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I III
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II.


Il ruscello non mentiva.

L’indomani mattina per tempissimo Serafina battè alla porta di donna Maurizia; siccome nessuno apriva, la domestica spinse con insolenza la porta ed entrò nell’andito, ov’era un acuto e grato odore di caffè bollente.

— Donna Maria? Donna Maria? — gridò la bella ragazza, che nella serena frescura del mattino aveva il volto d’un color di pesca.

La voce echeggiò sonoramente per l’andito; un gattino grigio dai grandi occhi verdi e diafani come due acini d’uva, sporse le orecchie frementi dall’uscio a mano sinistra, ma appena vide Serafina fuggì e si nascose vigliaccamente sotto il telaio.

— Son tutti morti! — pensò la ragazza avanzando. Tutti gli usci erano aperti, ed ella, dopo aver curiosamente messo la testa entro la stanza del telaio, infilò la porta di faccia e si trovò nella cucina. Una caffettiera bolliva sui carboni accesi di un fornello; da un’altra porta spalancata si scorgeva l’orto verde, fresco e luminoso.

Serafina fece un giro intorno a se stessa, [p. 35 modifica]esaminando ogni cosa, poi credette bene di chiamare nuovamente: — Donna Maria? Donna Maria?.

Il bel gattino grigio, tornato cautamente sull’uscio dell’andito, scappò di nuovo, e donna Maurizia comparve sulla porta dell’orto. Era una donna sulla cinquantina, alta, pallidissima, con due formidabili occhi turchini sormontati dal minaccioso arco delle foltissime sopracciglia nere, e con il labbro superiore peloso come quello di un adolescente.

— Cosa vuoi? — domandò con arroganza.

— Dov’è donna Maria? — disse la domestica con non meno insolenza. E intanto si scambiarono uno sguardo di sfida e di curiosità.

— È ancora a letto, — rispose donna Maurizia, togliendo la caffettiera dal fuoco, — se vuoi vederla torna più tardi.

— Non posso tornare. Le dica lei che don Stene stanotte è ricaduto malato, che ora è a letto e sta male, e mi ha mandato perchè desidera assolutamente che donna Maria venga in casa nostra.

«In casa tua! un corno! tu non hai nè casa nè vicinato!» le rispose mentalmente donna Maurizia.

— Perchè deve venire? — chiese a voce alta ed irosa.

— Ne so molto io! — disse l’altra, guardando [p. 36 modifica]sfacciatamente nell’orto. — E zia Larenta? È al mulino?

— Maria è a letto, — ripetè con sussiego donna Maurizia, senza badare alle ultime domande. — Quando si leverà glielo dirò.

— Non se ne dimentichi. Il padrone vuol vederla e presto.

— Presto o tardi! — esclamò l’altra con sprezzo; e siccome Serafina, sporgendosi sulla porta, guardava sempre verso il molino, fu per scacciarla col manico della scopa, tant’ira e disprezzo ne provava.

— E zia Larenta? — ripetè la ragazza.

Nessuna risposta.

— È al molino? Ah, sì, eccola là! E salutò con la mano. — Se mi permette scendo laggiù.

Siccome il permesso tardava, la ragazza prese improvvisamente il piccolo viale che conduceva al molino, e andò laggiù con la scusa di salutar zia Larenta; ma in realtà per veder la gente che recava il grano da macinare.

Donna Maurizia le imprecò dietro a voce sommessa; poi guardò intorno, caso mai mancasse qualche oggetto, pur sapendo di malignare, e si domandò quale altro accidente fosse capitato a Stefano. — Chi sa che voglia morire e chiami Maria per combinare sul testamento da far eseguire a quel vecchio pazzo di don Piane! [p. 37 modifica]

Rasserenata da questa pietosa speranza cominciò a preparar lo spirito d’uovo1 per Maria, mentre il caffè stillava a goccia a goccia entro la macchinetta di latta rosseggiante per il riflesso del fuoco.

Preso un uovo dall’armadio e guardatolo attraverso la luce, lo battè sull’orlo di una scodella, e versato in questa il tuorlo, lasciò l’albo entro la metà del guscio, che adagiò contro una chicchera. Strinse poi la scodella fra le ginocchia, versò molto zucchero sul tuorlo dorato e cominciò a sbatter il tutto con un fuso, girandone il cannello fra le palme delle mani inumidite di saliva. Al noto, sebben lieve romore, accorse soltanto il gattino, e con la coda dritta venne a fregar la testina sulle sottane di donna Maurizia.

— Lasciami in pace, Mimìa, disse ella; ma la bestiola le mise le zampette sulle ginocchia e così ritta sollevò i grandi occhi verdi e sbadigliò mostrando la linguetta rosea.

— E cosa vuoi ora? Aspetta che ti darò da leccare il fuso.

Ma Mimìa voleva di più, e cercò di ficcare entro la scodella i lunghi baffi argentei.

