La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XI
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CAPITOLO XI
Nel 1857 Ferdinando II contava quarantasette anni, ma pareva ne avesse più di sessanta. Le emozioni del 1848 e del 1849, e l’attentato di Agesilao Milano avevano lasciato in lui segni molto profondi. A Napoli andò di rado; la sua dimora favorita divenne Caserta, ma una parte dell’anno la passava a Gaeta. La vita di famiglia, che egli sempre predilesse, diventava, fuori di Napoli, casalinga addirittura. Di quella vita si legge una descrizione esatta nelle memorie dell’arciduca Massimiliano, che lo visitò a Gaeta nell’estate del 1855. Era imposta dalla regina Maria Maria Teresa, la quale aveva poca simpatia per le pompe e le esigenze della Corte. Ferdinando II qualche volta si sdegnava di certe abitudini troppo modeste, e un giorno fu udito dire: "Terè, a poco a poco finimmo cu servirci a tavola noi stessi„;1 anzi l’espressione sarebbe stata triviale addirittura. La casa, dove abitava il Re a Gaeta nulla aveva di regale, nè all’interno, nè di fuori. Il suo maggior diletto era quello di uscire con la regina in un phaeton, che guidava egli stesso, preceduto o seguito da plotoni di cavalleria. Lungo la via, sino alle vicinanze di Formia, erano, ad ogni trenta o quaranta passi, piantoni di guide a cavallo, e quando il Re passava, s’ingiungeva ai viandanti di fermarsi, ma non per pompa, da cui repugnava. Stando a Gaeta, seguitava ad occuparsi delle cose dello Stato, anche delle minime. Egli era informato di tutto. Non i soli ministri lo informavano, perchè i diplomatici, i vescovi e gl’intendenti delle Provincie corrispondevano direttamente con la sua segreteria particolare; una specie di cancelleria aulica come si è detto. Le cose più gravi riguardanti la politica, erano riferite direttamente al Re, che dava istruzioni e ordini, spesso senza saputa dei suoi ministri, con lettere autografe, familiari e precise e nella loro brevità, non prive d’idiotismi napoletani, scritte col voi, ma più ordinariamente col tu, sopra foglietti di carta comune, e che si chiudevano, quasi invariabilmente così: conservatevi bene in salute, e credetemi: vostro affezionato Ferdinando; ovvero: ti raccomando la salute, caro generale (o duca, o principe, sempre col titolo, insomma), e credi all’amicizia del tuo affezionato Ferdinando. Il governo si accentrava nella sua persona, e non è maraviglia se tutte le responsabilità si facessero risalire a lui e di ogni birberia si volesse vedere in lui la cagione o l’origine. Dopo il regno di Luigi XIV, io non credo che il motto: "lo Stato son io„ trovasse applicazione più perfetta di quella, che trovò in Ferdinando II negli ultimi anni del suo regno. La sua politica estera, regolata esclusivamente da lui, nella maniera, che si è detto, era quella di andar di accordo con tutte le potenze, ma sempre a patto che non s’ingerissero nelle cose del Regno. Egli sapeva di essere odiato da molta gente, e che si cospirava contro di lui nel Regno e fuori del Regno e che magne fucine di cospirazioni erano Torino, Parigi e Londra, e principalmente Torino, ma aveva una gran fede in sé stesso: la fede che, lui vivo, nessuna novità pericolosa si sarebbe tentata. Soleva ripetere alcuni motti caratteristici, come questo: "Ai confini del mio Regno finisce l’Europa e comincia l’Africa„; e l’altro: "Noi ci troviamo fra la scomunica e l’acqua salata„, perchè il Regno confinava, da una parte, con gli Stati della Chiesa e per il resto, era circondato dal mare. Tre circostanze lo rendevano tranquillo: avere lo Stato pontificio per antemurale; sudditi incapaci di conservare durevolmente gli ordini liberi e truppe bastevoli per vincere qualunque moto interno, se pure qualcuno se ne osasse tentare, dopo le ultime repressioni, per le quali le carceri rigurgitavano di prigionieri, il Piemonte di esuli e il numero degli attendibili era divenuto stragrande, per non dire scandaloso addirittura.
Salito al trono a vent’anni, aveva dovuto interrompere gli scarsi studii. Egli veramente non sapeva nulla bene, ma a tutto era convinto che bastasse il senso comune e di questo era largamente dotato, insieme alla naturale perspicacia napoletana e ad una memoria, che tutti concordi, amici e nemici, riconoscevano prodigiosa. Tenuto conto del mondo intellettualmente mediocre, che lo circondava, il re era, fuori di dubbio, l’intelligenza superiore e certo la più acuta, perchè di rado s’ingannava nella conoscenza degli uomini. Dotato di spirito beffardo e motteggiatore, come ogni napoletano, preferiva il sarcasmo alla lode, e se questa concedeva, non la scompagnava da una leggiera tinta d’ironia, quasi per far intendere che non doveva essere accettata per moneta sonante. Leggeva poco o nulla, e ostentava una invincibile avversione per gli scrittori in genere, che chiamava, per disprezzo, pennaruli. Detestava i dottrinarii; non ammetteva che due dottrine: quella dei magistrati e quella degli ecclesiastici, le sole che reputasse utili alla stabilità sociale e politica. Il breve contatto, che ebbe con i ministri costituzionali nel 1848, bastò a fargli perdere ogni simpatia per gli ordini rappresentativi. Il linguaggio dottrinale di quei ministri gli riusciva insopportabile, e più insopportabili le continue professioni di liberalismo e di amore del bene pubblico. Non riusciva a persuadersi che quelli capissero più di lui e conoscessero, più di lui, il paese, e lo amassero di più. Le maggiori avversioni le ebbe per Saliceti e per Scialoja, che reputava pennaruli pericolosi, anche perchè Scialoja, suo ministro, uno o due giorni prima del 16 maggio, gli aveva detto: V. M. ricordi i casi di Luigi Filippo. A Carlo Poerio, nel breve tempo che fu ministro, usò cortesie e quasi affettuosi riguardi. Lo chiamava Carlino, gli offriva sigari eccellenti e lo presentò alla Regina con parole molto amabili, poichè egli sapeva, all’occorrenza, essere amabile e anche adulatore; ma ne diffidava grandemente ritenendolo settario impenitente. E non fu giusto, nè umano con lui, dopo i casi del 1848, sopratutto irritato che fosse liberale un Poerio, signore e barone. Ferdinando non ammetteva che dovessero trovarsi liberali che fra spiantati, i quali amavano pescare nel torbido, o tra avvocati senza cause o tra medici senza clienti o tra architetti, che non avevano case da costruire. Erano queste le frasi, che più comunemente adoperava nel suo favorito dialetto, parlando dei liberali. Non perdonò mai a Carlo Troja la risposta datagli, quando, osservando il re essere strano che egli, inviando la flotta a Venezia, dovesse aiutare una repubblica, il primo ministro rispose: "Sire, è una repubblica più antica di tutte le dinastie presenti„ .
Quei pochi mesi di regime costituzionale furono i più tormentosi del suo Regno, dovendo egli, per necessità politica, comprimere il suo carattere. Le istituzioni liberali, degenerate subito in anarchia turbolenta e un temperamento come quello di Ferdinando II, non erano conciliabili, anzi non erano compatibili. Il temperamento di Ferdinando II mal poteva accomodarsi a un sistema, che, limitando il suo potere, tentava ogni giorno sopraffarlo. Il suo orgoglio di Re e di uomo si sentiva ferito, al solo pensiero di avere ministri non di sua fiducia, e di veder discussi i suoi atti, malignate le sue intenzioni, diffamata la sua famiglia, promossa l’insurrezione nella capitale e nelle provincie. Egli non era apatico, nè fatalista, nè remissivo alla volontà di chi gli faceva paura, nè si sentiva indifferente al bene e al male, insensibile alle passioni, superiore alle antipatie; che anzi, passioni e antipatie sentiva fortemente e non sapeva nasconderlo. Aveva volontà vigorosa e carattere estremamente vivace, e il puntiglio, come in ogni natura meridionale, poteva moltissimo in lui. Era, inoltre, impaziente, insofferente e inclinato a vedere delle cose l’aspetto men bello, e degli uomini le debolezze, più che le virtù. Nei primi tempi del 1848 credè di cavarsela con le parole e le barzellette, e alle frequenti deputazioni che andavano da lui, rispondeva spiritosamente e con relativa cortesia. Al Saverio Barbarisi, che fu uno dei promotori più caldi della Costituzione, disse un giorno: “Don Savè, questa è casa tua, e aperta per te a tutte l’ore; mi dispiacerà positivamente se non vieni tutti i giorni„; e altra volta: "Don Savè, ho giurato la Costituzione e la manterrò; se io non voleva darla, non l’avrei data„. Un giorno del 1848 Pisanelli, Mancini e non ricordo chi fosse il terzo, andarono dal re, quali rappresentanti di uno dei molti circoli politici di Napoli. Il re li accolse con queste parole: "Nè, pagliè, che bulite?„2 Impacciati dalla brusca domanda, i tre avvocati esitarono sulle prime, ma, più animoso il Pisanelli si fece innanzi e con accento solenne disse: "Sire noi vogliamo il progresso„ . "Lo voglio anch’io, soggiunse il Re; ma, spieghiamoci, che intendete voi per progresso?„ E il Pisanelli: "Sire, il progresso è un gladio, che incalza popoli e Re ....„, Ferdinando lo interruppe, e volgendosi al duca d’Ascoli, che gli stava vicino: "Nè, Ascoli, stu progresso fete (puzza) nu poco de curtiello„. I tre avvocati non seppero aggiungere altro, nè altro disse il Re e si separarono con diffidenze scambievoli. Per Ferdinando II l’antipatia e il disprezzo verso gli avvocati erano invincibili.
