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282 | la guerra | [1284] |
del nemico, navigava nel mar di Milazzo. Vistol da terra, un Villaraut cavalier catalano comandante di quella città, spiccasi ansioso sur una barchetta a dirgli dell’enorme flotta nimica ingombrante lo stretto; e Ramondo a lui: «Comandommi il re di condur queste navi a Messina; innanzi ad umana forza non volterò:» e seguitava il suo corso. Villaraut ne spacciò tosto avviso all’infante. E lo stuol delle navi nostre, gareggiando coi pro’ Catalani, escì di Messina a incontrarli infino a torre di Faro. Entrambi in faccia al nimico, non molestati, si ridussero in porto1.
Dopo questi fatti non tardò Carlo a sgombrare; e scorgendo ciò i nostri, davansi a molestarlo, come già nell’ottantadue, mettendo in mare, tra catalane e di Sicilia, cinquantaquattro galee. Le quali come fur pronte, Ruggier Loria, convocati in piazza di San Giovanni Gerosolimitano comiti e ciurme e le altre genti, fatto grande silenzio per la riverenza dell’uomo, così parlò: «Ecco la seconda fuga dell’usurpatore di Napoli! Vedete confusi in quel navilio, Provenzali da noi in mare sconfitti due volte; Francesi inesperti; e, diversi ben di costumi e di voglie, Toscani e Lombardi stipendiati, regnicoli disaffetti: italica gente tutta, che di noi ricorda i renduti prigioni, il mite adoprare in guerra, e, perchè no? la cacciata stessa di quegli stranieri insolenti. Ma voi, Catalani e Siciliani, diversi di lingua solo, una gente siete d’affetto e di gloria; provati insieme in battaglia: e che è a voi la mal ragunata moltitudine di là? Assalitela dunque, sperdetela, mentre nostra è la fortuna2!» E il popolo a una voce: «Alla battaglia, gridava, alle navi;» e tumultuoso correavi; nè aspettato comando, salpò. Portavanli vento e corrente gagliardissimi