La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo X
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CAPITOLO X
Nel Giornale del Regno delle Due Sicilie del 9 dicembre 1856, si leggeva: "Un individuo, da pochi mesi entrato con male arti al real servizio militare, osò ieri uscir di riga mentre sfilavano le truppe al Campo, e spingersi avverso la Sacra Persona del Re nostro Augusto Signore, il quale, la Dio mercè, non solo rimase sano ed illeso, ma conservò la calma, la serenità e la imperturbabilità consueta, continuando ad assistere allo sfilar delle truppe, come se nulla fosse accaduto, sicché non se ne avvidero se non ben pochi dei presenti„. E nel numero del 13 dicembre era scritto: "Il Consiglio di guerra di corpo del 3° battaglione dei cacciatori, procedendo in conformità delle leggi a carico del soldato Agesilao Milano, reo dell’esecrando reato da lui commesso contro la persona del Re, nostro Augusto Signore, lo condannò ieri alla pena di morte col quarto grado di pubblico esempio. La qual sentenza è stata eseguita questa mattina alle dieci e mezza, dopo la degradazione militare, nel largo del Cavalcatolo, fuori Porta Capuana. Il reo, che ha ricevuto a lungo tutti i conforti della nostra sacrosanta religione si è mostrato compunto. L’ordine pubblico è stato perfettamente osservato, e la generale esecrazione ha seguito il colpevole fino al suo estremo respiro„. Ecco l’alfa e l’omega di quello strano avvenimento.
La stessa onda di degradazione, che si levò nel Regno fra il 1849 e il 1850 per chiedere al Re l’abolizione dello Statuto, si levò dopo quel fatto. È carità di patria non attingere dagli archivii ricordi poco eroici, e non esumare gl’indirizzi magniloquenti, nè ricordare le tante deputazioni, le quali sfidando i disagi di un viaggio lungo e di una stagione cruda, si recarono a presentare al Sovrano i rallegramenti per lo scampato pericolo. Quante giamberghe furono sbattute dalla tramontana innanzi alla Reggia di Caserta, dove la Corte andò poco tempo dopo ! La rettorica dell’alto clero, ma più quella dei gesuiti, fu spesa a magnificare il miracolo fatto dalla Concezione, di cui, l’otto dicembre giorno dell’attentato, ricorreva la festa. Si tennero nei seminarli e nei collegi molte accademie, con musiche e componimenti; ci furono luminarie, tridui di grazia alla Vergine e Te Deum in ogni chiesa del Regno. Primo a darne l’esempio fu l’arcivescovo di Napoli, che con pastorale apposita prescrisse un triduo in tutte le chiese della diocesi. Se Ferdinando II fosse stato il principe più amato dai suoi popoli, non avrebbe raccolto tante dimostrazioni, quante ne raccolse allora. Ma la nota grottesca venne raggiunta dal comune di San Benedetto Ullano, patria di Agesilao Milano, che spedi al Re il seguente indirizzo:
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- Sire,
- Sire,
Massimo fu l'orrore quando seppe la rea notizia del nefando attentato del sacrilego Agesilao Milano.
Immenso giubilo provò, ed infiniti ringraziamenti rese all'Altissimo nel Sacro Tempio, dove si celebrò messa solenne coll'esposizione del Santissimo, col canto dell'Inno Ambrosiano e colla processione del Santissimo per l'intero abitato, per la conservata preziosa vita della Maestà Sua, {{Pt|ri-| ritenendosi come soprannaturale essere evidentemente protetto da Dio e dalla Beatissima Vergine.
Lontano trecento miglia da Napoli in una recondita giogaia delle calabre montagne, il comune di San Benedetto Ullano, divenuto oggetto di triste celebrità per aver dato i natali ad un mostro di esecranda memoria, ne rinnega tale infausta relazione, e ripudia ogn’idea di comunione col medesimo. L'empio sacrilego che osa attentare ai preziosi giorni di un Sovrano così pietoso, delizia dei suoi sudditi, non ha patria, ed in ogni angolo della terra sarà straniero abborrito; l’umanità intera abbomina di averlo nel suo numero.