Il 1848 gli lasciò paurose reminiscenze e ne peggiorò l’indole. Entrò in una via senza uscita, e la percorse non deviando un istante, con fermezza sì, ma senza ombra d’illuminata preveggenza. Quel sistema di reazione era troppo violento e cieco, per essere duraturo. Se Ferdinando mostrava coraggio e dignità nel rispondere alla Francia e all’Inghilterra, che gli consigliavano riforme, amnistia e politica concorde allo spirito del secolo, che lui, solamente lui, era giudice dell’opportunità di tali concessioni, e se si mostrava indifferente, quando i due ministri partirono da Napoli, non è a dire che non intendesse la gravità del caso. La sera del 21 ottobre 1856 egli era a Caserta, e Gaetanino Zezon, ufficiale della sua segreteria particolare, gli decifrava il dispaccio di Bianchini, annunziante la partenza dei ministri di Francia e d’Inghilterra, e le dimostrazioni, alle quali erano stati fatti segno, percorrendo Toledo e Foria. Chiese allo Zezon che cosa gliene paresse e avendo quello risposto che la partenza dei due diplomatici era resa grave dalla simultaneità che rivelava un partito preso, il Re lo interruppe bruscamente, e per alcuni giorni non gli rivolse la parola. Temeva Zezon di essere licenziato come Corsi, ma non fu così. Dopo qualche tempo il re, tornando buono con lui, gli disse: "Tieni a mente che le osservazioni, le quali dispiacciono, non si fanno„. Egli aveva bisogno d’illudere sè stesso; lo seccava la pubblicità e lo irritavano le accuse della stampa liberale del Piemonte, di Francia e d’Inghilterra. Non riconosceva in nessuno il diritto di ficcare il naso nelle faccende del suo Regno, che considerava come cosa propria. Certo avrebbe desiderato che quello stato di tensione, che originava le accuse, cessasse, ma il mezzo? Non lo vedeva, nè, dato il suo temperamento e l’indole dei suoi sudditi, mezzo concludente vi era. Aprir le prigioni e riconcedere la Costituzione, era tornare al 1848 ed anche peggiorato; aprir le prigioni e mandar tutti i prigionieri per il mondo, era accrescere i pericoli per un altro verso; impossibile abdicare, non facendo egli alcun conto del figliuolo, giovanissimo, e non essendo le abdicazioni tradizionali nella sua casa. A Giovanni Cassitto appaltatore delle dogane e delle privative, direttore generale delle saline, e appaltatore inoltre delle forniture militari di terra e di mare, chiese sulla fine del 1858 un parere circa le crescenti agitazioni politiche d’Italia e sulla prevalenza delle idee liberali in Europa. Il Cassitto gli rispose che sarebbe stato forse opportuno concedere qualche libertà; e il re: Giovannino, i miei popoli li conosco bene; se gli dai tanto, si prendono tutto. Il Cassitto era persona di sua fiducia, da lui favorito con lucrose concessioni, ma sull’animo del sovrano non esercitava alcuna influenza, come nessuno potè vantarsi di averne esercitata mai, tranne la sua seconda moglie!
L’uomo era così fatto. Eccetto qualche ministro e qualche direttore, non aveva intorno a sè gente che valesse moralmente più di lui. L’unico, Carlo Filangieri, era tenuto lontano. Come tutti gli uomini incolti, che assai presumono di sè, mal tollerava la compagnia delle persone colte, e tutto ciò, che l’obbligava a non parlare il suo favorito dialetto, lo infastidiva potentemente perchè il suo pensiero non trovava più fedele manifestazione che nel linguaggio dialettale, e il suo italiano era la traduzione di quello, e però non spontaneo, nè arguto, nè vivace e assai meno immaginoso. Parlava benissimo il francese, e rifaceva i siciliani nelle movenze e nel linguaggio con grande comicità. Era un principe tutto napoletano, ma a giudicarlo con i criterii di oggi, quasi re di altri tempi. A lui bastava che il mondo dicesse che le istituzioni amministrative di Napoli e le sue leggi fossero quanto era di più progredito in Europa; gl’importava poco che, in pratica, leggi e istituzioni fossero a discrezione della polizia. Le sue teorie d’immobilità assumevano una strana forma di sentimentalismo verso i poveri; il suo ideale era quello di governare con un’aristocrazia relegata fra le cariche della Corte; una borghesia impaurita e una plebe soddisfatta di aver tanto per non morirsi di fame, e che lo inneggiasse, perchè re assoluto e potente, ma familiare e popolano. Ferdinando II sentiva la superbia dell’indipendenza. Non era austriaco, come dicevano i liberali, perchè, com’è noto, non fece mai causa comune con l’Austria; anzi, morendo, raccomandò al figlio di essere neutrale nella lotta impegnata fra l’Austria, il Piemonte e la Francia. Non era italiano, perchè non aveva il sentimento nazionale, nè ambizione di conquiste o di avventure. Egli non immaginava altro Stato che il suo, e così fatto: il re responsabile dinanzi a Dio, i funzionari pubblici dinanzi al re e nessuno responsabile dinanzi al paese, il quale non aveva altro rifugio che nella cospirazione e nella rivoluzione.
Bisognava distinguere in Ferdinando II l’uomo dal Re. L’uomo non era censurabile. Ottimo marito e affettuoso padre di molta prole, temperante in tutto, non si seppe mai che egli tradisse il talamo. La calunnia, che largamente si esercitò contro di lui, lo rispettò per questa parte. Amava la sua seconda moglie, che chiamava familiarmente Teta e Tetella, e che lo rese padre di undici figliuoli. Si narrava fra gl’intimi, ma con le più paurose cautele, che il re negli ultimi anni, seccato di aver tanta prole, nè volendo separarsi di talamo dalla regina, usasse dormire ad un livello più alto, servendosi di quattro materassi, mentre la regina ne adoperava due: la qual prescrizione non impedì che nel 1867 nascesse l’undecimo figliuolo, battezzato col titolo di conte di Caltagirone, ed altri sarebbero nati, se non fosse morto due anni dopo.
Da Maria Cristina, nacque l’erede della Corona, il 16 gennaio 1836. La regina mori 15 giorni dopo il parto e il re non ne parve molto afflitto, nè più tardi d’un anno riprese moglie. Di Maria Cristina non era innamorato. Soleva dire: La regina non è del nostro gusto, ma è una bella donna. Dopo la morte di lei, nata gran dama ed educata in un ambiente affatto diverso, la famiglia reale presentò l’immagine di una famiglia addirittura borghese. La tavola non aveva, ordinariamente, nulla di sontuoso. I maccheroni erano il piatto preferito. A Ferdinando II, napoletano in tutto, piacevano quei cibi grossolani, dei quali i napoletani son ghiotti: il baccalà, il soffritto, la caponata, la mozzarella, le pizze e i vermicelli al pomodoro. Gli piaceva pure la cipolla cruda, che mangiava ogni giorno schiacciandola con la mano, poichè il coltello dava e prendeva cattivo sapore, e la regina Maria Teresa ne secondava questi volgari istinti. Il re non giocava, tranne qualche partita alle cartès, le sole che conoscesse, e per cui il Cassitto gliene regalava ogni capodanno un pacco di cento mazzi, ma neppure per le cartès aveva pazienza. Non tollerava che a Corte si facesse alcun giuoco a danaro, e nei pubblici ritrovi erano proibiti i giuochi di azzardo, ma in alcune famiglie dell’aristocrazia si giocava forte, come si è veduto.
Come ogni buon napoletano, amava teneramente i figli ed aveva imposto a ciascuno di essi un soprannome. Il maggiore chiamava Ciccillo o Lasagna, e per vezzeggiativo, Lasa, perchè Francesco, appena da bimbo mangiò per la prima volta le lasagne, ne divenne ghiotto e spesso le chiedeva; da allora il padre gli aveva messo quel nome, che anche nel testamento fu ripetuto. E v’ha di più. Molti credevano che il Lasagna alludesse alla timidezza del principe ereditario, nonchè alla figura sua, magra e leggermente curva. Chiamava il figliuolo Gaetano l’avvocato, anzi diceva: mio figlio ’o paglietta, perchè il ragazzo chiacchierava molto. Nè risparmiava le figliuole. Chiamava la maggiore, Maria Annunziata, Ciolla la seconda, Maria Immacolata, Petitta, e la terza, Maria delle Grazie, Nicchia. Tutti i maschi avevano per secondo nome Maria, e le donne l’avevano come primo. Dei maschi, ma soprattutto del primogenito, trascurò completamente l’educazione, ma curò invece che imparasse la lingua latina, il diritto civile e l’ecclesiastico, le leggi amministrative e la lingua francese, e le sue letture fossero, a preferenza, vite dei santi e i suoi maestri, militari ed ecclesiastici ignoranti, i quali favorivano in lui la naturale tendenza ascetica e il culto delle immagini. I pregiudizii, che tenevano avvinto lo spirito del padre, e di cui si leggeranno copiose prove nella narrazione della malattia e della morte, continuarono nel figliuolo. Non viaggi, non conoscenza del mondo, non esercizii del corpo, non amore delle armi, nessuna educazione virile. Aveva insegnata a Francesco qualche massima di governo, come questa: constitution-rèvolntion. Ferdinando si distaccava dai figli il meno possibile. Un giorno ricevè a Caserta il sindaco di Napoli, don Antonio Carafa, che gli portò un pane fresco, il così detto "pane della Giunta„ che, in occasione del colera, il Decurionato faceva distribuire ai poveri. Il re ricevè il Carafa, avendo in braccio uno dei figliuoletti, che, visto quel pane, allungò le mani per prenderlo e, non riuscendogli, scoppiò a piangere. Il re, seccato, disse al sindaco: "Don Anto, daccenne na fella, senno’ non ce fa parlà!„3 Si usava in Corte una geografia convenzionale: gli inglesi erano chiamati baccalaiuoli; i francesi, si parrucchieri; i russi mangiasivi (mangiasego); dei soli austriaci discorreva con rispetto, perchè austriaca la regina. Parlavano tutti il più puro e accentuato dialetto, che Maria Teresa storpiava antipaticamente con l’accento viennese, e con la mancanza dell’erre.