— Questo poi no! Va via! — gridò donna Maurizia; e il gattino, visto inutile ogni tentativo, con le unghie le tirò fortemente la sottana, [p. 38 modifica]poi s’accomodò elegantemente sul pavimento, a coda tesa, aspettando e seguendo con gli occhi il movimento del fuso.

Quando il tuorlo e lo zucchero furon ridotti ad una specie di crema, donna Maurizia si alzò e versò nella scodella il caffè bollente, limpido e rosso come vino.

In quel punto entrò Maria, e il gattino le andò incontro miagolando.

— Perchè ti sei levata? — rimproverò donna Maurizia.

— Non vi pare ora? E poi ho sentito che mi chiamavano: chi era?

— Prendi, disse la madre porgendole la scodella scintillante.

— Chi è venuto? — ripetè Maria guardando lo spirito d’uovo senza sorbirlo; e il gattino le si arrampicava sul grembiale.

— Scendi giù, Mimìa, impose donna Maurizia con l’indice teso. — Era quella sciocca di Serafina. Tuo cognato pare che ieri notte, andatosene di qui, abbia fatto qualche stravizio ed ha la febbre di nuovo.

— Dio mio, il vino! — pensò Maria, e per il rimorso e per il calore interno della bevanda che lentamente sorbiva, arrossì fin sulle mani. — Ma che stravizio poteva fare? — osservò timidamente.

— E che stravizio fanno i viziosi? — gridò [p. 39 modifica]severa donna Maurizia. — Egli lo saprà! Ed ora vuole che tu vada da lui.

— Perchè mi vuole? — pensò Maria turbandosi. — Perchè mi vuole? — chiese.

— Egli lo saprà. Cosa ne so io? Ma tu non andrai, non è vero?

— Andrò, — rispose Maria chinandosi per deporre in terra la scodella, entro cui il gattino mise subito i baffi e le lunghe sopracciglia.

E chiusa nel suo semplice vestito nero, di stoffa rigida e opaca, ella andò. Don Piane faceva colazione con caffèlatte e biscotti, dividendola con Josto e con due neri gatti lucenti che sembravano manicotti. Quando sentì arrivar Maria fece chiudere l’uscio del salotto da pranzo in modo ch’ella s’accorgesse dello sgarbo. Ed ella se ne avvide, ma dritta e rigida salì le scale con passo leggero, entrò da Stefano preceduta da Serafina, e s’avvicinò al letto con disinvolta confidenza.

— Ebbene, cosa c’è di nuovo? — domandò curvandosi un poco.

Stefano sollevò le palpebre guardandola, e vista così, di sotto in su, in modo che i suoi occhi sembravano ancor più obliqui e profondi, gli parve bellissima.

— Siediti, — disse.

Serafina, che spiava avidamente ogni cosa, capì che doveva andarsene, e non potè neppur [p. 40 modifica]mettersi in ascolto perchè il padrone le impose di lasciar la porta aperta.

Maria rimase in piedi, e siccome egli, invece di parlare, chinava le palpebre con grave espressione di sofferenza, gli tastò il polso e disse:

— Mi pare che tu sia soltanto molto debole. Non hai preso nulla? Che vuoi?

— Voglio che tu rimanga qui!

Ella lo guardò stupita, ma credendo che egli vaneggiasse non lo contraddisse.

— Resterò: sta quieto.

— Sai, — diss’egli vivamente, comprendendo ch’ella lo riteneva febbricitante, — ieri notte ho bevuto troppo, ho preso troppa aria e mi ha fatto male: ho passato un’orribile notte, e solo ora la febbre mi ha lasciato. Il medico me lo diceva però che mi guardassi, che se ricadevo guai! Ora invece son ricaduto ed ho paura, e desidero che tu resti qui, capisci, perchè nessuno si cura di me.... — e la voce si abbassò in una sommessa vibrazione d’amarezza, — e non solo per me, ma anche per la casa....

— Ma.... tuo padre non c’è?

— Oh, mio padre!..., e sorrise guardando in alto; ma l’amarezza della voce passava al sorriso ed allo sguardo.

— Riposati per ora. Penserò, — disse Maria commossa. [p. 41 modifica]

— Non posso riposare se tu non rispondi. Pensaci subito.

Ella ci pensò subito, chinando la testa, e una voce maligna del suo mondo interno le ricordò subito tutti i rancori, le tristezze, i dolori, le umiliazioni che gli Arca le avevano dato.

— Perchè dovrò rimanere? — si domandò. — Perchè per quindici giorni o più devo abbandonare la mia casa per questa gente?

Si mosse, attraversò la camera, aprì un poco il verone e sollevò la fronte. Voleva pensar meglio. Sul paesaggio giallo e rorido il cielo d’autunno s’incurvava con freschezze e trasparenze indescrivibili; sul noce le allodole e le foglie umide scosse dalla brezza eseguivano una sonora mattinata musicale. Con l’aprirsi del verone tutta la freschezza e l’azzurra luminosità del mattino invasero la camera, e Maria pensò instintivamente quanto, quanto sarebbe stata felice in quella casa e....

