste le altre fonti52, portato
dall’antico vizio, bandì una colletta generale, calandosi pure a
persuadere e pregar quasi i popoli. Bandiva ad essi, che se Dio fosse
ancor Dio, egli ch’avea domi i re e’ regni a un girar di ciglio,
espugnerebbe sì quest’isoletta di Sicilia; e avrebbel fatto
incontanente, aggiugnea, se non che sursegli improvviso nimico il
ribaldo Pier d’Aragona; onde fu mestieri altrimenti ordinar la guerra,
ingaggiarsi al duello, muover Francia contro il reame d’Aragona; e
tornato in Italia, la sola carestia gli avea tolto di mettere sotto il
giogo i Siciliani. «La mia causa, sclamava, è vostra; domi i ribelli,
avran fine i travagli; pace e giustizia faran fiorire il reame.» Ma
perchè a quello sforzo bisognava moneta, chiedea quest’anno a tutti i
comuni la colletta usata, e undici per cento di più a chiunque non
tenesse a molestia di sovvenire alquanto più largamente il suo re53.
Così, tentennando tra bisogno di danaro e necessaria temperanza,
comandava si riscuotesse la colletta anzi tempo; e insieme
chiamava parlamento in Foggia per lo dì primo dicembre. A Melfi indi il tramutò per lo minor caro del vitto. Ebbe sospetto in quel tempo, e forse da calunnie, che tre giudici suoi, tra quali un Quintavalle, e Tommaso di Brindisi, barese, praticassero tradimento di bruciargli la flotta; onde chiamatili a sè, mandolli alle forche come ladroni, non risguardando all’onore e privilegio dell’uficio. Dopo questi esempi non grati a’ sudditi, conturbato e febbricitante va a Melfi, sperando nel parlamento gran cose.
Perciò impaziente il fa adunare, rimanendosi egli in palagio, infermo, o per dispetto delle note disposizioni degli animi: e negatigli novelli tributi, a precipizio lo scioglie. Indi al solito rifugio tornò di papa Martino; che prodigalissimo del non suo, gli avea dato poc’anzi un’altra decima per tre anni su tutte chiese d’Italia, e ribandito avea la croce contro l’isola dei ribelli. Corrieri sopra corrieri mandavagli il re; sognando già danari, indi uomini ed armi, e nuova guerra: e dissimulava ad altrui ed a sè medesimo il morbo che lo tirava alla tomba54.
In grave età, colpito al petto, distrutto di rammarico e rabbia, cadde
in una febbre continua; talchè a fatica di Melfi si trasse a Foggia, a
incontrar la regina Margherita, che tornava di Provenza; con la quale
assai dolorosa la vista fu, e Carlo appena ebbe forza di stender a lei
le tremule braccia55. Allor fu la prima volta che senza inganno
sollecitò il papa alla riforma del governo56. Raccomandò al papa lo
straziato e pericolante reame, che per la prigionia del figliuolo non
potea lasciare a certo successore; se non che sostituirvi, e non
sappiamo con quali condizioni, Carlo Martello, primogenito del principe
di Salerno, giovanotto di dodici anni, col conte d’Artois per tutore o
baiulo, come si disse, e per capitan generale Giovanni di Monforte,
conte di Squillaci; salvo sempre il piacimento del sommo pontefice.
Istituì Filippo l’Ardito tutore delle contee, non della persona del
novello conte, di Provenza e d’Angiò, finchè Carlo lo Zoppo non fosse
liberato della prigione, o, morendovi, non uscisse di minorità Carlo
Martello, o il seguente fratel di costui; al quale effetto scrisse a
Filippo un dì pria di morire, chiamandolo sola speranza e rifugio della
schiatta d’Angiò, e scongiurandolo pei vincoli del comun sangue che non
ricusasse la tutela. Indi con molta pietà confesso delle peccata e
comunicatosi, infino all’ultimo fiato ingannò il mondo o sè stesso,
dicendo che sperava perdono da Dio per aver fatto l’impresa di Sicilia e
di Puglia più a onor di santa Chiesa e ben dell’anima sua, che da
cupidigia di regno. Così a Foggia spirava il dì sette gennaio
milledugentottantacinque, nel sessantesimoquinto anno dell’età sua,
diciannovesimo del regno57. Villani guelfo, favoleggia che lo stesso dì predicossi la sua morte a Parigi per frate Arlotto de’ minori e Giardin da Carmignola maestro dello studio, ambo lodati astrologhi58. Il siciliano Speciale notò, come in quel tempo spaventevol tremuoto scosse l’Etna; e poi squarciandosi il fianco orientale del monte, ne sgorgò fiume di lava che correa sulla chiesa del romitaggio di santo Stefano, ma giuntavi, si spartì in due rami senza pure lambirla59. Un frate spagnuolo in vece di prodigi sul fato di Carlo, scrisse il nobil contegno del re d’Aragona, che risapendolo all’assedio d’Albarazzin, senz’allegrezza sclamò, esser morto un dei più prodi cavalieri che fossero stati unque al mondo60. Mancato un tanto re, papa Martino faceasi a riparare la ruina del regno, e avvantaggiarne la romana corte. Incontanente, col voto del sacro collegio, die’ compagno ad Artois il cardinal Gherardo legato; ambo dicendo deputati dalla romana Chiesa a baiuli del regno, finchè il principe di Salerno non esca di prigione, o il papa altrimenti non voglia61: sottile accorgimento, che ammoniva la casa d’Aragona a non fidar troppo sul valore del pegno ch’avea in mano; e ricordava al mondo la pretensione del dominio del papa sul reame di Sicilia, di cui teneasi vacante il trono, o dubbia la persona del re. Indi i diplomi del tempo variamente s’hanno intitolati e senza legge, or col nome di Carlo primogenito del principe di Salerno, or con quello più vago di eredi e successori di Carlo I, e talvolta vi si aggiungono i nomi de’ due baiuli, o leggonsi questi soli62. Più salutare consiglio fu quello di mandare ad effetto la riforma, non compiuta nei capitoli di Santo Martino, ove la principalissima parte, rimessa al papa, restava incerta come per l’addietro. Or Martino da senno volle i nuovi ordinamenti; come alla giustizia si ha ricorso ove adoprar non puossi violenza. Scrivea essere stato richiesto di quella riforma da re Carlo al tempo dell’andata a Bordeaux, e or novellamente; averla maturato a lungo; di presente promulgherebbela63. Aggiunse un sussidio di centomila lire tornesi perchè Artois s’armasse alla difesa64.