In Corte abbondavano i siciliani. Addetto alle udienze era il principe di Aci, Andrea Reggio, il quale, dicevano i maligni, non sapeva spiegarsi perchè gli avessero dato un nome femminile, tale sembrandogli per la sua desinenza e aggiungevano che firmasse Andreo. Il re dava le così dette udienze pubbliche a Caserta, nel salone del pianterreno, e tutti ascoltava con pazienza, prendeva appunti e suppliche, moveva qualche interrogazione, ma guardava ben bene, fissandoli con le sue lenti, i supplicanti e poi, mettendo le suppliche tra le dita della mano destra, o piegandone un angolo, li licenziava. Era miope di primo grado. Non risparmiava ramanzine, anche violente, se le suppliche si riferivano ai fatti del 1848. Nei primi anni dopo il 1849, quando si ritirò a Caserta, aveva la pazienza di ascoltare sino a cinquanta persone nei giorni di udienza; ma a Gaeta le udienze divennero rarissime. Innanzi tutto bisognava ottenere dal prefetto di polizia, dall’intendente, il passaporto per Gaeta come per Caserta; fare un viaggio non breve; e quando si era giunti a Gaeta bisognava attendere avanti alla prima porta della fortezza, che il passaporto fosse vidimato dall’ispettore di polizia di servizio, o dal comando della piazza. Quando era ad Ischia, dava udienza nell’androne della casina reale, non essendovi, nell’unico piano superiore, sale per accogliervi i supplicanti. Il re indossava costantemente la divisa militare, ma, pur essendo attaccatissimo agli ordinamenti della milizia, fino al punto da notare, a prima vista, se la divisa di un generale o di un soldato fosse d’ordinanza, dava lui qualche volto l’immagine del disordine, indossando la giubba di linea e mettendovi sopra le spalline e portando in testa il berretto di colonnello di stato maggiore; ma ordinariamente vestiva l’uniforme di questo grado, e nelle gale, la divisa di tenente generale. Negli ultimi anni il suo vestito era addirittura negletto, e la sua giubba non sempre sine macula. Le volte, che lo si era visto in borghese, si contavano sulle dita, ma sempre prima del 1848 quando si recava alla fiera di Foggia; e fu grande la maraviglia di tutti, quando in un veglione dato al San Carlo nel carnevale del 1844, fu visto in marsina bleu scuro con bottoni d’oro, calzoni neri, panciotto bianco, cravatta bianca e cappello a cilindro non molto alto, passeggiare per la platea, rialzata al livello del proscenio, insieme con un gentiluomo di camera.
Benchè religioso, gli riusciva intollerabile la compagnia degli ecclesiastici saccenti; e quando nel 1848 monsignor Cocle fu licenziato per imposizione del ministero liberale ed esiliato a Malta, scelse per confessore un oscuro prete, che aveva insegnato il sillabario nell’istituto Possina, e si chiamava don Antonio de Simone, che più tardi fu prelato e vescovo in partibus Era un brav’uomo, alto, ben portante, ma di una volgarità, di una ignoranza e di una avarizia fenomenale. Unendo in matrimonio nel 1859 il giovane Raffaele Perfetti di Barletta con una delle figliuole di Giovanni Cassitto, donò allo sposo ... un paio di straccali, lavorati al croscè, e alla sposa un quadretto con immagine sacra di brutta litografia: tutta roba che non superava il valore di cinque lire! E alla sposa, giovanissima e graziosa, che portava ricche gioie, disse, per tutto complimento, che avrebbe voluto possedere quelle gioie! Morto Ferdinando II, monsignor de Simone lasciò la corte, e andò a vivere presso una sua nipote. Non seguì i Borboni a Roma, e morì nel 1865, arcivescovo titolare di Eraclea.
Ferdinando II non amò nessuno, com’è regola di ogni principe regnante. Non si oppose all’esilio di monsignor Cocle, creduto l’arbitro del suo cuore, e per Carlo Filangieri, che gli riconquistò la Sicilia, ebbe più gelosia che riconoscenza. Quando giungevano da Palermo i dispacci del luogotenente, diceva a Corsi o a Zezon: Sentiamo che scrive Re Carlo. Filangieri, dal suo canto, gli aveva posto il soprannome di muro liscio, nel senso che non era possibile attaccarvi chiodo. Tranne per la sua famiglia, egli non dimostrò profondo e durevole affetto chicchesia. Se in varie occasioni, dimostrò tolleranza per molti di coloro che gli stavano vicino e, più volte, chiuse gli occhi per non vedere, non fu effetto di particolari preferenze, nè di malintesa bonarietà, ma invece della convinzione che non vi era rimedio. Migliore della sua fama e forse il migliore della sua famiglia, se non lo avesse dominato la paura, il suo programma di rigenerazione economica del Regno, di cui ebbe un lampo negli anni 1856 e 1856 Il programma non fruttò che l’apertura di una sede del Banco di Napoli a Bari, ed alcuni fili telegrafici e poche bonifiche in Terra di Lavoro e nelle provincie di Salerno e di Puglia, e pochissime strade e ponti. Le concessioni ferroviarie finirono in canzonatura. Sopra un bilancio complessivo di circa trentasei milioni di ducati, ne erano assegnati poco più di tre ai lavori pubblici, e non si spendevano neppure tutti!
I fervori religiosi di lui crebbero in maniera inverosimile dopo l’attentato di Agesilao Milano. Non contento di largheggiare in elemosine alle chiese, nè soddisfatto che un nuovo tempio venisse eretto in ringraziamento dello scampato pericolo e fossero pur costruite altre chiese nel Regno, e nuove case religiose nelle vicinanze di Napoli, Ferdinando II volle accrescere i privilegi degli ecclesiastici e dei frati, ne’ suoi dominii. Nel luglio del 1858, concesse al padre Francesco Saverio da Santeramo, ex provinciale dei Cappuccini, che nella regia tipografia si ristampassero gratuitamente le istituzioni teologo-polemiche del padre Alberto Knoll da Bolsano, affinchè, col prodotto della vendita, i cappuccini di Maddaloni potessero restaurare la loro chiesa. Un anno prima, nel giugno del 1857, emanò varii decreti, diretti a favorire il clero e a liberarlo da alcune limitazioni tanucciane, che il Capomazza voleva conservare. Cedendo alle insistenze di Roma, e derogando dal Concordato, mise fuori un decreto, per il quale la Chiesa poteva fare degli acquisti nel Regno senza bisogno della preventiva autorizzazione sovrana. Di ciò grati, l’arcivescovo di Napoli e i suoi suffraganei gli diressero una lettera untuosa sottoscritta dal cardinal Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli ed i vescovi di Aversa, di Pozzuoli, di Acerra, d’Ischia e di Nola.
Con gli scrupoli religiosi, aumentarono le pratiche esterne della fede. Non v’era festa in Napoli e nei tanti paesi vicini, alla quale il re non concorresse, mandando trenta rotoli di polvere per gli spari e una compagnia di soldati per la processione. Dovendosi restaurare una chiesa, rifare un campanile o rimettervi le campane, si ricorreva a lui, il quale sussidiava in discreta misura. Curiose alcune suppliche per ottenere le campane. Si ricordava a Ferdinando II che, avendo egli nel 1848, fuse le campane in cannoni per la guerra di Sicilia, doveva oggi fondere i cannoni per rifar le campane. Gli scrupoli del Re divennero addirittura puerili, negli ultimi tempi. Se, guidando un phaeton, s’incontrava nel viatico egli, fermata la vettura, ne discendeva e, a capo scoperto, devotamente si genufletteva con entrambi i ginocchi, sino a che il viatico non fosse passato. Questo accadeva più di frequente, traversando i sobborghi di Napoli per recarsi ai Camaldoli di Torre del Greco; accadeva a San Giovanni, a Portici, a Resina, alle due Torri, dove era seguito dai ragazzi di quei paesi, che correvano appresso alla carrozza reale, gridando Viva il re. Negli ultimi due anni si sviluppò in lui una più esagerata tendenza alle pratiche religiose, che non era tutto bigottismo, ma forse bisogno d’ingraziarsi la divinità, perchè gli restituisse la perduta pace dello spirito. Ascoltava la messa ogni giorno; si confessava di frequente, tanto che monsignor De Simone non si allontanava mai da lui; diceva tutte le sere il rosario con la Regina e i figliuoli e, invariabilmente, prima di andare a letto, con un segno della mano baciava le immagini sacre, che popolavano la camera nuziale. E prima di coricarsi, inginocchiato innanzi a un piccolo crocifisso, recitava le ultime preci.