— Maria? — chiamò Stefano con supplichevole voce di bambino.

Ella lasciò il balcone: già l’amara voce taceva.

— Resterò, — disse, — purchè tuo padre sia contento.

— È contento, — rispose Stefano, ed entrambi si contentarono della pietosa menzogna.

— Sta bene allora.

— Chiama Serafina, fa il piacere. [p. 42 modifica]

Maria s’avvicinò alla porta e chiamò, ma Serafina non venne subito, e più tardi Stefano seppe che don Piane proibiva alle domestiche di risponder alla chiamata della nuora.

Intanto Maria, per prendere possesso della casa, si tolse il fazzoletto, lo stese a piè del letto di Stefano, e mise in ordine la camera. Camminava con passo lieve, ma naturale, e nel seguirla con gli occhi Stefano notava una certa disinvolta eleganza ne’ suoi movimenti e nel suo modo di camminare.

La camera era già rimessa in ordine, quando sull’uscio dell’attiguo salotto apparve il viso rosso di Serafina.

— Che vuole? — gridò la ragazza.

Maria le fe’ cenno di avanzarsi, ed ella attraversò le stanze con passo pesante e rumoroso.

Stefano, che cominciava ad assopirsi, aprì lentamente gli occhi, guardò la domestica e parve ricordarsi.

— Va da donna Maurizia e dille che per oggi non aspetti donna Maria.

Serafina lo fissò fra meravigliata e beffarda, ma egli la guardò duramente negli occhi e le accennò di andarsene.

— Non comanda altro?

— Va!

— Be’! — disse Serafina, e voltò i tacchi [p. 43 modifica]rumorosi, battendosi una mano sulla guancia come per schiacciarvi una mosca.

Maria le si mise dietro, e quando furono nel salotto le disse piano:

— Cammina e parla piano. Dirai a mia madre che ti consegni la mia blusa e la calzetta cominciata.

— Che il diavolo mi abbruci, che idea ha costei? Di rimanersi qui? — pensò Serafina con dispetto; e, scese rumorosamente le scale, andò a riferir tutto a don Piane, che leggeva gli annunzi di un giornale sardo.

Ogni mattina don Piane, che leggeva senza occhiali, ma stentatamente, scorreva il giornale, cominciando dagli annunzi e fermandosi particolarmente sulle corrispondenze dei villaggi e specialmente su quelle che descrivevano feste con corse di cavalli o che contenevano polemiche elettorali. Spesso i suoi due grossi gatti gli salivano sulle ginocchia, allungandogli la testa sul petto e spargendogli di pelo le vesti; li grattava sotto il mento, comunicando loro ad alta voce i commenti sulle cose lette.

— Eh, cosa ne dici tu, Speranza? — domandò alla gatta più piccola, quando Serafina ebbe spiegato la commissione da far presso donna Maurizia. Speranza aprì la bocca nera e miagolò; ma se questa era una risposta, don Piane non riuscì a capirla. [p. 44 modifica]

— E la lasci andare! — esclamò Serafina, dando un manrovescio alla gatta, che saltò in mezzo alla stanza. — Non vede che le sporca tutto l’abito?

— Figlia di…. — gridò don Piane. — La sporca sei tu! Se torni a toccar il gatto ti mando fuori a pedate.

— E provi un po’! — disse l’altra ridendo e sfidando. — Ma vado o non vado in quella casa?

— Va in casa del diavolo!

— Vado dunque, e obbedisco la padrona nuova! — concluse ella amaramente.

La padrona vecchia era lei, ed ora l’addolorava che il suo dominio finisse: intanto, per profittare delle ultime occasioni, prima di recarsi da donna Maurizia entrò in dispensa e rubacchiò qualche cosa.

Maria trepidava pensando al suo primo decisivo incontro col suocero; e tutta la mattina, mentre Stefano, assopito dopo la lunga notte insonne, riposava in una dolcezza di sogno, ella vagò in punta di piedi fra la camera e il salotto, guardando ogni cosa con occhi timidi e stupiti, prendendo silenziosamente possesso di ogni angolo. Sulle prime provò uno sbalordimento quasi spiacevole nel trovarsi fra tanta ricchezza ed eleganza di mobili e di stoffe, intravedute appena in un tempo lontano, quando il marito le parlava della casa paterna. [p. 45 modifica]Ricordando l’ambiente grave e misero di casa sua, la gaiezza e lo splendore del salottino di Stefano l’umiliavano e la rattristavano: temeva quasi di porre i piedi sui bei tappeti biondi di cerva dagli orli sanguigni e dalle corna bronzate; e di toccare gli artistici ninnoli (fra gli altri c’erano due bellissimi capretti di Vincenzo Jerace, a Stefano personalmente donati dall’esimio autore) disposti disordinatamente sulle mensole velate di polvere grigia. Non pensava neppur lontanamente ch’ella potesse aver diritto su quanto vedeva: dopo che Carlo Arca era morto, ogni diritto le pareva cessato con la dolorosa perdita di lui; ma non era abbastanza ingenua per non deplorare che i grossolani piedi di Serafina passassero sguaiatamente con volgare e illegale padronanza sulle pelli orlate di scarlatto, e per non accorgersi che le mani della domestica-padrona potevano benissimo servire ad altre faccende.