Le quali provvisioni e la saviezza e robusta man dei reggenti, massime d’Artois, sostennero il trono, o vacante, o dubbio tra un prigione e un fanciullo, con sudditi vogliosi di novità65, e nimico vicino, quantunque indebolito per sospetti in Sicilia, e in Aragona turbolenze civili e guerra straniera. Pertanto Corrado di Antiochia riassaltando gli Abruzzi, fu rincacciato66: nelle altre province non si voltarono a re Pietro che tre ville marittime Gallipoli, Cerchiaro, e San Lucido67.
Ma riparata appena la perdita di re Carlo, un’altra ne piombò sul governo di Napoli, non apposta come quella prima a cordoglio d’ambizione o fatiche di guerra. Allo scorcio di marzo, in Perugia, papa Martino, nimico fierissimo di Sicilia, morì, dicono alcuni, d’una scorpacciata d’anguille, che solea nudrir di latte e in vernaccia affogare: di che leggiadramente l’avea morso una satira del tempo68, intitolata Primo principio de’ mali, effigiando lui in manto e triregno, con una bandiera alla man destra, in segno delle attizzate guerre, e a sinistra un’anguilla ergentesi verso un augellino, che posato sulla mitra, reggendosi con le sparse ali s’inchinava a beccarla69. Altri scrive, ben altramente di Martino70. Ma i cardinali senza indugio, chè punto non ne pativano i tempi, rifean pontefice Giacomo de’ Savelli, romano, non per anco sacerdote, attratto e invalido della persona, destro d’ingegno, procacciante l’util de’ suoi più che l’altrui danno; il quale si nomò Onorio IV71. Costui senza la prontezza ligia di Martino, tenne lo stesso metro, per l’antico disegno della romana corte. Avrebbe forse Onorio raffrenato il re di Napoli potente e ambizioso; dovea sostener adesso quel trono vacillante, che metteva in pericolo tutta la parte guelfa in Italia. Porse moneta dunque ad Artois72; confermò ai bisogni della guerra di Sicilia le decime delle chiese italiane73; raccomandò agli stranieri principi gli eredi di Carlo d’Angiò: e ne resta di lui una lettera a Ridolfo imperadore, perchè non contendesse il pagamento delle decime ecclesiastiche dei suoi dominî al re di Francia, già involto in assai spese per la guerra sopra Aragona74.
E noti sono nelle istorie del reame di Napoli i due statuti, ch’Onorio sanciva a sedici settembre di quest’anno ottantacinque, preparati già da Martino. Nel primo dei quali raffermavansi con l’apostolica autorità tutti i privilegi ecclesiastici decretati nel parlamento di Santo Martino, come dianzi ricordammo75. L’altro risguarda il governo civile; dove dopo lungo preambolo, che apponea al tutto la ribellione di Sicilia alle avanie e ingiustizie del governo, trascrissersi e ampliaronsi le leggi del medesimo parlamento di Santo Martino, e molte più se ne dettero a guarentigia delle persone e dell’avere di ogni classe di sudditi. Si disdisse l’iniquo spogliamento dei naufraghi: a favor delle famiglie de’ baroni si estese ai fratelli e lor discendenti il dritto di redare i feudi: il militare servigio o l’adoamento si limitò alle guerre entro i confini del regno: e soprattutto si vietaron le collette, fuorchè nei quattro casi feudali; e si assegnò la somma da potersi levare in ciascuno di quelli. Io non so se debbasi lodar come guarentigia più forte dei sudditi, o biasimar di usurpazione sulla autorità regia, il richiamo de’ comuni alla santa sede, decretato nelle costituzioni medesime; e lo interdetto sulla privata cappella del re alle prime violazioni di queste franchige, la scomunica persistendovi76: ma certo non potea la corte di Roma adoprare a miglior intento civile le spirituali armi. Questi capitoli Onorio fe’ con molta sollecitudine promulgare da Gherardo per tutto il reame di Napoli, e massime nei luoghi più vicini a Sicilia77; e osservaronsi per poco. Poi increbbero ai governanti, come imposti da Roma, o larghi troppo; nè ebber luogo nel corpo delle leggi di quel reame78.