Giuseppe Fiorelli assistette ad una scena caratteristica. In una giornata di luglio del 1857, Fiorelli e Lorenzino Colonna, cavaliere di compagnia di don Leopoldo e marito di donna Olimpia Cepagatti, andarono, come solevano, al palazzo Siracusa, dovendo col principe recarsi tutti e tre a Sorrento. Nell’anticamera non trovarono servi, nè altri di casa; andarono oltre: nessuno; penetrarono nella camera da letto del conte e un triste spettacolo si offri loro alla vista. Don Leopoldo, mezzo nudo, giaceva a terra, non dando segni di vita. Lo sollevarono e adagiarono sul letto. Era stato colpito d’apoplessia. Il caso era grave, onde chiamarono gente; chiamarono i medici e il Colonna corse alla Reggia a darne notizia al re, che in quel giorno, era a Napoli. Il re se ne afflisse, e rispose che andrebbe subito a visitare l’infermo. E vi andò. Penetrato nella camera del conte, lo chiamò per nome e quello non rispose, anzi non lo conobbe. Il re cavò allora dalla tasca uno scapolare e lo pose al collo dell’infermo, dicendogli: "Popò, Popò4, la Madonna ti farà la grazia„. Il conte guarì, e finchè visse, mi diceva Fiorelli, non si tolse più dal collo il sacro amuleto pur facendo professione di ateismo!.
Nonostante tanti fervori e pregiudizii, egli non tollerava le imposture di quelli che per entrargli in grazia, facevano i bigotti (bizzuochi). Un giorno riprese vivamente il Gavaudan, architetto di Casa Reale, perchè questi, per ostentare dinanzi a lui zelo religioso, pensò di cacciarsi nel cappello alcune immagini sacre, per farle cadere quando egli si fosse scoperto, alla vista del Sovrano. Ferdinando II la prima volta finse di non vedere, ma la seconda volta avesse perduto la pazienza, e al Gavaudan, il quale, mostrandosi confuso e mortificato, si chinava per raccogliere le immagini, dicesse: "Don Ciccio levate sti santi da dinto ò cappiello, e finimmo sta cummedia».5
Il re visitava i monasteri più celebri del Regno e le immagini più miracolose dei paesi intorno Napoli. Le conosceva tutte. Era stato a Montecassino, a Montevergìne, alla Madonna della Civita sopra Itri, a Cava, più volte ai Camaldoli di Torre del Greco e a tutti i santuarii vicini. Conosceva i monaci di maggior fama, e a Montecassino familiarizzava col Tosti, col Pappalettere, col Celesia e col De Vera. Caivano, grosso paese a mezza via fra Napoli e Caserta, era tappa di cambii postali per il servizio del re, quando si recava da Napoli a Caserta, e l’ufficio postale era al principio delle case di venendo da Caserta, presso il palazzo dei signori Capece, sotto la caserma dei gendarmi a cavallo. Il re adoperava carrozze proprie, ma i cavalli erano della posta e il servizio veniva fatto da postiglioni speciali. Ogni volta che il re passava da Galvano, era un accorrere di mendicanti, che si schieravano lungo la strada maestra, ed egli si divertiva, gettando una piastra ad una vecchietta, Maria Massaro, che abitava presso l’ufficio postale e che gli faceva trovare un mazzo di fiori, e regalando un’altra piastra ad un cieco, ed una mezza piastra agli altri. Dotato di forte memoria, aveva finito col conoscere tutti que’ pezzenti e li distingueva coi nomi 'o cecato, ’o stuorto, ’a zellosa, ch’era la vecchietta dei fiori, e di ciascuno non gli sfuggivano le malizie. Il più malizioso era ’o cecato, che si chiamava Giuseppiello Auriemma. Una volta, dopo aver ricevuto la solita piastra, profittando della fermata per il cambio dei cavalli, cominciò a correre come un dannato lungo la strada di Caserta, per aspettare il Re al tondo di San Nicola, dove comincia il grande viale di tigli, e ridomandargli l’elemosina. Il Re lo conobbe e gli disse, in tono burlesco: "nnè, cecà, si arrivato prima ’e me!„.6 E così si divertiva.
L’ultima volta andò al santuario di Campiglione a Caivano, coi figliuoli minori e l’ultimo bambino che era a balia. Si inginocchiarono tutti e furono cantate le litanie, finite le quali, il re prese fra le braccia il bimbo e, con la regina e i principi, andò dietro l’altar maggiore a vedere il miracolo, il quale consiste nel fatto che l’intonaco, dov’è dipinta la testa della Madonna, bellissimo affresco, pare staccato dal muro e pende in avanti e, da anni, pare che ogni momento voglia cadere. Il bambino cominciò a piangere e il Re tornò in mezzo alla chiesa e lo riconsegnò alla balia. Intanto don Arcangelo Zampella, cappellano della chiesa e don Giuseppe Cafaro, fratello del rettore, uscirono dalla sagrestia e presentarono due immagini della Vergine, ricamate in seta, una al re ed una al duca di Calabria, e lo Zampella, buon prete, ma affatto incolto, volle tentare un discorso, al quale diè l’aire con le parole Signor re, rimaste celebri in quei paesi, ma non potè, il poveretto, proseguire e tutti risero. Mentre risalivano in carrozza, accadde un altro casetto. Il curato di santa Barbara, don Pasquale Ponticelli, aveva qualche tempo prima, ottenute dal re per la sua chiesa, due campane. Il sagrestano della parrocchia soprannominato Rorò, che era lì, in mezzo alla folla, gridò al re: "Maestà, chelle campane vanno bbone„ . Il re sorrise e gli rispose: "Me fa tanto piacere„. Queste manifestazioni popolaresche gli riuscivano gradite più delle feste ufficiali: erano il suo maggior divertimento.
A Pozzuoli, nella chiesa di Santa Maria del Carmine, chiesa dotata da monsignor Rosini di un’opera pia tuttora fiorente, si venera l’immagine della Madonna del parto. È una statua di pregevole fattura, tolta dall’oratorio del palazzo che fu di don Pietro di Toledo, e raffigura la Vergine in ginocchio, con le mani giunte in atto di pregare, ma le forme della statua sono nascoste da un ampio manto di seta, che dal capo, sotto la corona d’argento, scende fino ai piedi, lasciando fuori il viso e le mani. Dalla tinta bruna del volto, la Madonna è chiamata tradizionalmente la Schiavottella. A questa immagine, pel titolo che porta, vanno a raccomandarsi le partorienti, e Ferdinando II serbava egli pure questa usanza quando la regina era incinta. All’avvicinarsi del parto, il re conduceva Maria Teresa e i figliuoli a visitare la Madonna, e vi si recava sul cader del giorno, in vetture precedute dà battistrada e seguite da un drappello di ussari in gran tenuta. Il re, entrando nel santuario, si faceva il segno della croce con l’acqua benedetta, offertagli dal vescovo e poi andava a porsi, egli co’ suoi, ginocchioni davanti l’altare maggiore, per assistere al canto delle litanie e ricevervi la benedizione del Sacramento. Dopo, presa per mano la Regina ed i figliuoli, ad uno ad uno, si accostava alla immagine ed in ginocchio, tutti raccolti, recitavano le preghiere a voce alta.
Compiuta la cerimonia, sulla soglia del tempio accettava un modesto ricordo che gli presentava il canonico Ragnisco, rettore della chiesa, cioè una figura ricamata della Vergine ed una frasca di fiori artificiali; e quindi, prendendo ad alta voce commiato dal vescovo con le parole: "Monsignò, vi bacio le mani, e ve raccumanno sta peccerella„ (la peccerella, cioè piccola donna, era la regina) ripartiva. Il servizio di onore nella chiesa era fatto dai veterani, in quel tempo di stanza a Pozzuoli. La visita si ripeteva, qualche mese dopo il parto, ed era detta di ringraziamento. Si portava il neonato, che il padre prendeva nelle sue braccia ed offriva alla Vergine, in atto supplichevole. Per accondiscendere alle premure della gente raccolta in chiesa, il re permetteva che l’infante fosse portato in giro in mezzo alle benedizioni ed ai baci, che i devoti mandavano al reale marmocchio. Sembrano cose inverosimili.
Solo i pregiudizi per la jettatura erano paragonabili ai suoi fanatismi religiosi. Perfetto napoletano anche in questo. La cronaca del tempo registra non pochi aneddoti molto salaci, e scongiuri da non potersi scrivere in un libro, per quanto caratteristici ed esilaranti. Benchè devotissimo, i frati in genere e i cappuccini in ispecie, i gobbi, i calvi, i guerci, gli uomini dai capelli rossi, le vecchie con la bazza, erano per lui segni di mal augurio o minacce di sventura, in quel modo stesso che di venerdì non compiva nulla che avesse apparenza festiva o gioiosa, ne viaggiava. Riteneva il 13, come ogni buon napoletano, numero di tristo presagio. Lasciando Caserta, il giorno della sua partenza per le Puglie, visti due cappuccini presso il cancello della reggia, si turbò e non nascose il suo turbamento alla regina che gli sedeva accanto. Nel duomo di Brindisi, nel poco tempo che vi stette, vide un calvo che lo guardava e ordinò che lo allontanassero. Durante la malattia, i pregiudizi! contro la jettatura crebbero in maniera inverosimile. Riteneva la malattia effetto di quella e nel parossismo dei dolori lo sentivano esclamare: me l’hanno jettato;... e passava in rassegna gl’incidenti del viaggio, l’incontro dei due cappuccini a Caserta; certe facce vedute in Ariano, a Foggia e ad Andria, il calvo di Brindisi e così via via. Diffidente delle medicine, molte volte i medici andavano di persona a spedire le ricette; credeva pure ai contagi e alle infezioni; e l’orrore di lui per le malattie epidemiche, o ritenute tali, non era un mistero. Egli aveva fatto bruciare la vettura di Corte, che trasportò sua sorella donna Amalia in Pozzuoli, dove morì di tisi. Di più, ogni persona abitante negli edifici reali, che fosse attaccata da malattia infettiva, riceveva una sovvenzione, ed era obbligata a sloggiare. Nessuno ardiva parlare di morti a Corte, ed ai convogli funebri era espressamente vietato di passare innanzi alla reggia, nè il re visitò mai, negli ultimi tempi, ospedali militari o civili. Dopo l’attentato e dopo il supplizio di Agesilao Milano, ebbe visioni paurose. Il cadavere del Milano fu sepolto nel cimitero di Poggioreale. Il re sognò, pochi giorni dopo, che uomini, armati di bastoni di ferro, invadessero di notte il camposanto e, recatisi sul luogo dov’era sepolto Agesilao, ne involassero la cassa e la trasportassero alla darsena per imbarcarla, passando innanzi alla reggia. E il giorno dopo rivelò il sogno e la polizia corse al cimitero, ma naturalmente trovò che nulla era avvenuto; ma si creò la leggenda circa l’involamento della salma del regicida.