Ritornò nella camera e socchiuse le imposte. Stefano dormiva sempre, ed ella si fermò vicino al balcone, pensando con desiderio al suo orto che, almeno quello, era più fresco e più gaio degli orti che si stendevano dietro la casa Arca. Nel dolce orto paterno, all’ombra dei noci e dei pioppi, traverso cui il sole gettava larghi occhi d’oro sulle verdi acque del ruscello, ella si godeva le lunghe mattine soleggiate, tutta raccolta nelle memorie del suo breve sogno. [p. 46 modifica]A quando a quando cadeva sulla trasparenza smeraldina del ruscello una foglia argentea e lunga di pioppo, o una larga foglia di noce; foglie morte, orlate di rosso e bucherellate dal sole, che s’aggiravano sull’acqua bassa e diafana, poi passavano lente e tranquille sopra le gialle, tremule macchie del sole e sparivano sotto la lucida ruota del molino. Non così era caduto, passato e sparito il dolce sogno di lei?

Ora nell’orto degli Arca era una tristezza quasi invernale, con quegli alberi semispogli e rossastri, col pergolato secco da cui pendeva solo qualche rada foglia di vite d’un giallo acceso sfumato in violetto, con quel melanconico e vaporoso sfondo d’orizzonte.

Solo il noce sonoro metteva un po’ di verde cupo su tanta melanconia, spandendo ombra su una distesa piantata a cavoli rachitici e bluastri, e invasa da alte erbe secche e rossastre.

Maria s’accorse tosto che l’andamento dell’orto, come quello della casa, era pessimo. Galline bianche dalla cresta pallida, e nere picchiettate di rosso, e grigie striate di giallo, magre e mal tenute, raspavano sotto i pergolati, scavando larghe righe, avvoltolandosi nella polvere che poi scuotevano sbattendo le ali e piluccandosi sulla schiena, e spandevano per tutto l’orto un’infinità di piume d’ogni colore.

— Ma non c’è il cortile? Che bisogno c’è di [p. 47 modifica]lasciarle guastar l’orto?... — si domandò Maria. Si volse disgustata e provò un lieve sentimento di timidezza vedendo don Piane sulla porta. Lo guardò con grandi occhi paurosi; ma il vecchietto, la cui bocca era più che mai serrata ed invisibile, fissava Stefano, dimostrando una evidente ed offensiva noncuranza per lei. Tuttavia ella si fece coraggio, attraversò la camera col suo lieve passo elastico, e con l’alzar le sopracciglia accennando il malato, disse piano, piano: — Dorme.

Don Piane sporse un po’ le labbra bianche, ma subito le restrinse.

Sempre più intimidita Maria non trovò altro che dire, e rimase impalata vicino alla porta, mentre il vecchietto, passo passo e lentamente, si accostò al letto ed esaminò il dormente, che non si svegliò, o non volle svegliarsi.

Poi don Piane girò lentamente il viso intorno e s’avviò per andarsene, ma passando davanti a Maria inciampò e sporse le piccole labbra con tale infantile paura che la giovane sorrise ed ebbe pietà di quella minuscola vecchiaia così debole e così caparbia. Stese le mani, e prima che il vecchio protestasse, lo sostenne afferrandogli il braccio sottile e corto come quello d’un bimbo, e lo trasportò nel salottino senza quasi lasciargli toccar coi piedi il suolo. Se a fargli un’azione simile fosse stata Serafina, don Piane [p. 48 modifica]avrebbe strepitato e alzato il piccolo pugno; ora invece provava una lieve vertigine; arrossì di vergogna e di piacere, e finalmente sporse le labbra dicendo:

— Non è nulla, non è nulla.

— Non è nulla, — ripetè ella convinta, — sedetevi un po’ qui, finchè Stene si svegli. E lo fece sedere sul sofà turchino. — Si sveglierà presto, credo io: dorme da molto. Mi pare che la malattia sia niente, sapete: un po’ di chinino, nutrizione adatta e basta. È molto debole, Stene: non ve ne siete accorto?

— Altro che me ne sono accorto! Ma lui fa tutto a modo suo. Io gli dico: non uscire! e lui esce a cavallo e va a cacciare nelle paludi, cosa diavolo! Io gli dico: non uscire di notte, e lui invece esce e fa stravizi....