Insieme con queste buone leggi Onorio adoprava non buone arti, suscitando in Sicilia congiure. A ciò mandovvi furtivamente due frati predicatori, Perron d’Aidone, siciliano, e Antonio del Monte, pugliese; i quali iti a Randazzo, recavano a Guglielmo abate di Maniace lettere pontificie con autorità di largheggiar indulgenze a chiunque per la Chiesa si ribellasse. Sospesi eran gli animi per la strepitosa guerra del re di Francia contro Aragona; freschi i torti d’Alaimo, e gli umori che ne dieron pretesto; le costituzioni di papa Onorio, più larghe de’ presenti ordini pubblici in Sicilia. Indi l’abate con gravi parole di religione, trovò tosto seguaci due nipoti suoi, per nome Niccolò e Francesco, messinesi, Bonamico de Randi milite, Giovanni Celamida da Traina, e più altri di Randazzo; indettatisi con giuramento a tradire, non so qual credeano, la patria o il re. E sì l’autorità del papa accecava le menti, che i due frati, passati a Messina, avean ricetto nel chiostro delle suore di santa Maria delle Scale; dal qual sicuro nido misteriosi usciano ad annodare lor fili. Ma la cospirazione allargandosi trapelò. Un Matteo da Termini, messovi sulle tracce dall’infante Giacomo, appostò alfine i due frati predicatori, aiutato da due frati minori, Simone da Ragusa e Raimondo, catalano; i quali il fecer cogliere a casa una femminuccia mendica. Addotti allo infante, senza pur minaccia, svelavan per ordine il trattato; e rimandati erano a Napoli con vestimenta, danaro, e barca apposta; per clemenza non già, ma contemplazione e paura del papa. L’abate fuggì: preso a Palermo, il mandavan prigione a Malta; indi a Messina; e infine libero a corte di Roma. I men rei, al contrario, gastigati severamente: dicollati a Messina i nipoti dell’abate; Celamida alle forche; Bonamico, gittatosi nei boschi dell’Etna a levar mano di disperati, fu accarezzato e svolto a parte regia dalle arti di Matteo da Termini79. Così la congiura si dissipò in Sicilia; mentre in Aragona terminava, senz’altro frutto che d’atti crudeli e mortalità infinita, la guerra che, tornando alquanto indietro nei tempi, ci faremo a narrare.
Note
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 411.
- Giachetto Malespini, cap. 222.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.
- Memoriale de’ podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1158.
- Tolomeo da Lucca, ibid., lib. 24, cap. 11, pag. 1190 e 1294.
- Ferreto Vicentino, Ibid., tom. IX, pag. 955.
- Cron. di San Bertino, op. cit., tom. III, pag. 765. Epistola di Carlo a papa Martino, data il 9 giugno 1284, nel Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 2.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 411.
- ↑ Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 94. - ↑ Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 543.
Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 693. - ↑ Giachetto e Villani come sopra. Con minori particolarità ne scrivon anco Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 28; e l’autor della vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 611.
- ↑ Docum. XVIII.
- ↑ Lettere di Carlo, date il 9 e il 14 giugno, nel Testa, Vite di Federigo II di Sicilia, docum. 1 e 2.
In un’altra del 10 giugno, che si legge, come le precedenti, nel r. archivio di Napoli, registro segnato 1283, A, fog. 150, Carlo chiedeva al papa le bande di Giovanni d’Eppe, scrivendo tra le altre efficaci parole che: _Sicut capitis sanitas vel languor in membris, sic in meis negotiis eiusdem Ecclesie status et dispositio sentiatur._ E con ciò forse voleva far intendere al papa la posizione inversa, del bisogno che la Chiesa avea di lui. Veggansi inoltre:- Diploma dato di Napoli il 10 giugno 1284, per armarsi e fornirsi di vivanda le 19 galee e 2 teride, ch’erano nel porto di Napoli (le fuggitive della battaglia del dì 5), r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 188, a t.
- Diploma dato di Napoli il 20 giugno, duodecima Ind. (1284) per consegnarsi ad Arrigo Macedonio 2,000 _lanzones ferratos_, per l’armata che dovea andare in Sicilia, reg. medesimo, fog. 157.
- Diploma dato di Napoli a 20 giugno duodecima Ind. (1284), pei viveri a due galeoni di 72 remi, capitanati da Giovanni di Coronato, e Navarro, genovesi, r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, seg. 1291, A, fog. 4, a t.
- Diploma dato di Napoli a 21 giugno duodecima Ind. (1284), Giovanni de Burlasio giovane, e Rinaldo d’Avella sono eletti capitani dell’armata di Principato e Terra di Lavoro, r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 155.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 418.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 41, ove è una epistola del 24 luglio 1284.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 412: Gentes per totam fere Italiam auxiliatrici conventione collectae, etc.
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 412, 413.
- Bart. de Neocastro, cap. 78.
- Nic. Speciale, lib. 1, cap, 28.
- Giachetto Malespini, cap. 222.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.
- 1284--9 a 21 giugno--Napoli--reg. 1283, A, fog. 18 a t. 150, 155, 157, 188 a t.; e 1291, A, fog. 4, a t.