L'intera popolazione umilmente prostrata ai piedi della Sacra M. S. osa implorare la Sovrana clemenza a pro di essa, assicurando la lodata M. S. dell'attaccamento e divozione verso la Sacra Real Corona.}}
Agesilao Milano era dunque nato a San Benedetto Ullano, in provincia di Cosenza; aveva ventisei anni ed apparteneva ad una di quelle famiglie Epirote, calate nel Regno nelle diverse trasmigrazioni, le prime delle quali, nel 1448 e nel 1461, avevano avuto per duci Demetrio Perez e Giorgio Scanderberg. Questi discese in Puglia con la sua gente, per difendere Ferdinando d’Aragona dai baroni ribelli, secondo afferma Lorenzo Giustiniani1, e ne avrebbe avuto in compenso il ducato della Ferrandina e il marchesato della Tripalda. Vennero dunque chiamati dai re di Napoli e dai vicerè, di accordo sempre, anche quando non erano chiamati. L’ultima discesa si compì sotto Ferdinando IV nei primi anni del secolo XVIII, a Brindisi, e quei duce si chiamava Panagiota Cacclamani, soprannominato "Phantasia„ caffettiere, ma valente nel greco e nell’erudizione, secondo il Giustiniani. Quelle immigrazioni occuparono varie contrade di Calabria, di Puglia, di Abruzzo, di Basilicata e di Sicilia, ma soprattutto di Calabria, fondando comuni o frazioni di comuni nelle province di Cosenza e Catanzaro, ma più di Cosenza, dove gli albanesi trovarono condizioni morali più adatte alle loro tradizioni e tendenze. Molto di comune vi era difatti tra la razza sopravvenuta e l’indigena: l’una e l’altra tenaci negli odii, punto espansive, inclinate alle avventure, di rado misuranti i mezzi al fine, convinte che la vendetta non si prescrive, e che tanto è più legittima, in quanto si compie con le proprie mani; l’una e l’altra covanti nell’animo un sentimento di ribellione contro tutto ciò che avesse aria di prepotenza o d’ingiustizia.
In fatto di religione gli albanesi restarono cattolici, ma conservarono il rito greco, con un vescovo e clero numeroso, il quale si formava nel collegio di San Demetrio Corone, dedicato a Sant’Adriano, e istituito sotto il pontificato di Clemente XII: collegio che per oltre mezzo secolo ebbe sede in San Benedetto Ullano, il quale forse per questo aveva meglio conservato le tradizioni della razza anche nei nomi, onde abbondavano gli Agesilao, i Temistocle, gli Attanasio, gli Ambrogio e persino gli Oloferne e le Penelopi. Agesilao usciva dalla più piccola borghesia; non poteva dirsi nullatenente, perchè la famiglia possedeva un campicello e qualche bestia, e aveva in casa uno zio prete. Suo padre era sarto, e sua madre possidente, secondo attesta l’atto di nascita,2 e lo zio Domenico aveva una scuola pia, come allora si chiamavano le scuole elementari dirette da ecclesiastici, e fu il primo maestro del nipote, il quale a tredici anni entrò nel collegio di San Demetrio e ve ne stette cinque, avendo a compagni, fra gli altri, Antonio Nociti di Spezzano Albanese, Giambattista Falcone di Acri, Guglielmo Tocci di San Cosmo e Attanasio Dramis di San Giorgio. Per la povertà della sua famiglia, si può ritenere che egli godesse il beneficio della piazza gratuita, alla quale aveva diritto ogni comune albanese di Calabria. Vero è che la retta era bassissima, soli ventiquattro ducati (102 lire), anzi i giovani destinati al sacerdozio non pagavano retta. Il collegio ebbe da principio carattere esclusivamente ecclesiastico. E quando crebbero i mezzi per la soppressione del convento dei Basiliani, vi furono ammessi anche laici. Il presidente del collegio era il vescovo albanese, e rettore un prete, albanese egualmente.
