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— Nulla. C’è di là tuo padre che aspettava il tuo risveglio. Come stai?

— Bene assai — e le sorrise.

Don Piane si sollevò puntando i piccoli pugni sul sofà, e camminando presso la parete arrivò a sporger la testa nella porta.

— Venite, disse Maria — accennando con la mano: — Stene è guarito.

— Oh, non ancora! — esclamò il malato, e sollevò le palpebre, meravigliato di trovar tant’aria di improvvisa buona relazione nelle fisonomie del padre e di Maria.

Il vecchio s’avvicinò e stette zitto, ma con una espressione di gran dolcezza nei piccoli occhi.

— Sedetevi lì — disse Stefano, e don Piane si sedette appoggiando una mano sulla coltre azzurra, una piccola mano che leggermente tremava, solcata di vene azzurrastre più che mai turgide sotto la bianca pelle raggrinzita.

Stettero tutti e tre in silenzio, il vecchio seduto, Maria ritta ed attenta, Stefano con le palpebre nuovamente chine. S’udiva il ronzìo delle ultime mosche, il sussurro del noce, qualche trillo d’uccello smarrito nell’aria trasparente della tiepida mattinata.

Rimasta nel salottino, Speranza allungava ogni tanto le orecchie nere e metteva una zampina nell’orlo della porta, ma non osava avanzare.