— È vero! — pensò Maria, ricordando con rimorso l’anfora del vino giallo.

— Io dico: guarda la ricetta del dottore, leggila! — e don Piane mostrava alla giovane la palma della mano destra, battendovi su le dita della sinistra. — Cosa dice la ricetta? Rafforzarsi con vivande adatte e bere il ferro-china. Niente, niente, lui non fa nulla e.... pumh! — Fece atto di chi piomba sul letto; si sentì tutto confortato nel veder Maria dargli ampiamente ragione.

— Quando è venuto il dottore? — di nuovo chiese lei, non sapendo che altro dire. [p. 49 modifica]

— Questa mattina, presto, presto.

— Ha detto che tornava?

— Sicuro che torna! Oh che gli dò il salario per i suoi begli occhi?

— Bisogna, appena Stene si sveglia, fargli prendere qualche cosa, e poi vedrete che non è nulla. Non temete. E voi avete fatto colazione?

— Altro! caffèlatte e biscotti, così! — esclamò il vecchio, accennando con le mani ad una grande scodella.

Maria rise piano, e pensò che dopo tutto il suocero non era la persona terribile ch’ella si figurava; anzi gli scoprì subito il debole più evidente, ch’era un formidabile egoismo infantile; e s’avvide che per conquistare quella piccola anima bisognava lusingarla e darle sempre ragione.

— È andata Serafina in casa mia?

— È andata.

La conversazione, fatta a voce sommessa, pareva nuovamente esaurita, quando s’udì un lieve raspare alla porta. Don Piane tese le orecchie.

— Dev’essere Speranza, disse.

Credendo che si trattasse di persona che invece di picchiare usasse raspar gli usci, Maria si fece premura d’aprire, ma la porta era appena tirata che balzò nel salotto la gatta nera!

— L’ho detto io! — fece don Piane sorridendo. — Mi viene sempre dietro, la strega! Musci, [p. 50 modifica]musci.... — chiamò poi, e Speranza gli fu sopra. — Non piacciono a te i gatti, Maria?

— Altro! Ne ho uno così piccino, color cenere, con gli occhi.... mostrate, ecco, ha gli occhi eguali a questi! — esclamò, sollevando la testolina di Speranza, che serenamente la fissò coi suoi grandi occhi verdi cristallini. — Oh che bella gatta, oh, che bella!

Don Piane sorrise ancora: almeno per il momento egli era pienamente conquistato.

Poco dopo ritornò Serafina con la blusa e con la calzetta di Maria, e avvedendosi della buona relazione stabilitasi fra il vecchio padrone e la padrona nuova, sporse tanto di muso.

— Cosa ti disse la mamma? — domandò Maria infilandosi la blusa.

— A me? Niente! — rispose l’altra sgarbatamente, andandosene.

— Ti ho detto di camminare e parlar piano — disse Maria, e rivoltasi al suocero gli impose: — Diteglielo voi. Ecco che Stene si sveglia.

— Oh, Dio! — esclamò il vecchio tutto mortificato, e gli parve d’odiar Serafina quanto prima odiava la nuora.

Maria intanto s’avvicinava a Stefano, che domandava piano, piano, ma con qualche inquietudine:

— Che cosa c’è? Chi c’è? [p. 51 modifica]

— Nulla. C’è di là tuo padre che aspettava il tuo risveglio. Come stai?

— Bene assai — e le sorrise.

Don Piane si sollevò puntando i piccoli pugni sul sofà, e camminando presso la parete arrivò a sporger la testa nella porta.

— Venite, disse Maria — accennando con la mano: — Stene è guarito.

— Oh, non ancora! — esclamò il malato, e sollevò le palpebre, meravigliato di trovar tant’aria di improvvisa buona relazione nelle fisonomie del padre e di Maria.

Il vecchio s’avvicinò e stette zitto, ma con una espressione di gran dolcezza nei piccoli occhi.

— Sedetevi lì — disse Stefano, e don Piane si sedette appoggiando una mano sulla coltre azzurra, una piccola mano che leggermente tremava, solcata di vene azzurrastre più che mai turgide sotto la bianca pelle raggrinzita.

Stettero tutti e tre in silenzio, il vecchio seduto, Maria ritta ed attenta, Stefano con le palpebre nuovamente chine. S’udiva il ronzìo delle ultime mosche, il sussurro del noce, qualche trillo d’uccello smarrito nell’aria trasparente della tiepida mattinata.

Rimasta nel salottino, Speranza allungava ogni tanto le orecchie nere e metteva una zampina nell’orlo della porta, ma non osava avanzare. [p. 52 modifica]

Stefano pensava: Perchè ho fatto venire Maria? Resterà lungo tempo qui? — E provava una confusa dolcezza nel vedersi vicini e riuniti il padre e Maria; e s’avvedeva che anche il vecchio subiva l’irresistibile fascino della giovane donna; ma fino a quando? Certo, finchè non ricadeva sotto l’insidiosa e pettegola suggestione delle domestiche e specialmente di Serafina.