- 19 luglio--Catona--reg. 1283, A, fog. 5, a t.
- 20 a 29 luglio--Fossa di Catona--reg. 1283, A, fog. 5, 34 e 54.
- 31 luglio a 2 agosto--Campo allo assedio di Reggio--reg. 1283, A, fog. 5 a t. 34, 166, 166 a t. e 167.
- 4 agosto--Campo presso Amendolia--reg. 1283, A, fog. 167.
- 5 a 10 agosto--Campo alla spiaggia di Bruzzano--reg. 1283, A, fog. 5 a t. 24, 34, 34 a t. 45, 50, 158, 167; e reg. 1283, E, fog. 2.
- 17 agosto--Cotrone--reg. 1283, A, fog. 159.
- 18 a 20 agosto--Cotrone e Brindisi--reg. 1283, A, fog. 9, 174 a t. 158, 158 a t. 34 a t. 35; e 1283, E, fog. 2.
- 22 agosto--Cotrone--reg. 1283, A, fog. 160 e 170.
- 23 agosto a 7 ottobre--Brindisi--reg. 1283, A, fog. 6, 8 a t. 12 a t. 24, 25, 35 a t. 36, 174 a t. 175.
- 8 ottobre--Melfi--reg. 1283, A, fog. 179, a t.
- 10 ottobre a 15 novembre--Brindisi--reg. 1283, A, fog. 6 a t. 7, 7 a t. 8, 26, 27, 27 a t. e 47, a t.
- 26 novembre--Barletta--reg. 1283, A, fog. 12, a t.
- 1 a 21 dicembre--Melfi--reg. 1283, A, fog. 8 a t. 13 a t. 50, 179 a t.; e reg. 1283, E, fog. 2.
- 1285--7 gennaio--Foggia--reg. 1285, A, fog. 14 a t. Quest’ultimo fu dato il medesimo giorno della morte di Carlo I. Contiene una concessione a Guglielmo de Griffis, milite e famigliare suo. È scritto con altro inchiostro, e carattere frettoloso; e può al par indicare o una beneficenza di lui negli ultimi istanti della sua vita, o forse una frode.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 78.
Saba Malaspina, cont., pag. 413, 414. - ↑ Saba Malaspina, ibid.
- ↑ Si scorge tal dubbio da’ seguenti diplomi:
- Diploma dato in Fovea Cathone a 29 luglio duodecima Ind. Ai mercatanti e preposti alle vittuaglie per l’esercito in Cotrone. Subito navighino pel capo di Bruzzano, e riceveranno gli ordini suoi, reg. 1283, A, fog. 166 a t.
- Diploma dato al Campo sotto Reggio il 31 luglio duodecima Ind. a tutti i vegnenti allo esercito reale. Non piglin la via di Monteleone e del piano di S. Martino, ma di Cotrone e Gerace. A Gerace avranno nuove del re e dell’esercito, per sapere ove trovarli. Ibid., fog. 166.
- Della stessa data del 31 luglio v’ha un diploma pel quale il re confermava agli uomini di Seminara le immunità, libertà e privilegi conceduti dal principe di Salerno in contemplazione della loro fedeltà e de’ danni ch’avean sostenuto dal nemico. Ibid., fog. 166 a t.
- ↑ Veg. sempre l’itinerario posto in nota alla pagina precedente.
- ↑ Argomento le pratiche in Sicilia:
- Dalle parole del d’Esclot, cap. 119, che dice come in primavera dell’84 il principe di Salerno si apprestava a passare in Sicilia, con volentat de alguns homens traydors qui eren en Cecilia. Costoro dovean certo continuare col padre le pratiche tenute col figlio pochi mesi innanzi.
- Dalla reazione che avvenne in Sicilia dopo la ritirata di re Carlo, per opera dei più accaniti partigiani della casa d’Aragona e della rivoluzione del vespro.
- Dalla elezione del conte Roberto d’Artois a vicario generale in Sicilia, con pien potere di perdonare e dar guarentigie, docum. XX e XXI.
- ↑ * Diploma dato in Castris in licore Brutzani a 5 agosto duodecima Ind. (1284). Si mandin subito al re per mare alcune macchine e stromenti da guerra. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 167.
- Diploma dato dello stesso campo di Bruzzano il 6 agosto perchè da Mantea si portassero subito all’esercito le macchine e i picconi già preparati per ordine del principe di Salerno, ibid., fog. 167.
- Vari diplomi dati in Fovea Cathone a 29 luglio e in Castris in lictore Brutzani a 5 e 6 agosto, perchè si mandassero a Brindisi e Cotrone quantunque grani, legumi, carni salate e macchine da guerra, ibid., fog. 189.
- Diploma in Castris in lictore Brutzani a 7 agosto. All’abate di S. Stefano del Bosco perchè incontanente faccia costruire per uso dello esercito 500 assi e piuoli per scale, e gliene mandi con istromenti da falegname, ibid., fog. 168 e 169.
- Diploma dato ivi l’8 agosto, per gran copia di frumenti e vittuaglie, Ibid., fog. 169.
- ↑ Docum. XX e XXI.