I pregiudizi crescevano con le paure. Egli cercava distrarsi, occupandosi degli affari dello Stato e distraendosi coi figliuoli, ma non era tranquillo. Fosse pungolo di rimorso o sintomo della malattia, che cominciava a invadere l’organismo suo, avrebbe fatta qualunque penitenza per riacquistare la tranquillità dell’aanima. Cominciò a intendere che ottocento prigionieri politici erano davvero un grave argomento di querimonie e di proteste e forse anche di pericoli, ma soltanto sulla fine del 1858, decise disfarsi dei più pericolosi di loro. Il 10 gennaio 1857, venne concluso e sottoscritto un trattato con la confederazione Argentina, per fondare nel territorio di questa una colonia di regi sudditi, condannati detenuti politici, ai quali il re volesse commutare la pena e permettere, con le condizioni stipulate, l’emigrazione laggiù. Il governo avrebbe mandati a sue spese, in varie spedizioni, quanti prigionieri politici volesse e la repubblica, dal canto suo, avrebbe dato a ciascuno un pezzo di terra, istrumenti da coltivare e cento patacconi in danaro. Ma il trattato, benchè concluso e sottoscritto, non andò in vigore, per la ragione che interrogati i prigionieri, pochi soltanto, giovani ed animosi, risposero che per uscir di galera anderebbero dovunque, ma gli altri, i più anziani, energicamente protestarono. È rimasta celebre la risposta di Poerio: "Perchè tanta spesa, egli disse, e tanto incomodo per farci morire in America o per viaggio? lasciateci morire in galera„. Un’altra volta, lo stesso Poerio al Mirabelli, intendente di Avellino, che, recatosi a Montefusco, consigliava i prigionieri politici a chieder grazia al Re, rispose: "Noi attendiamo giustizia, ditelo al re„. Il Settembrini, nella sua commemorazione di Carlo Poerio, afferma che principalmente per quella prima risposta il trattato fu rotto, ma il re non depose il pensiero di allontanare dal Regno coloro che temeva anche in galera; e con decreto reale commutò a sessantasei condannati politici la pena dell’ergastolo e dei ferri in esilio perpetuo in America. Un rescritto ministeriale ordinò che fossero trasportati a New-York. Erano, fra questi, Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Silvio Spaventa, Sigismondo Castromediano, Niccola Schiavoni, Michele Pironti, Niccola Nisco, Giuseppe Pica, Achille Argentino, Domenico Damis, Cesare Braico, Giuseppe Pace, e Agresti, Barilla, Placco, Faucitano, tutti condannati all’ergastolo o ai ferrida venticinque ai trenta anni, e perciò reputati i più pericolosi. Le loro vicende son note.
Tanta implacabilità verso i prigionieri politici, dopo averli fatti macerare nelle galere di Procida, di Santo Stefano, di Montefusco e di Montesarohio, e i cui tormenti sono descritti nelle Ricordanze del Settembrini e nelle Memorie del duca di Caballino, contrastava in modo inverosimile con la familiarità bonaria con cui accoglieva persone a lui devote, soprattutto se rivestite di carattere religioso. Pareva allora un altro uomo. In un giorno di estate del 1856, fu visitato a Caserta dal padre Gennaro Maria Cutinelli, della compagnia di Gesù, vecchio di ottant’anni, incaricato col padre Planas della direzione spirituale delle carceri di Napoli. Il padre Cutinelli aveva porta aperta alla reggia e il re lo accoglieva sempre con festa, gli baciava la mano e non gli negava mai nulla. Era un sant’uomo, intimo degli arcivescovi di Napoli e di Capua, confessore del ministro Murena, fondatore da poco tempo dell’istituto artistico a Sant’Aniello, dove cercava redimere col lavoro i piccoli ladri (mariuncielli), e non si occupava di politica. Vecchio e sofferente, quasi cieco, con la parrucca e la dentiera, il padre Cutinelli conduceva seco per guida un giovanetto di sedici anni, aspirante alunno al ministero delle finanze, che gli scriveva le lettere e lo assisteva amorosamente, tanto che lo chiamava il mio bastone. Aveva ottenuto dal provinciale della Compagnia il permesso di andar per le vie con quel giovane, invece che con altro padre, vietando la regola ai gesuiti di andar soli in pubblico.
Arrivarono a Caserta dopo il mezzogiorno, e annunziato al re il padre Cutinelli, fu subito introdotto; anzi il re, che allora finiva di pranzare, gli andò incontro col tovagliolo tra le mani, dicendogli: Trasite, trasite, padre Cutine’ ;7 e visto quel giovanetto, che non conosceva, chiese: Chi è stu guaglione?8 Il padre Cutinelli rispose: È il mio bastone, Maestà, e ne disse il nome, il cui ricordo non parve riuscisse gradito al re, ma invitò non pertanto anche lui ad entrare. Ed entrati tutti nella sala da pranzo, il re disse ai tre primi figli: "Vasate a mano a o padre Cutinelli„;9 e quelli non se lo fecero ripetere. E il padre Cutinelli, rivolgendosi alla regina, le domandò come stesse e se fosse uscita la mattina a passeggiare; e Maria Teresa, facendo mostra di baciargli la mano, rispose col suo accento tedesco, in volgare napoletano: "Stamattina non songo asciuta, so stata a coseve„.10
Fatti i convenevoli, il re sempre bonario e premuroso chiese al padre Cutinelli che volesse, e quegli: Maestà, quod superest . . ., e il re finì la frase: "Date pauperibus; ho capito„, e subito concesse che alcune economie del ministero dei lavori pubblici fossero destinate all’istituto artistico. Poi il re si mise a parlare col vecchio gesuita presso l’inferriata della finestra, che dava sul giardino. il tempo si era turbato e venne giù un acquazzone con lampi. Il padre Cutinelli pregò il re di ritirarsi da quel posto pericoloso, ma il re gli disse: “Padre Cutine’, io tengo no capillo della Madonna, e non aggio paura dei tuoni.„11 E restò presso l’inferriata, e quando la pioggia cessò volle accompagnare padre Cutinelli sino alla porta, gli ribaciò la mano e gliela ribaciarono la regina e i principi. Il guaglione, come l’aveva chiamato il re, ebbe più tardi vita avventurosa. Fece ascensioni in pallone, girò l’Europa per Congressi, fu pompiere in Roma e intimo di Vittorio Emanuele, andò in Egitto nella polizia d’Ismail; e tornato di là, povero come Giobbe, lavora, e conserva tutto il suo spirito. È Rinaldo de Sterlich, figlio di Alessandro, il quale nel 1848 era uffiziale di carico al ministero di agricoltura, venne destituito per ragioni politiche, e poi fu deputato al Parlamento ed economo generale a Napoli dei benefizi vacanti.
Altra nota caratteristica di Ferdinando II, ma nella sua gioventù, furono gli scherzi, e anche qui si rivelava l’indole tutta napoletana di lui. Scherzi non degni di qualunque persona educata, ma di moda nell’alta società di allora. Una vittima di essi era stato don Raffaele Caracciolo di Castelluccio, che morì vecchio verso il 1850, e fu per tanti anni parassita e zimbello della Corte. Molte sono le baie, che si narra essere state fatte al vecchio gentiluomo, il quale portava la parrucca ed era appassionatissimo di cavalli e di equipaggi. Da una cronaca inedita di un reputato scrittore napoletano, riferentesi al matrimonio del re con Maria Cristina di Savoia, tolgo questo aneddoto:
Il Re prima che risposasse ebbe una scommessa di trecento ducati col neo cavaliere capitano Statella, dicendo costui che il Re si sarebbe sposato in quest’anno, e il Re negandolo. Il Re avendo perduta la scommessa, pagò i trecento ducati. Molti rimproverarono Statella d'averli ricevuti. Onde costui, per dar fine a’ rimproveri, invitò il Re con tutta la famiglia reale, e così dame e gentiluomini di quelli che circondano la famiglia reale, ad un pranzo a Posillipo, e propriamente nel casino di Barbaja, antico luogo di abitazione del nostro Sannazaro. Questo pranzo doveva aver luogo tre o quattro giorni fa, ma perchè non era ancor giunto di Francia il ministro delle finanze, principe di Cassaro, fratello del capitano Statella con un servizio di tavola per quaranta persone, di argento dorato di quella maniera detta vermeille, che è in grandissima moda, così non ha avuto luogo prima di questa mattina. Il Re e i principi reali ci sono intervenuti da semplici ufficiali, senz’ordini. Il pranzo è stato brillantissimo, ed il Re ha fatto mostra di una grandissima allegria: ha tolto di testa al cavalier Raffaele Caracciolo la parrucca, e l’ha gettata via: ed avendo nascosto il cappello del duca di San Cesario, indispettito che l’architetto signor Bianchi (il quale vi si trovava per l’architettura del pranzo ed ogni altro necessario divertimento) trovatolo, l’aveva dato al duca, glielo ha tolto di mano e posto nel foco di un braciere; e come gli altri s’ingegnavano a salvare il cappello, egli con una paletta più l’introduceva nel foco, sicchè per infine del tutto è rimasto bruciato. Dopo il pranzo, in un teatro fatto per questa occasione nel giardino del palazzo, vi è stata la recita di una commedia in dialetto napoletano rappresentata dagli attori di San Carlino, perchè la regina sposa avesse cognizione delle grazie di queste nostre commedie. Ed infine due primarie ballerine del teatro di San Carlo, hanno fatto la danza nazionale detta la tarantella. Questo pranzo ha costato al signor Statella più migliaia, ed ora è sicuro che non gli si dirà che per avarizia ricevette dal Re i trecento ducati.