— Vuoi qualche cosa ora? — domandò Maria. — È tardi.

— Come vuoi.

Ella andò verso la porta del salottino, chiamò, e siccome nessuno rispondeva, s’azzardò a scender le scale, ansando lievemente, quasi s’avventurasse nell’improvvisa esplorazione di un mondo sconosciuto e pieno di occulti pericoli.

Stefano udì l’armoniosa voce, che chiamava Serafina, allontanarsi, scendere, risuonare per tutta la casa; e solo allora potè, nella mente annebbiata da una gran debolezza fisica, rispondere alla domanda che faceva a se stesso: — Perchè ho fatto venir Maria?

La vibrazione della voce armoniosa, che si perdeva nel grigio silenzio della scala e negli angoli delle stanze deserte, gli diede la sincera risposta, ed egli sentì nitidamente che aveva mentito a se stesso ed agli altri dicendo d’aver desiderato la presenza di Maria soltanto per [p. 53 modifica]curarlo e guardar la casa durante le sue ore di febbre.

Arrossì, provando una sensazione di caldo alle orecchie e alle palpebre, e un tenue sudore gli inumidì le palme delle mani, appena egli fece a se stesso la rivelazione del suo desiderio: e il desiderio ineffabile e indistinto che gli aveva fatto chiamar Maria era di sentir la voce di lei vibrare appunto così per la triste casa piena di tedio e di disordine, vivificandola nei suoi angoli più segreti e abbandonati.

— Babbo — disse con la sua voce sommessa un po’ rauca, guardando il vecchio con gli occhi socchiusi, — cosa vi sembra?

— Sembra buona.

— Fatemi un piacere: restate a pranzare qui sopra con lei. Fatemi compagnia.

Don Piane pensò ai cani ed ai gatti, e stette indeciso sulla compagnia da preferire. Farli salire, almeno i gatti?

Acconsentì, ma per aver la compagnia dei gatti cominciò con fine accorgimento a riferir la simpatia che anche la nuora diceva di provare per quelli.

— Che c’entra? — si domandò Stefano, ma non fece alcuna osservazione, tutto beato che almeno per il momento Serafina non avesse campo di sobillare don Piane contro Maria.

Con l’ultima linea di sole che si spegneva sul pavimento, penetrava un caldo e fragrante [p. 54 modifica]alito di brezza che scompigliava i capelli di Maria, ai quali la vivissima luce del verone dava un’irradiazione di rame.

Per tener lieto il vecchio ella parlava e rideva come una fanciulla, ma continuamente volgeva ogni tanto gli occhi verso Stefano: e in quello sfondo di luce vivissima che le bruniva i capelli e le lumeggiava i fini lineamenti, la linea delicata e ridente del labbro superiore dava a tutto il grazioso volto una gaia espressione infantile; e il neo nell’angolo dell’occhio, sprofondandosi nella fossetta che ad ogni sorriso si fermava, accresceva l’incanto del novello fascino.

Sollevato dai cuscini accomodati dietro le sue spalle, con un caldo tepore di convalescente nel sangue rianimato, Stefano guardava: e Maria, che egli la sera prima aveva ritenuta incapace di un giocondo sorriso, ora gli appariva sotto un nuovo aspetto, palpitante di giovinezza e di vita. Era forse l’ambiente, l’effetto della nuova luce che la trasformava? Egli non seppe spiegarselo, ma le si sentì più vicino; gli parve che il fantasma del morto si dissolvesse nella vivida luminosità del balcone, e si lasciò nuovamente prendere dagli ineffabili desideri della sera prima.

Dopo il pranzo Maria indusse don Piane a far un po’ di siesta sulla ottomana del salottino. [p. 55 modifica]

— Va bene? — domandò poi rientrando e rivolgendosi a Stefano.

— Sì, sì — diss’egli come destandosi.

La seconda domestica, che aveva servito a tavola, una donna di media età, dal volto pallido, molle e vaiuolato, e con occhi azzurri loschi, che si rivolgevano sempre al punto contrario a quello ove realmente fissavano, sparecchiò sgarbatamente e col piede respinse i gatti che si leccavano il musetto scuotendo la testina da una parte all’altra.

— Ortensia — disse don Piane con voce imperativa, — cammina e parla sottovoce.

— Cominci lei a non gridare! — osservò Ortensia: tuttavia, più obbediente di Serafina, camminò piano, portando via i piatti sul braccio, e chiuse con sommo garbo le porte.

Maria socchiuse allora il balcone e tornò presso Stefano chiedendogli:

— Che vuoi? da leggere forse?