- ↑ Questa data si ritrae dal Neocastro; e compie appunto l’intervallo dal 10 al 17 agosto che rimarrebbe nello itinerario compilato su i diplomi.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 78 e 80. Da quest’ultimo si scorge che Giacomo era in Messina.
- ↑ Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 94, che dice ancora della mancanza delle vittuaglie. - ↑ Nic. Speciale, lib. 1, cap. 28.
Anon. chron. sic., cap. 48. - ↑ Provano lo scompiglio dell’esercito e dell’armata di Carlo, i diplomi citati nella nota seguente.
Gli umori de’ popoli in Calabria e nelle province di sopra, si argomentano da’ provvedimenti di Carlo che, mentre era lì con un esercito per occupar la Sicilia, creava capitani generali ad guerram in quei luoghi, come si vede da’ seguenti diplomi.- Diploma dato in Fovea Catune a 20 luglio duodecima Ind. (1284) per mettersi danaro e vittuaglie a disposizione di Pietro Ruffo conte di Catanzaro, capitan generale in Calabria, r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 5.
- Diploma dato in Fovea Cathone a 27 luglio duodecima Ind. al medesimo conte di Catanzaro con lo stesso uficio di capitan generale in Calabria, ibid., fog. 166 e 172.
- Tre diplomi dati al campo sotto Reggio il 1 e il 2 agosto duodecima Ind. Ruggier Sanseverino conte di Marsico è eletto capitan generale in val di Crati. Gli è commesso di difender quella provincia dai nemici e ribelli che la travagliavano, ibid., fog. 166 a t. e 167.
- Diploma dato di Cotrone a 22 agosto duodecima Ind. (1284). Per informazioni pervenute al re si diede lo scambio al conte di Catanzaro nel detto uficio di capitan generale in Calabria; e gli fu sostituito Tommaso di Sanseverino figliuolo del conte di Marsico, ibid., fog. 160.
- ↑
- Docum. XIX e XXII.
- Diplomi dati in campisin obsidione Regii a 2 agosto duodecima Ind. (1284). Agli uomini di Martorano e d’altre città. Mandino subito catturati i marinai e subsalientes (erano quelli destinati al maneggio delle vele) che senza commiato lasciavano l’armata regia, e si spacciavano campati dalle mani de’ Siciliani, r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 166.
- Diplomi dati del campo a Bruzzano il 6 agosto duodecima Ind. perchè a Squillaci e in altri luoghi si ricercassero i disertori della flotta, e a prevenir quelli dell’esercito si ponessero guardie de’ terrazzani a tutti i passi vicini al campo, cioè: Nicastro, S. Biaggio, e altri. Si guardi che non passino travestiti da mercatanti, ibid., fog. 167, a t.
- Diploma dato del campo a Bruzzano il 7 agosto, per custodirsi come sopra, per cagion de’ disertori, i passi di Cotrone, Sanseverino, Tatina, Rocca Bernarda e vicinanze, ibid.
- Diploma dato del campo di Bruzzano il 9 agosto duodecima Ind. (1284). Ordinovvisi di fare per tutte le terre marittime, una rigorosa inquisizione di coloro che avessero ricevuto stipendi per l’armata, e l’avesser lasciato; e di prenderli e mozzar loro il piè sinistro, ibid., fog. 54.
- Diploma dato di Cotrone a 17 agosto, agli uomini di Castrovillari, che facciano stretta guardia per catturare questi disertori dell’armata, ibid., fog. 159.
- Diploma dato di Cotrone a 17 agosto, agli uomini di Castellamare, per mandargli prigioni i marinai disertori, ibid., fog. 169, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 7 settembre tredicesima Ind. perchè da Taranto gli si mandassero alcune galee delle isole e costiere del golfo di Napoli, abbandonate senza permesso da’ nocchieri, vogadori e sussalienti, ibid., fog. 161.
- Diploma dato di Brindisi a 9 settembre tredicesima Ind. (1284) per farsi catturare i marinai delle navi provenzali che, disarmata la flotta, fuggissero, ibid., fog. 6.
- Due diplomi, dati di Brindisi il 9 settembre, perchè si ritenesse, anche con la forza, Giovanni de Coronato genovese, che da Taranto si volea partire per Genova col suo galeone, ibid., fog. 162.
- Diploma dato di Brindisi a 12 ottobre tredicesima Ind. È un’altra lettera circolare per catturarsi i disertori della flotta, ibid., fog. 6, a t.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 79.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 80.
Saba Malaspina, cont., pag. 414. - ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 414, 415.
- ↑
- Tutte queste fazioni con poco divario leggonsi in Bartolomeo de Neocastro, cap. 82.
- Saba Malaspina, cont., pag. 415 a 417.