Nè finirono qui gli scherzi. Un giorno che il Caracciolo era con altri amici convitato a pranzo presso una nobile famiglia napoletana, il re saputolo gli mandò un suo messo, e nel punto in cui il pranzo cominciava, fece chiamare di urgenza don Raffaele. Questi immediatamente vi accorse. Il re lo lasciò sino alla mezzanotte in anticamera, e quando uscì fuori, ridendo a crepapelle, gli disse:„Don Rafè, ai fatto ’u chiuove alla madonna„,12 e lo congedò. Un altro giorno seppe il re che la sua vittima andava con alcuni amici a Sorrento. Fece circondare la carrozza da guardie di polizia, che intimarono a tutti l’arresto per ragioni politiche. Ebbero a morirne. Gli altri vennero poco tempo dopo rilasciati, ma don Raffaele fu tenuto due giorni in custodia, e nel terzo giorno il Re gli fece dire: "Don Rafè, isciatienne, ’o re t’ha voluto grazia'„ .13 Don Raffaele questa volta perdette le staffe, e disse ai due ufficiali ch’erano andati a liberarlo: "Chisse se chiama prurito de c...„, Il re lo seppe, e il Caracciolo ne perdette la grazia.
Negli ultimi tempi gli scherzi si limitarono a risposte argute, ad osservazioni e ammonizioni offensive per chi le riceveva, ma il tipo del parassita zimbello era sparito per sempre. Gli anni e le preoccupazioni del governo avevano modificata l’indole del sovrano. Nel 1832, quando sposò Maria Cristina, aveva 22 anni ed era nella pienezza del suo spirito volgarmente bizzarro e ne faceva d’ogni specie. Andò a sposare a Veltri, e partì da Napoli il giorno 8 novembre, per terra, accompagnato dal Caprioli, suo segretario particolare e dal corriere di gabinetto Dalbono. Non volendo essere riconosciuto lungo il viaggio, si pose gli occhiali e le barbette finte, ed al confine mostrò un passaporto, nel quale era chiamato don Ferdinando Palermo, gentiluomo, che parte per un Cantone della Svizzera. Giunto a Roma, non discese al suo palazzo Farnese, ma alla locanda del Serny, in piazza di Spagna. Vi si trattenne tre giorni e visitò il Papa, e da Roma, il 14, parti per Firenze dove giunse incognito. Visitando le gallerie, v’incontrò il Granduca, che gli era cugino e l’anno dopo divenne cognato; gli si diè a conoscere, ma ne ricusò l’ospitalità, scusandosi che partiva il giorno stesso per Genova. Il matrimonio fu celebrato dal cardinale Morozzo vescovo di Novara a Voltri, nel santuario dell’Acquasanta, il giorno 20 novembre. Maria Cristina aveva vent’anni ed era alta quanto lui, parlava poco e in francese quasi sempre. Compiuto il matrimonio, non volle andare a dormire con lei nel magnifico appartamento fatto preparare da Carlo Alberto al palazzo reale, ma pretese che Maria Cristina andasse lei al palazzo ducale, dove egli alloggiava. E la seconda notte del matrimonio, all’improvviso, andò con un aiutante a visitare la fortezza di Alessandria, senza di nulla alla sposa. A Genova si fermò sei giorni. Fece partire per Napoli il Caprioli e il Dalbono, per far pubblicare il matrimonio e avvisare che i Sovrani sarebbero presto arrivati. Vi giunsero infatti il giorno 30, a bordo della fregata Regina Isabella, seguita dalle fregate sarde il Carlo Felice e l’Euridice, e da un avviso, il Dione. Era di venerdì, pioveva a dirotto e la pioggia e la giornata non furono ritenute di buon augurio dai napoletani. La regina non volle saggiare alcuna pietanza di carne. Il re rideva degli scrupoli di lei e la metteva in canzonatura, dicendo che era una santa, molto attaccata all’etichetta insopportabile della Corte di Torino. In sostanza gli eccessivi scrupoli di lei finirono per seccarlo. Si determinò subito una marcata e profonda incompatibilità di carattere fra loro due, e Maria Cristina non fu la donna più felice nei quattro anni che sedette sul trono di Napoli. Si può immaginare quale impressione riportasse dagli scherzi in danno di quel povero Caracciolo! Lo scherzo, che si disse fatto a lei stessa, di toglierle la sedia mentre sedeva e di farla andare con le gambe in aria, se non è storicamente accertato, è verosimile, data la natura e l’età di chi lo faceva. Un altro aneddoto, che tolgo pure dalla cronaca del matrimonio. Il 24 novembre partirono da Napoli due battelli a vapore all’incontro del re, sui quali presero imbarco alcuni principi reali, il Caprioli, il presidente e alcuni membri della deputazione di salute, per dar subito pratica al vascello che portava i Sovrani. Ma questi battelli non incontrarono la flotta, partita da Genova, perchè sbagliarono direzione. La flotta giunse, il re e la regina sbarcarono, ma i battelli tornarono nel porto due giorni dopo! Si può immaginare quale miniera di motti e di caricature fu per il Re questo sbaglio, veramente inconcepibile.
Nella vita apologetica di Maria Cristina, scritta da monsignor Sardi14 sono riferite parecchie circostanze, le quali provano che quel matrimonio non fu voluto da lei, e come vi si piegasse solamente per virtù, secondo venne deposto nel processo di canonizzazione dalla sua aia, la contessa della Volvera. Questa afferma che, sull’atto di andare all’altare, non volesse vestire l’abito di gala; e quando non potè farne di meno, prorompesse in un dirottissimo pianto. Era forse presaga della sua sorte infelice? Presaga di andare in un paese lontano e tanto diverso dal suo, e con un marito mezzo scapestrato, che ella non conosceva altrii menti che per ritratto, ritratto che aveva dato alla marchesa di Sangiorgio, rifiutandosi di tenerlo nella sua camera da letto? Morì a ventiquattr’anni, dando alla luce l’erede della corona. Era fatta tutta di devozione, di ascetismo e di bontà; le piaceva passar la giornata fra messe, rosarii e penitenze. Si può bene immaginare quanto dovesse trovarsi à son aise in una Corte come la borbonica, dove ancora esercitava tutto il suo potere la regina vedova Isabella, sempre in cerca di giovani morganatici mariti! Della morte di Maria Cristina il re non fu desolato, come si è detto; con la nuova regina Maria Teresa d’Austria, figlia dell’aroiduca Carlo, poteva abbandonarsi ai suoi scherzi partenopei; chiamarla Tetella; sgridarla quando occorreva, e poi chiederle perdono; e per ottenerlo, prenderla in braccio e trastullarla come una bambola, di camera in camera, anche perchè piccola di statura. Con Maria Cristina non era possibile tutto questo.
Gli scherzi del padre furono un po’ ereditati dai figli del secondo letto, ma nessuno dei figli somigliava a lui, che fu, tutto compreso, una delle più singolari nature di principe assoluto: bizzarra contraddizione di buono e di pessimo, che regnò ventinove anni e non subì influenze di favorite o di ministri, che considerò come strumenti nelle sue mani e buttò via quando non gli servirono più; nè di potenze, con le quali cercò di vivere in buona pace, ma di nessuna subendo minacce, nè ad alcuna dando molestia. Lo spettro del Piemonte lo agitò negli ultimi anni, ma pur si seppe comprimere. Le sue disgrazie non furono poche; la sua diplomazia non fu illuminata, ne lo poteva; non negoziò trattati di alleanze, nè di protettorati, onde avvenne che, morto lui, il Regno si trovò senza alleati, senza amici e finì in pochi mesi. La fatale illusione di Ferdinando II che l’accompagnò per tutta la vita, e fu il credere di non dover morire mai. Lo ripeto, peroh’è la verità.