Ma egli aveva letto la sera innanzi tutti i suoi giornali, e la posta non arrivava fino al pomeriggio. Avrebbe voluto le mani di lei, avrebbe voluto portarsele alla fronte, e sollevando gli occhi leggere negli occhi di lei la spiegazione dei misteriosi sentimenti ch’ella destava nel suo cuore di ammalato e nei suoi nervi ancor vibranti per le scosse della febbre notturna. Il desiderio lo vinceva talmente, che stese la mano per afferrar quella di Maria; ma pensò [p. 56 modifica]paurosamente: E se poi se ne va? — e chiuse gli occhi per sfuggire alla tentazione.

Tutta la sera passò tranquilla; don Piane dormì e disse, svegliandosi, di aver sognato il gattino grigio di Maria; poi volle scender con lei nell’orto, e le mostrò, con improvvisa tristezza negli occhi, l’alto muro giallo del cortile di Silvestra; poi la condusse in fondo, presso una larga vasca ombreggiata da due salici e vicina al muro occidentale, assiepato da rovi, che divideva l’orto dalla campagna.

Ella si fermò sotto i salici, colpita da uno straziante ricordo. L’acqua bassa che rabbrividiva nella vasca, d’un bel color glauco luminoso, rifletteva i pallidi salici, perlati dall’argenteo tramonto. Pareva un quadro di cristallo, su cui, dipinti misteriosamente, tremassero alberi dai rami argentei e dalle foglie di perle.

Al disopra del pittoresco muro, verde per l’umidità e pei rovi, si stendeva il cielo, un dolce e pigro cielo autunnale, tutto bianco solcato da lunghe e stagnanti linee d’argento, da striscie grigio perla, da pennellate d’un bigio soave e sbiadito: sembrava una lontana pianura intraveduta fra vapori, e il sole calante, pallido e senza raggi in quella bianca luminosità, somigliava a un grande e radioso disco di luna al tramonto.

Dai salici stillavano grosse e rade gocce e cadendo sulla vasca insieme a qualche [p. 57 modifica]silenziosa foglia descrivevano rapidi e molteplici cerchi che turbavano la tremula superficie del quadro cristallino; in un angolo un insetto acquatico s’aggirava attorno a se stesso muovendo rapidamente la piccola coda, e circondandosi così di una ruota argentea.

Maria s’affacciò sulla vasca e vide il suo viso, illuminato dal pallido sole, riflesso dalla glauca specchiera; guardò curiosamente, come una bimba, e chiese alla sua immagine: — Perchè siamo qui?

Don Piane aveva col piede crudelmente schiacciato una cavalletta verde, e con la punta del bastone scavava una piccola fossa per seppellirla.

— Perchè siamo qui.... ora? — amaramente ripetè Maria, china sullo specchio dell’acqua.

Ricordò che una volta il morto le aveva dato dei versi, intitolati La vasca, nei quali le narrava come da bimbi la passione sua e del fratello era quel piccolo lago verde, dove pescavano con ami di canna e gettavano al soffio dei venti fragili flotte di carta, o di sughero o ferula, destinate a misteriose navigazioni ed a facili naufragi. Più tardi, durante le vacanze estive, egli era venuto, adolescente studioso, ad assidersi all’ombra dei salici, con un libro di idilli latini fra le mani; più tardi ancora aveva fantasticato al riflesso del cielo sopra il muro smeraldino, e in certi vesperi glauchi [p. 58 modifica]e liquidi come l’acqua della vasca, mentre fra le pallide fronde dei salici palpitavano le scintille della luna nuova, il poeta aveva con un sottile gambo d’asfodelo tracciato sulla diafana pagina delle acque un nome caro: Maria.

Conchiudeva la poesia:

               Se tu un giorno verrai sotto i paterni
          salici, guarda: forse l’amoroso
          sguardo de l’acque nel misterioso
          seno il pio nome ancora leggerà!

I versi non erano molto eleganti, ma per Maria erano un capolavoro d’arte, e, rileggendoli ora nel — misterioso seno delle acque sotto il riflesso del pallido cielo autunnale, ripeteva amaramente: — Perchè son venuta? e perchè egli non è più qui, ora che ci son io?

L’angoscia inesprimibile del desiderio di ciò che non era più, desiderio struggente nella sua disperazione, la riprese: a poco a poco i versi sparvero nella trasparenza dell’acqua, l’immagine si coprì di un velo grigio, e sul capovolto riflesso dei salici passò un bagliore di nuvole vitree. Ella piangeva.

Don Piane intanto finì di seppellire la sua vittima, vi calcò sopra un piede, mormorando parole di maledizione contro tutte le cavallette del mondo.

Quando rientrarono in casa Maria aveva di [p. 59 modifica]nuovo l’espressione stanca e dolente della sera prima.

Stefano rabbrividiva di freddo, invaso dal disgusto e dall’ansia affannosa della febbre imminente; e nella luce dello smorto tramonto vide Maria così muta e triste che ne provò una grande melanconia.