- Diploma dato del campo sotto Reggio il 2 agosto duodecima Ind. (1284) a Riccardo Claremont, riguardanti sei terrazzani di Chiaramonte presi da costui per lor mali portamenti, adherendo et favendo Frederico Musca proditori et mugaveris inimicis nostris. Nel r. archivio di Napoli, reg. segn. 1283, A, fog. 166, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 3 settembre tredicesima Ind. (1284) a Riccardo di Lauria e ai cittadini di Maratea. Sapendo i danni e le molestie che tuttodì soffrivano dai nemici, il re esortavali a tener fermo, promettea aiuto e compensi larghissimi; fidassero nella sua possanza e virtù, ibid., fog. 163, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 5 settembre tredicesima Ind. Avendo testè inteso l’eccellenza del re che gl’infedeli almugaveri fossero corsi in masnade infino alle terre di Riccardo di Chiaramonte nei confini delle province di Basilicata e Principato, comandava a quei due giustizieri di adunar le loro forze di cavalli e fanti, e combattere questi nemici, ibid., fog. 60, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 6 settembre tredicesima Ind. indirizzato a Riccardo di Claremont, permettendogli di richiedere ostaggi da alcuni suoi vassalli, sospetti nelle presenti turbazioni; e di ridurre sotto le fortezze gli abitanti de’ casali in pianura, ibid., fog. 161.
- Diploma dato di Melfi a 8 ottobre tredicesima Ind. per fornirsi danaro a Roberto conte d’Artois, vicario generale In Calabria, al quale n’era mestieri per vari negozi, ibid., fog. 179, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 26 ottobre tredicesima Ind. Giovanni di Salerno è eletto capitan generale ad guerram contro i ribelli e nemici di Scalea. Comandasi di aiutarlo a’ giustizieri di Basilicata, Principato e val di Crati, agli uomini di quelle province, ed a Riccardo di Chiaramonte, ibid., fog. 51, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 26 ottobre per destinarsi un capitano in Maratea, avendo i nemici occupato Scalea e i luoghi vicini, ibid., fog. 51, a t.
- Diploma dato di Brindisi a 8 novembre tredicesima Ind. Il giustiziere di Basilicata per mezzo di Bellono Bello da Messina, notaio e familiare del re, gli avea domandato quale eseguir prima tra tanti suoi ordini; cioè di raccorre la moneta della sovvenzione, d’aiutare Riccardo Chiaramonte, ec. Carlo scrivea che pensasse alla moneta, e differisse il resto, ibid., fog. 52.
- Diploma dato di Brindisi il 14 novembre per mandarsi 100 salme di frumento a Maratea, che soffriva la penuria, oltre le scorrerie e gl’insulti de’ nemici, ibid., fog. 52, a t.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 83 e 84.
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 30.
- Montaner, cap. 117, il quale porta con anacronismo questa correria dopo il passaggio di Giacomo in Calabria, e la confonde con le altre che Loria fece di quel tempo in Levante.
- ↑ Ciò non fu immediatamente dopo la conquista, perchè fino al gennaio 1285, i suoi titoli erano: ammiraglio di Aragona e di Sicilia, signor di Castiglione, Francavilla, Novara, Linguaglossa e Tremestieri. Da un diploma del 25 gennaio 1285, nei Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 1, pag. 147.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 85.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 86.
- ↑ Queste riflessioni nascono dalla esamina di tutti i fatti sparsi nel presente capitolo, e in particolare da que’ d’Alaimo, e dell’eccidio de’ prigioni in Messina, e del giudizio contro il principe di Salerno. Pei sospetti di pratiche angioine in Sicilia, veggasi ciò ch’è detto di sopra a pag. 277, nota 5. Confermali il Nangis nella vita di Filippo l’Ardito, Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 544, ove si legge: Sed quia Siculi principem Salernae Carolum quem captum tenebant, de urbe Messanae ad quoddam castellum Siciliae transtulerant, volentes cum ipso, sicut sibi dictum fuerat, reconciliari, timens Siculorum infidelitatem, etc. I quali umori poteano esser veri, ancorchè il Nangis apertamente errasse nella cagione del tramutamento del principe di Salerno da Messina a Cefalù, che fu appunto la contraria.
Veggasi anche Saba Malaspina, cont., pag. 420 e 421; e il Neocastro, cap. 86, 88, 89. - ↑ Bart. de Neocastro, cap. 86.
- ↑ Montaner cap. 95.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 87.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 88.
- ↑ Secondo il catalano Montaner, cap. 113, 114, i governanti di Sicilia, liberata la minutaglia dei prigioni della battaglia di Napoli, domandavano al re a Barcellona: che far de’ nobili, che del principe? e convocavano di lì a due mesi, per dar tempo alla risposta, un parlamento a Messina. S’ebbero incontanente lettere del re, segretissime, fuorchè alla regina, a’ figli e all’ammiraglio; ma tutto che s’oprò fu dettato da quelle. Indi adunato il parlamento de’ nobili, sindichi delle città, e Messinesi a pien popolo, Giacomo tornava a mente i fatti di Manfredi e Corradino, quasi chiedendone vendetta nel sangue dell’unico figliuolo di re Carlo: onde tutti il chiamarono a morte, e la sentenza fu distesa; ma Giacomo inaspettatamente, per campare il principe di Salerno, lo fè imbarcare alla volta di Catalogna: il che prova quanto mal ricordavasi il fatto Montaner, e quanto volea inorpellarlo a lode di Giacomo. Saba Malaspina, cont., pag. 420, 421, scrive ancora del parlamento in Messina, supponendo che gli usciti napoletani persuadessero la regina a quella vendetta; perilchè chiamati dall’isola tutta i nemici più fieri del nome francese, fu posto il partito; ma contrastandolo i Messinesi, il parlamento scioglieasi a tumulto; e gli esuli sfogavano con ammazzare quanti colsero de’ prigioni. Questo scrittore aggiugne, che Giacomo fieramente nimicava parecchi nobili per aver negato di andare al parlamento, o di condannare il principe; tra i quali Alaimo di Lentini, famoso e caro per tutta Sicilia, onde per torlo dal centro delle sue forze, a tradimento l’addusse in Palermo, e poi in Aragona il tramandò. Il Neocastro, cap. 87, 88, non dice di parlamento in Messina, ma in Palermo, adunato dopo il tumulto contro i prigioni in Messina. Dalle quali testimonianze si vede dubbio se prima dell’ammazzamento de’ prigioni ci fosse stato un parlamento in Messina; ma risaltan sempre scolpitamente gli umori e le cagioni che io scrivo nel testo.