Di quanti scrissero del Milano e cercarono indagare circa le cause dell’attentato, nessuno volle o seppe trovarle in due di esse, le più semplici e le sole vere: la razza dalla quale usciva, e il collegio dove venne educato. Questo era un vivaio di giovani esaltati da sentimenti di libertà, da reminiscenze classiche, e da un senso d’idolatria per la rivoluzione francese, sino al punto che si era costituito una specie di comitato di salute pubblica, formato da tre di loro, con l’incarioo di resistere ad ogni atto di prepotenza dei superiori; nè quell’incarico era accademico, perchè contro il rettore Marohianò il comitato scese a vie di fatto, ed uno dei tre lo ferì di coltello. Quel comitato fu composto fra il 1846 e il 1848 dagli alunni Dramis, Milano e Nicodemo Baffa di Santa Sofia, ma chi ferì il rettore non fu Agesilao. L’ambiente del collegio non attenuava gl’istinti impulsivi dei suoi alunni. E quando nel 1848 insorse la provincia di Cosenza, il collegio restò deserto, perché il rettore Marohianò coi giovani più atti alle armi, corse nelle file degl’insorti accampati nella valle di San Martino. Si disse che fosse tra questi Agesilao, che contava diciotto anni, ma non risulta. E i giovani Tocci, Mauro e Chiodi, i quali furono trucidati a Rotonda dai regi, per non aver voluto gridare: viva il re, erano stati alunni del Collegio italo-greco.3
Era questo l’ambiente del collegio di San Demetrio quando vi stette il Milano; e perciò desiderio indistinto e irrequieto di tempi nuovi, reminiscenze eroiche, disprezzo degli agi e dei conforti della vita e sacrifizio dell’individuo alla felicità comune: ecco gl’ideali che animavano quei giovani. Vi si aggiunga un sentimento entusiastico per la rivoluzione greca del 1821 e per gli eroi di essa. Nessuna maraviglia che Agesilao scrivesse a diciassette anni l’ode a Marco Botzaris, esistente tra i cimelii della biblioteca V. Emanuele di Roma e della cui autenticità non sarebbe permesso dubitare, sia per la persona che la vendè alla biblioteca, sia perchè, confrontata con autografi posseduti da Guglielmo Tocci, la mano di scritto ne risulta identica.4 Se l’ode poeticamente e anche grammaticalmente val nulla, ha curiose reminiscenze romantiche, e rivela la conoscenza che egli aveva dei versi del Berchet. Qual meraviglia che, uscito di collegio, il Milano, nel terribile contrasto fra i ricordi della scuola, le esigenze della vita reale e la povertà della famiglia, privo di ogni vocazione per il sacerdozio, si sentisse disadatto a risolvere il problema del l’esistenza, entrasse in qualche cospirazione politica e si facesse soldato? Le disgrazie amorose, che l’avrebbero costretto a lasciare il paese nativo e a non tornarvi più, e il cui ricordo era una spina per lui, non mai stanco di proclamare la propria innocenza, potrebbero aver contribuito alla risoluzione, che legò il nome suo alla storia, così come il piccolo impiego ottenuto a Cosenza presso il fornitore delle carceri, Carlo de Angeiis, gli bastava appena per vivere, solo perchè colà egli alloggiava presso una sua sorella, la quale vi teneva locanda.