Venne il medico, un vecchio robusto e vermiglio che non trovava grave alcuna malattia, e vennero poche persone amiche; ma il malato taceva, col volto grigio pieno di una espressione dolorosa di ribrezzo e paura; Maria era raccolta in rigido riserbo e don Piane pregava.

Dopo una mezz’ora di imbarazzo i visitatori se ne andarono, e la camera restò immersa nel silenzio e nella luce morente del vespero.

Era ancor presto per accendere i lumi, ma la penombra invadeva già il letto, e Stefano gemeva sommessamente nel primo incubo della febbre: a misura che l’ombra cresceva gli sembrava che il volto gli diventasse nero e la testa gli si ingrossasse e aggravasse enormemente: era uno spasimo sottile, esteso, indicibile, che gli serpeggiava per tutte le membra, slogandogli dolorosamente ogni giuntura e scuotendogli ogni nervo; una puntura senza tregua che gli frugava tutti i pori.

A un tratto gli sembrò che un uomo altissimo, con un grande occhio rosso in mezzo alla [p. 60 modifica]fronte, fissandolo acutamente, si avanzasse fino al centro della camera; e ne provò terrore.

— Levátelo.... Levátelo.... disse piano.

— Chi? — domandò Maria.

— Quell’uomo.... quell’occhio.... levátelo, mandatelo via presto.... ripetè alzando la voce, e si dimenava, e faceva schioccare le labbra. Poi gridò con angoscia: — Levátelo!.

Maria capì che l’uomo spaventoso era il lume e lo portò via: nella penombra il febbricitante parve calmarsi e si abbandonò col viso rivolto al soffitto e la bocca aperta.

Allora Maria pensò di recarsi un momento in casa sua, e lasciò Ortensia a vigilar il malato; al ritorno però trovò don Piane tutto cambiato a suo riguardo, e capì che Serafina, profittando della sua assenza, lo aveva nuovamente sobillato. Suocero e nuora cenarono freddamente nella stanza da pranzo, severa e un po’ triste con la sua tappezzeria rossa e i mobili di noce cui la luce della lampada dava riflessi d’oro brunito. Davanti alla musoneria del vecchio, e sotto il maligno sguardo di Serafina, Maria si sentiva nuovamente a disagio, e l’andirivieni della giornata e lo spostamento delle sue abitudini le causavano un vago capogiro, una debolezza estrema che non le permetteva neppure di essere amabile per cattivarsi la benevolenza del suocero. Forse aveva [p. 61 modifica]la febbre, perchè sentiva le piante dei piedi ardere e pulsare fortemente.

Con indifferenza si lasciò portar via don Piane, che non le diede neanche la buona notte, e risalì ansando le scale. Stefano gemeva e sudava per la febbre già alta e per il brodo bollente che Ortensia gli aveva fatto sorbire. Maria gli porse da bere, poi gli toccò la fronte, e ritraendo la mano lievemente umida per il sudore, provò un profondo senso di ribrezzo fisico: e tutta la figura di lui, disfatta, traspirante l’alito impuro della febbre, le diede un acuto, invincibile disgusto.

Coricata sull’ottomana del salottino ridotta a letto continuò a sentire una nausea, una stanchezza, nervoso irritamento contro gli altri e contro se stessa che era venuta a curare questa gente sciocca ed egoista fino allora avversa e che ricompensava con sgarbi e antipatia i suoi fastidi, come se ella fosse venuta a recare disturbo. Nel penoso dormiveglia tutti i passati rancori l’assalsero; tutte le impressioni della giornata le si riprodussero confusamente nel pensiero; e sopra tutte rivide la vasca e l’acqua a scaglie verdognole, il cui tremolìo pareva un sorriso di scherno.

— Perchè son venuta? — si ripeteva. Il cambiamento e quindi il disagio del letto, l’affanno del malato nell’attigua camera, il rosso chiarore della lampada notturna non la lasciarono [p. 62 modifica]riposare. Due volte, Stefano si lamentò ed ella, piuttosto che chiamar Ortensia, che per l’occasione dormiva in un attiguo stanzino, si alzò, e gli porse da bere. E sempre provava un profondo disgusto fisico e morale nell’avvicinarsi e nel toccare il febbricitante. La seconda volta aprì il balcone per guardare se albeggiava: ma era ancor notte, la luna splendeva verso lo zenit in una zona di luminosità celeste-mare, e uno strato diafano e ondulato di nuvole, dietro cui s’intravedeva il cielo azzurro, velava tutto il resto del firmamento: nell’orto addormentato era un albore bianco e gelido di neve.

Ella tornò a letto rabbrividendo, più che mai triste e disperata, e pregò che Stefano guarisse l’indomani o che si ammalasse anche lei, onde aver una scusa per andarsene e non tornare più in casa Arca.

  1. Frollata.