Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/53


— 45 —

Ricordando l’ambiente grave e misero di casa sua, la gaiezza e lo splendore del salottino di Stefano l’umiliavano e la rattristavano: temeva quasi di porre i piedi sui bei tappeti biondi di cerva dagli orli sanguigni e dalle corna bronzate; e di toccare gli artistici ninnoli (fra gli altri c’erano due bellissimi capretti di Vincenzo Jerace, a Stefano personalmente donati dall’esimio autore) disposti disordinatamente sulle mensole velate di polvere grigia. Non pensava neppur lontanamente ch’ella potesse aver diritto su quanto vedeva: dopo che Carlo Arca era morto, ogni diritto le pareva cessato con la dolorosa perdita di lui; ma non era abbastanza ingenua per non deplorare che i grossolani piedi di Serafina passassero sguaiatamente con volgare e illegale padronanza sulle pelli orlate di scarlatto, e per non accorgersi che le mani della domestica-padrona potevano benissimo servire ad altre faccende.

Ritornò nella camera e socchiuse le imposte. Stefano dormiva sempre, ed ella si fermò vicino al balcone, pensando con desiderio al suo orto che, almeno quello, era più fresco e più gaio degli orti che si stendevano dietro la casa Arca. Nel dolce orto paterno, all’ombra dei noci e dei pioppi, traverso cui il sole gettava larghi occhi d’oro sulle verdi acque del ruscello, ella si godeva le lunghe mattine soleggiate, tutta raccolta nelle memorie del suo breve sogno.