Tra i fratelli del re non si potrebbe affermare che regnasse la maggiore concordia. Il principe di Capua, don Carlo, viveva lontano dal Regno, in una specie di esilio, del quale non si seppero mai le ragioni intime. Don Leopoldo, conte di Siracusa, viveva appartato dalla reggia, nel suo bel palazzo alla Riviera, coi suoi amici, dei quali si è parlato, protettore di artisti ed artista egli stesso, arieggiente Lorenzo il Magnifico. Esegui pregevolì lavori di scultura, fra i quali il monumento a Vico, al quale lavorò col Liberti, col Masullo e con l’Angelini: monumento serio e decoroso, forse il migliore che abbia Napoli, e da lui donato al municipio e inaugurato nel 1860, pochi mesi prima della catastrofe borbonica. Come scultore, il conte voleva forse lasciar credere più che non fosse, ma di certo aveva talento. La sua vita era interamente mondana, forse un po’ dissoluta, come affermarono i suoi nemici. Politicamente accentuava il suo liberalismo, biasimando gli atti di governo e manifestando le sue antipatie e anche il disprezzo per gli nomini, che avevano la fiducia del re, suo fratello. Accentuava la sua amicizia con l’incaricato di affari della Sardegna, e nella guerra, di Crimea le sue simpatie e quelle dei suoi amici furono manco a dirlo, per le armi alleate. Il giorno in cui, non senza qualche ostentazione, le navi sarde che portavano le truppe in Crimea passavano a vista di Napoli, a bandiera tricolore spiegata, disse ad alcuni intimi, che erano con lui sulla loggia del palazzo: il principio scritto su quella bandiera toccherebbe a noi di rappresentarlo. Giovanni Barracco ancora se ne ricorda. Si cercò di spiegare le sue simpatie per il Piemonte col fatto che egli aveva in moglie una principessa di Savoia Carignano. Non lo credo. Il matrimonio di don Leopoldo, sterile di figliuoli, non fu più felice di quello del fratello con Maria Cristina. La contessa di Siracusa era un misto di bigotteria, di apatia e di curiosità infantile, onde riusciva supremamente noiosa agli amici del marito. In una lettera di Cesare Casanova al ano cognato Antonacci, del luglio 1866, si legge questo umoristico brano “Sua Altezza che fui a vedere domenica, mi parlò assai assai di te, e mi domandò quante azioni di ferrovia avevi tu preso. Io dissi che lo ignoravo, ma che certo avresti dato il buon esempio. Quest’innocente bugia la scontai, perchè sopravvenne la contessa a cui dovei fare la mia corte, perchè tutti gli altri giocavano. Fu affare di un’ora e mezza e mi fece duemila domande. Ed io ritto come un fazionario! Poi Fiorelli impietosito venne a rilevarmi. Figurati! Sto fuggendo ancora!„.
Il conte d’Aquila era un verace reazionario, che non trovava mai bastevoli le più gravi misure di rigore, e negli ultimi tempi ruppe ogni rapporto con suo fratello don Leopoldo. Ostentava il suo amore per la marina da guerra di oui era a capo, ma stando a terra: il suo maggiore, e credo unico viaggio, fu nel Brasile dove andò nel 1844 a sposare donna Gennaro, sorella dell’imperatore don Pietro II, che alla sua volta aveva sposato, l’anno innanzi, l’ultima delle cinque sorelle di Ferdinando II. È da ricordare che la maggiore di esse andò moglie in Ispagna a Ferdinando VII; la seconda fu granduchessa di Toscana; la terza sposò don Sebastiano di Spagna; la quarta, il conte di Montemolino. La duchessa di Berry era sorella consanguinea di Ferdinando II, essendo nata dal primo matrimonio di Francesco I con Maria Clementina d’Austria. Il conte d’Aquila aveva tendenze artistiche e dipingeva discretamente; e don Francesco Paolo, ultimo dei fratelli, che sposò nel 1860 Maria Isabella di Toscana, frequentava la società e si divertiva ballando. Era il più insulso dei fratelli del re, ma il più affezionato, e più tardi si mostrò il più coerente. Abitava al palazzo reale, ed era conosciuto col nome familiare e burlesco di don Cicco Paolo. Data una famiglia così fatta, nulla di più naturale che, morto il capo, ciascuno prendesse la sua strada. Il conte di Siracusa si condusse come si vedrà; e il conte d’Aquila, mandato in esilio nel 1860 per maneggi reazionari, venne poi a Roma a chiedere danari al governo italiano e al re Umberto, che non ebbe, naturalmente. Io lo conobbi a Parigi nel 1878, in occasione dell’Esposizione, e poi lo rividi a Roma. I legittimisti di Napoli non gli perdonarono che si fosse andato a umiliare al Quirinale; e il duca Proto, altro bell’esempio di coerenza, decretava romorosamente nei caffè di Roma, che don Luigi di Borbone, dopo l’andata al Quirinale, si dovesse chiamare non piò conte aquila, ma... conte porco!
Pietrantonio Sanseverino, principe di Bisignano, era maggiordomo maggiore; il duca di San Cesario, Gennaro Marulli, cavallerizzo maggiore; il duca d’Ascoli, Sebastiano Marulli, somigliere del corpo; monsignor don Pietro Naselli, cappellano maggiore; il principe di Campofranco, Antonio Lucchesi Palli, maggiordomo maggiore onorario. Il marchese D’Avalos, stimato il più ricco signore del Regno, dopo Barracco, era anche sopraintendente generale degli Ordini mendicanti. Cavalieri di compagnia, il duca Riccardo de Sangro e il conte Giuseppe Statella, secondo figliuolo del principe di Cassero, e noto col diminutivo siculo di Pepè. Fra gentiluomini di camera, maggiordomi di settimana e gentiluomini di entrato, brillava in Corte quasi tutta l’aristocrazia del Regno.
I gentiluomini di camera di entrata, e i gentiluomini di camera con esercizio, si chiamavano anche chiavi d’oro, perchè solevano portare sull’abito, come distintivo della loro carica, dentro piccolo ed elegante sacchetto, una chiave d’argento dorato, per indicare che essi potevano entrare dappertutto nella reggia. Sulla chiave si leggevano incise le iniziali: V. R. S. che significavano Vitae Regis Securitas.
Erano quasi tutte cariche onorifiche non così quelle degli aiutanti generali del Re. Tra questi figuravano in primo luogo i fratelli di lui: il conte d’Aquila, col grado di vice-ammiraglio e il conte di Trapani, col grado di brigadiere. Nelle feste e nei conviti di Corte, nei ricevimenti ufficiali e nei baciamani, i gentiluomini di Corte, i maggiordomi e i gentiluomini di camera avevano, naturalmente, il primo posto dopo i sei altissimi dignitarii. Con tutti, ma principalmente coi capi di Corte, Ferdinando II usava con napolitana familiarità, chiamandoli per nome, parlando in dialetto, motteggiandoli e riprendendoli all’occorrenza. Per ragion di grado, ed anche per maggiori simpatie, egli vedeva più di frequente il suo aiutante colonnello Forcella e gli uffiziali alla sua immediazione: Leopoldo del Re, brigadiere di marina e Alessandro Nunziante, colonnello di stato maggiore. Con quest’ultimo era addirittura intimo e lo soccorreva largamente. Sapendolo in angustie pecuniarie, molto influì nella liquidazione del grosso patrimonio Calabritto, per cui a donna Teresa Tuttavilla, moglie del Nunziante e duchessa di Mignano, toccò una quota notevole della sostanza, il cui ricupero fu dovuto alle cure intelligenti dell’avvocato Giuseppe Bucci che aveva sposata donna Giulia, sorella maggiore di donna Teresa.
Si trovavano in contatto quotidiano col Re gl’impiegati della sua segreteria particolare, a cominciare dal colonnello D’Agostino, sposatosi in tarda età, con una delle belle e giovani figlie dell’avvocato Alfani, e a finire a Ferdinando Stähly, che era impiegato al ministero degli esteri. La segreteria era, come si è detto, il vero ministero, anzi una vera cancelleria. Il Re chiamava tutti per nome, anzi con diminutivi. Solo al Falcon, don Gioacchino, dava del voi. Aveva particolare fiducia in Gaetano Zezon, genero del Carrascosa e che era un bel giovane e di vivace talento. Lo chiamava Gaetanino. Ma poco mancò che toccasse, nel 1856, allo Zezon quanto avvenne nel 1852 a Leopoldo Corsi. Cameriere personale del Re e nel quale egli riponeva una discreta fiducia, era il Galizia, che ebbe anche la sua celebrità, ma che non si valse della posizione presso il Sovrano per far quattrini, nè forse Ferdinando II l’avrebbe tollerato. Galizia segui il Re, come si è veduto, in Calabria e in Sicilia, poi lo seguì nell’ultimo fatale viaggio in Puglia e lo assistette sino alla morte. Il Galizia mori in Napoli il 22 febbraio 1862 di apoplessia, a 65 anni, lasciando due figlie religiose nel conservatorio di Santa Maria di Costantinopoli, dotate da Ferdinando II, e due maschi, Ferdinando e Gennaro. Quest’ultimo fu prete e disse la prima messa nella cappella reale di Caserta, alla presenza del Sovrano e di tutta la famiglia reale. Dopo la messa, il Re baciò la mano al figliuolo del suo cameriere e gli donò un gruzzolo di monete d’oro, che il Galizia, padre, rifiutò, pregando Sua Maestà di voler solo permettere che il nuovo sacerdote dicesse ogni giorno la messa secondo l’augusta intenzione di lui. E il re consentì e concesse poi all’abate Galizia un pingue beneficio, il quale, mutati i tempi, non gli fu riconosciuto e per cui egli mosse lite al governo italiano. Il Galizia lasciò un patrimonio modesto. Uomo di poche parole e di molto tatto, fu, veramente, il solo che potesse affermare di conoscere a fondo il suo padrone, nel quale era entrato in grazia particolarmente per questo, che ben di rado gli chiedeva qualcosa, il che pareva inverosimile, perchè tutti chiedevano in Corte. Cocchiere particolare del re era Vincenzo Carotenuto, notissimo col nome dialettale di Vicienzo, e a cui successe il figlio Giovanni, morto nel marzo scorso quasi novantenne nelle vie di Napoli. L’intimità del re col suo cocchiere non era punto simile a quella che aveva per il Criscuolo suo marinaro, ma sempre improntata a borbonica cordialità. S’è esatto quanto riferirono i giornali di Napoli alla morte dell’ultimo Carotenuto, questi avrebbe detto, prima di spirare, molte sciocchezze, come quella di aver condotto da Bari a Napoli gli sposi Francesco e Maria Sofia, confondendo nomi e creando circostanze e date.