- ↑ Multorum quoque viscera, quae crudeli gladio nonnulli delectabantur exules aperire, ignis subiecti torrent in pruina, et iam assata in naturali cupiditate famelica lambunt, et immittunt etiam in crudelem stomacum velut cibum, etc.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 88.
- Saba Malaspina, cont., pag. 420, 421.
- Giachetto Malespini, cap. 224.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 96.
- Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142.
- Francesco Pipino, ibid., cap. 18.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 88, 89.
- Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, cap. 18.
- Giachetto Malespini, cap. 224.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 96.
- Epistola di Alfonso a Eduardo, data il 4 gennaio 1289-90, in Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 88, 89, 91.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 96.
- ↑ Leggasi in Bartolomeo de Neocastro, cap. 109.
- ↑ Veggasi l’itinerario posto di sopra, e a pag. 280, i diplomi dati di Cotrone e di Brindisi pe’ disertori.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 15.
Saba Malaspina, cont., pag. 419.
Diploma dato di Brindisi a dì 8 novembre tredicesima Ind. (1284), dal quale si vede che Stefano Angelone avea dato un castello su i confini del contado di Molise ai traditori, tra i quali era Corrado d’Antiochia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 8. - ↑ Saba Malaspina, ibid.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 16.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 417.
- ↑ Veggasi il docum. XXIII.
Diploma dato di Brindisi il 6 settembre tredicesima Ind. (1284) a Riccardo Milite e a’ Saraceni di Lucera. «Per appagare il vostro desiderio vi diciamo esser giunti salvi in Brindisi, e soggiornarvi sani ed ilari; intendendo virilmente e potentemente alla confusione de’ nemici e ribelli siciliani. Si custodiscan bene le corazze e gli archi d’osso dei Saraceni che sono stati al nostro esercito, e si aspetti la nuova impresa.» Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 161, a t. - ↑ Malaspina, loc. cit., e i seguenti documenti:
- Diplomi dati di Cotrone dal 21 al 24 agosto duodecima Ind. (1284) e di Brindisi dal 2 al 27 settembre tredicesima Ind. (1284), che i feudatari chiamati al servigio militare potessero riscuotere sovvenzioni, ossia aiutori da’ lor vassalli. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 9.
- Altro dato di Brindisi il 2 ottobre, col quale si comanda di portar legname per la riparazione dell’armata. Ibid., fog. 46, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 2 ottobre tredicesima Ind. Proponendosi nella vegnente primavera tornare in Sicilia con armata ed esercito, ordina che nessun uomo di mare esca dai porti del regno, ma che tutti aspettino per servire nell’armata. Ibid., fog. 177, a t.
- Diploma dato di Brindisi il 7 ottobre tredicesima Ind. È una lettera circolare perchè si fabbrichi gran quantità di quadrella di uno e due piè. Ibid., fog. 6, a t.
- Altro diploma dato di Brindisi il 9 ottobre tredicesima Ind., per farsi subito 50 mila saette per archi, ben astate, ferrate, e impennate di penne d’avoltoio. Ibid., fog. 46.
- Altra circolare data anche di Brindisi il 10 ottobre, perchè s’adunasse copia di frumento e d’orzo pe’ bisogni dell’esercito. Ibid., fog. 7.
- Altra circolare data di Brindisi il 20 ottobre, per munirsi con estrema cura le fortezze di viveri per un anno. Ibid., fog. 7, a t.
- Altra data di Brindisi il 21 ottobre, per farsi biscotto. Ibid., fog. 38, a t.
- Altra del 15 novembre, per biscotto, Ibid., fog. 47, a t., e altre disposizioni al medesimo effetto, fog. 46 a 58.
- Diploma dato di Barletta il 25 novembre tredicesima Ind., per vari arnesi fabbrili necessari all’esercito. Sarebbe importante a chi volesse illustrare l’arte militare di quel tempo. Ibid., fog. 48.
- Altra circolare data di Melfi il 1 dicembre, per vittovagliarsi le fortezze. Ibid., fog. 8, a t.
- ↑
- Diploma dato di Brindisi a 5 settembre tredicesima Ind. (1284). È una circolare ai giustizieri perchè prendan moneta per ogni verso, e subito la mandino al re, pei suoi ardua et immensa negotia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 6.
- Diploma dato di Brindisi il 15 settembre tredicesima Ind. È la scritta del ricevuto di once 1,400 da mercatanti di Pistoia, la più parte in fiorin d’oro alla ragione di 5 per oncia, per conto dell’imprestito di once 28,890, fatto a Carlo principe di Salerno dalla santa sede, sulle decime ecclesiastiche destinate all’impresa di Terrasanta. Ibid., fog. 162.