Il marchese don Michele Imperiale era cavaliere d’onore della Regina, la quale aveva per dama d’onore la principessa di Bisignano; per cavallerizzo, don Onorato Gaetani, e per dame di compagnia, la duchessa d’Ascoli e la marchesa di Monserrato. Figuravano, fra le dame di Corte, le principesse di Paternò, di San Nicandro, di Linguaglossa, di Satriano, di Pandolfìna, di Piedimonte, di Palazzolo, di Sant’Elia de Gregorio, di Cajanello e della Scaletta; le duchesse di Serracapriola, di Ascoli, di San Cesario, di Belviso, di Adragna; le marchesse Della Guardia e Di Alfano; la contessa Statella dei marchesi di Salsa, Grifeo e dei principi di Catena, e De la Tour, donna Luisa de Sangro. Queste dame, negli ultimi anni del regno di Ferdinando II, non prestarono servizio quasi mai. Maria Teresa aveva da principio cameriste e donne di camera per il suo servizio, ma cameriste non ne ebbe più, negli ultimi tempi. L’amministrazione della Casa Reale aveva tre ripartimenti, un archivio centrale, una controlleria, una vedorìa e contadorìa, una tesoreria, una tappezzeria e una biblioteca privata tutto ordinato a sistema spagnolo. Era direttore della biblioteca il marchese Imperiale di Francavilla; capo della tappezzeria, il barone Falco il quale, essendo morto il 23 maggio del 1859, si disse ucciso dal dolore par la fine del Re che il giorno avanti era spirato. Gli successe il signor Francesco Oli. Era tesoriere il conte Forcella; vedore, don Ferdinando Scaglione; controllore, don Antonio Fava; archivista, don Raffaele Benedetti e capi di ripartimento, Cheli e Rossi.
Sopraintendeva a tutti, nella sua qualità di maggiordomo maggiore, il principe di Bisignano. Erano medici di Corte, Rosati, Ramaglia e De Lisi e chirurgo, don Niccola Melorio; avvocati di Casa Reale, Magliano ed Arpico; avvocato consulente, Antonio Starace; architetti. Persico, Puglia, Genovese, Zecchetelli e Giordano; direttore del museo borbonico, il principe di San Giorgio, don Domenico Spinelli; controllore dello stesso museo, Bernardo Quaranta; architetto degli scavi di Pompei, Genovese; degli scavi d’Ercolano, Bonucci; dell’anfiteatro di Pozzuoli, Michele Ruggiero; dell’anfiteatro Campano e tempio di Pesto, Rizzi. Era prefetto della real biblioteca borbonica l’abate Selvaggi e presidente della giunta di detta biblioteca, l’abate Giustino Quadrari, valoroso grecista.
Confessava la regina, il padre Giovanni Sabelli, liguorino della provincia austriaca, tedesco di nascita e di nazionalità, benchè di cognome italiano e discepolo del beato Clemente Hofbauer, liguorino e propagatore del suo Ordine in Europa. Del principe ereditario era cappellano don Domenico d’Elia; confessore, monsignor Filippo Gallo; primo istruttore, il retroammiraglio don Giovanni Antonio della Spina che non valeva nulla; e secondo istruttore, il brigadiere del genio, Francesco Ferrari, che forse valeva un po’ di più. Non si potrebbe affermare se fossero più che educatori, vigilatori e spie del giovane principe, nelle abitudini più intime di lui, cui non fa concesso dormir solo nella propria camera quasi sino al matrimonio. Il brigadiere Niola di artiglieria, il colonnello Cappetta, il maggiore Galasso, il capitano Francesco Giannico del genio, e il tenente colonnello Presti erano gl’istruttori dei principi secondogeniti, ai quali, come al duca di Calabria, aveva insegnato il catechismo e l’abecedario lo scolopio padre Pompeo Vita, di Torre Santa Susanna, che restò in Corte per impartire lo stesso insegnamento alle principesse e ai piccoli principi, sino al novembre del 1857. In quel tempo impazzì e fu sostituito da un altro scolopio pugliese, il padre Niccola Borrelli, di Foggia. Non è immaginabile quale influenza esercitasse il padre Pompeo in Corte, nè quella, ma assai diversa, che vi esercitò, sotto il regno di Francesco II, il padre Borrelli. Avevano indole affatto diversa questi due figli del Calasanzio.
Il padre Pompeo, detto di San Carlo alle Mortelle, perchè già rettore di quel collegio, era uomo di stupidi scrupoli, per cui cadde su lui la maggior parte di responsabilità, circa la prima educazione del duca di Calabria. Si affermò che egli avesse carezzata nell’erede della Corona la materna tendenza ascetica, ed esagerato in lui il senso istintivo della rassegnazione, di dispregio delle pompe e di avversione alle donne, per cui Francesco II fu prima un re e poi un pretendente così diverso da tutti gli altri principi e pretendenti e... nomini della terra. Despicere terrena et amare coelestia, nel quale fu il precipuo insegnamento del padre Pompeo, gli scrupoli erano tanto inverosimili, che non si credevano sinceri, ma invece ispirati, si diceva, dal desiderio di entrare sempre di più nelle grazie del re, sul quale esercitò, senza parere, una grande influenza, riuscendo a salvare agli scolopii i due collegi di Napoli, San Carlo alle Mortelle e San Carlo all’Arena, e i collegi di Chieti, di Catanzaro, di Monteleone, di Avellino, di Maddaloni, di Campobasso, che i gesuiti volevano a qualunque costo. Egli era una potenza in Corte, e quando impazzì, si disse causa della pazzia il rimorso di avere, per conto della regina, inebetito il principe ereditario; ma se di tanto non era capace, certo i risultati della sua influenza sul principe ereditario furono nefasti. Gli scolopii, i quali ritengono il padre Pompeo Vita, morto nel 1863, per un luminare dell’Ordine loro, ne difendono la memoria, ma quando era vivo ebbero di lai più paura che affetto.
Altro uomo, altro frate, altro educatore fu il padre Borrelli. Rettore del collegio di Maddaloni quando venne chiamato a succedere al padre Pompeo, era stato professore a San Carlo delle Mortelle, dove aveva avuto, tra i suoi primi discepoli, Ruggiero Bonghi; e poi al collegio del Nazzareno a Roma. Era piccolo e tozzo, colore bruno, occhi grandi e sporgenti, punto bello, ma piacevolissimo, allegrone e uomo di mondo. Scriveva versi e portava gli occhiali. Era stato gichertiano sino al 1848, e gli era rimasta per Gioberti una costante devozione, benché, pur seguitando ad amarlo in segreto, non lo nominasse mai in pubblico. Ebbe in Corte una posizione invidiata. Ferdinando II si fidava di lui e celiava e barzellettava con lui, ma nei dovuti limiti; il duca di Calabria gli si affezionò tanto, che non dava alcun passo senza il suo consiglio; e le principesse e i piccoli principi lo amavano e scherzavano con lui, felicissimi di essersi sottratti all’incubo del padre Pompeo. Il padre Borrelli seguì i Borboni a Roma, e di lui ho molto parlato nel mio libro: Roma e lo Stato del Papa.
Questi due scolopii di Puglia ebbero dunque, successivamente, una parte importante nella Corte, come l’Ordine loro l’ebbe nel Regno. Gli scolopii erano in realtà più potenti dei gesuiti; e Ferdinando II li amava e li aveva ammessi nell’intimità, affidando loro la prima educazione e istruzione dei suoi figli. La Puglia dava il maggior contingente a quest’Ordine, Oltre al padre Pompeo e al padre Borrelli, erano pugliesi e benemeriti dell’insegnamento, il padre Trincucci, intimo di Vito Fornari, il padre Ferretti di Oria, il padre Nisio di Molfetta, il padre Leonetti di Andria, allora giovanissimo e che morì rettore del collegio del Nazzareno a Roma, e i padri Bruno e Campanella di Gioia, Nitti di Triggiano, Cericola di Foggia, Camerino di Ruvo e i fratelli Della Corte, il maggiore dei quali reggeva il collegio di Francavilla Fontana. Questo collegio contava più centinaia di alunni interni, la maggior parte di Puglia e di Basilicata, ai quali s’impartiva un insegnamento piuttosto largo, dati i tempi. Gli scolopii avevano collegi di novizii a Campi Salentino e a Galatina. Tanto il padre Pompeo che il padre Borrelli erano di umilissima origine, e il padre Borrelli, figlio di un mandriano, era stato protetto dal Santangelo, intendente di Foggia che lo fece educare dagli scolopii.
Note
- ↑ Teresa, a poco a poco finiremo per servirci a tavola noi stessi.
- ↑ Neh, avvocati, che volete?
- ↑ Don Antonio, dagliene una fetta, altrimenti non ci lascia parlare.
- ↑ Diminutivo dialettale di Leopoldo.
- ↑ Don Francesco, togli questi santi dal cappello e finiamo questa commedia.
- ↑ Neh oecato, sei arrivato prima di me.
- ↑ Entrate, entrate, padre Cutinelli.
- ↑ Chi è questo ragazzo?
- ↑ Baciate la mano al padre Cutinelli.
- ↑ Stamattina non sono uscita, sono stata a cucire. Le mancava l’erre come si è detto e diceva coseve per cosere.
- ↑ Padre Cutinelli, io ho un capello della Madonna e non ho paura dei tuoni.
- ↑ Frase dialettale, che vuol dire: hai fatto un fioretto alla Madonna.
- ↑ Don Raffaele, esci, il Re ti ha voluto graziare.
- ↑ La venerabile Maria Cristina di Savoia, regina delle due Sicilie. — Roma, tipografia F. Ricci, 1896.