- Veggasi anche un altro diploma dato di Brindisi a 10 novembre tredicesima Ind. È una lettera circolare con disperata chiesta di danari, pe’ tanti bisogni, e massime per la riparazione della flotta che nella vegnente primavera, con l’aiuto di Dio, passerebbe sopra i ribelli di Sicilia. Ibid., fog, 8.
- ↑ Docum. XXIII.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 417, 418, 419. Anche Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142 e 252. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29, e lib. 6, cip. 10; Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 695, e parecchi altri attribuiscon la morte di re Carlo al dolore e dispetto di que’ casi della guerra di Sicilia.
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 421.
- Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 11; in Muratori, R. I. S., tom. XI.
- Un diploma di Carlo I dato di Melfi il 14 dicembre tredicesima Ind., provvide alle spese per lo viaggio della regina. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 8, a t.
- ↑ Bolla di Martino, in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 3.
- ↑
- Saba Malaspina, cont., pag. 422.
- Giachetto Malespini, cap. 223.
- Bart. de Neocastro, cap. 90.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 95.
- Montaner, cap. 118.
- Cronache del Regno di Napoli, editore Perger, tom. I, pag. 31 e 58. Quivi si dice la morte di Carlo nel 1284, contando gli anni dal 25 marzo.
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29.
- Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 955; e la più parte degli altri contemporanei.
- L’istituzione di Filippo l’Ardito a tutore delle contee di Provenza e d’Angiò si legge nel docum. XXIV. Dopo ciò ho creduto mettere in dubbio la tradizione de’ citati scrittori che portano lasciato a dirittura il regno a Carlo Martello. Carlo I non volle certamente dividere il regno dalle contee, perchè lasciò anche queste a Carlo Martello nel caso della morte di Carlo lo Zoppo. Non sembra dunque probabile ch’egli avesse stabilito due ordini diversi di successione, chiamando Carlo Martello al regno appena uscisse di minorità, e alle contee solamente dopo la morte del padre in prigione. Dall’altro canto può darsi che Carlo I credesse provvedere abbastanza al governo della Provenza e dell’Angiò durante la prigionia del signor naturale, con quello espediente di fare un tutore delle contee piuttosto che del conte; ma non giudicasse nè legittimo nè sicuro partito di lasciar la corona reale a un prigione, o vôto il trono fino alla sua liberazione. La riconosciuta sovranità suprema della corte di Roma, e il non trovarsi preveduto il caso nella legge dell’investitura accresceano forse la difficoltà: nè è impossibile che Carlo non potendole scegliere, le abbia saltate rimettendosene al papa. Io non ho voluto supplire con l’analogia alla mancanza del fatto; ed ho lasciato in dubbio i termini della sostituzione di Carlo Martello, come restarono negli atti de’ governanti di Napoli fino alla liberazione di Carlo II.
- La età di Carlo I erroneamente rapportata dalla Cronaca d’Asti, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 164, si ricava dal P. Anselme, Hist. généalogique et chronologique de la Maison royale de France, tom. I, cap. 14, pag. 191.
- La elezione del conte di Squillaci si conferma dal diploma 1º del tom. II dell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, notato qui appresso; la condizione della scelta d’Artois leggesi in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 5.
- ↑ Gio. Villani, lib. 7, cap, 95.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29.
- ↑ Geste de’ conti di Barcellona, cap. 26, nella Marca Hispanica del Baluzio.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1285, §§. 5, 6, 7, 8, bolla del 14 febbraio.
- ↑ Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, diplomi dalla pag. 1 a 43, e annotazione 1 alla pag. 2.
- ↑ Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 3, bolla del 9 febbraio.
- ↑ Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Nov. Anecd., tom. III, pag. 765. Nangis, Vita di Filippo l’Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 543. Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 611. * Francesco Pipino, lib. 4, cap. 21, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 726.
- ↑ Nangis, loc. cit.; Francesco Pipino, loc. cit.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 9.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 90.
- ↑ È attribuita a un abate Gioacchino. Francesco Pipino, loc. cit., lib. 4, cap. 20.
- ↑
- Dal Torso fu, e purga per digiuno
- Le anguille di Bolsena e la vernaccia.
- DANTE, Purgat., c. 24.- - e ciò che nota in questo luogo Benvenuto da Imola.
Francesco Pipino, lib. 4, cap. 21, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 726, il quale rapporta i due versacci:
- Gaudeant anguille quod mortuus est homo ille.
- Qui quasi morte reas excoriabat eas.
Della morte di questo pontefice e non della cagione, dicono ancora Giovanni Villani, lib. 7, cap. 106. Ricobaldo, loc. cit., ec.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 12.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 14.
Tolomeo da Lucca, Hist. Ecc., lib. 24, cap. 13, in Muratori, R. I. S., tom. XI. - ↑ Nangis, loc. cit., pag. 544.
Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 16. - ↑ Raynald, ibid.
- ↑ Raynald, ibid., §. 23, breve del 1º agosto 1285.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 43, e seg.
- ↑ Raynald, Ann. ecc., 1285, §§. 29 a 51.
- ↑ Ibid., §. 53.
- ↑ Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, lib. XI, cap. 1.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 98.