Agesilao era dunque in queste condizioni morali, quando decise di sostituire il fratello Ambrogio, sorteggiato nella leva di quell’anno 1866. Circa mezzo secolo dopo, Attanasio Dramis in una violenta polemica, provocata da alcune informazioni mal riferite di Guglielmo Tocci, polemica che si svolse nel Corriere di Napoli del dioembre 1897, affermò alcune circostanze da non doversi trascurare, perchè egli, fuor di dubbio, fu l’amico più intimo del regicida. Affermò dunque il Dramis, che a Cosenza, prima che Agesilao e lui si facessero soldati, si era discusso dal comitato locale se non convenisse penetrare nell’esercito al fine di trovarsi a contatto col comitato centrale, e discutere se "un’iniziativa per bande nelle Calabrie potesse condurre ad un movimento generale delle provincie, che si dicevano pronte di seguire il moto„. E più innanzi: “di regicidio non ai fece mai cenno, neanche fra me stesso e Agesilao, che in quell’occasione mi ospitava in casa sua, dividendo meco il suo tettuccio„. Ma infine il Dramis afferma che, prima di separarsi, il Milano gli propose u a bruciapelo il regicidio, qualora la nostra missione rivoluzionaria fallisse. .. Io mi opposi energicamente a sì funeste tendenze, aggiunge il Dramis, dimostrando la inutilità delle esecuzioni personali, anzi il pericolo che simili attentati potessero riuscire a fare il giuoco del Murattismo allora prevalente nelle provincie nostre„. Pubblioo nei documenti tutte le affermazioni del Dramis.5 Da esse risalterebbe che il Milano avesse l’idea del regicidio, ma solo quando tutto fosse fallito; e che il discorso col Dramis sarebbe avvenuto prima che entrambi entrassero nell’esercito. Sono circostanze di certo importantissime. Ma sottratto al piccolo ambiente della provincia, e venuto a Napoli, le idee di Agesilao si allargarono, perchè a Napoli ritrovò i suoi compagni di collegio Falcone, Nociti e Tocci, studenti; e a Napoli si diede a frequentare la biblioteca borbonica, ora nazionale, dove leggeva a preferenza libri di storia antica, le vite del Plutarco e di Cornelio, destando la curiosità di quanti vedevano questo soldato dei cacciatori immerso per ore nella lettura. Chiedeva anche qualche libro latino. Nessuno seppe da principio chi fosse. Ottavio Serena lo ricorda; e lo ricorda anche il professore Carlo Avena, amendue superstiti. “Poco tempo prima dell’attentato, scrive l’ottimo professore Avena a suo figlio Alberto, un giovane smilzo e mobilissimo della persona, con sguardo penetrante e piccoli baffi, sedette due altre volte accanto a me nella sala di lettura della biblioteca borbonica, oggi nazionale. Quel giovane leggeva anche un volume lodino, e cestiva l’uniforme dei cacciatori di linea. Era Agesilao Milano„.
In Napoli si trovò, forse senza volerlo, in un ambiente potrei dire politico, per il fatto che il Nociti e il Falcone erano amici di Giuseppe Fanelli, ardente mazziniano; e in casa del Falcone, che abitava due camerette a un sesto piano di via Forno Vecchio, si riunivano parecchi giovani albanesi e calabresi, tutti smaniosi di tempi migliori, tutti sognanti la redenzione del Regno, le cui miserie erano tante e ben note a lui, Agesilao, che n’era una vittima. Tutto ciò concorse di certo a determinare la risoluzione temeraria. Visto che non vi era altro da fare, tornò verosimilmente ad accarezzare la vecchia idea che, tolto il re di mezzo, sarebbe assicurata la felicità dei popoli, e che tanta gloria fosse riserbata a un albanese, a un discendente di Scanderberg, ad uno che portava il nome eroico di Agesilao. Gli parve supremamente glorioso votarsi alla morte; e mentre gli altri si perdevano in chiacchiere, egli solo affrontare il re alla lnoe del sole, sul campo di Marte, innanzi all’esercito e al popolo: il re armato e a cavallo, e mandarlo tragicamente all’altro mondo! Tanto bastò per montargli la testa e fargli perdere la visione della realtà. Non fu regicida volgare, no; e nei cinque giorni che visse dopo l’attentato, non ebbe un sol istante di smarrimento o di pentimento: punto commozioni, punto iattanze. Solo disse e confermò ch’egli aveva tentato di ammazzare il re, per fare la felicità dei popoli, nè disse altro sotto i dolori della tortura, alla quale fu sottoposto per ottenere rivelazioni. È pure da notare che nei mesi, i quali corsero dalla venuta di Agesilao a Napoli, all’attentato, parve ridestarsi la coscienza dei liberali per effetto del Congresso di Parigi, delle lotte diplomatiche fra il governo borbonico, la Francia e l’Inghilterra, la partenza trionfale dei ministri di queste due potenze nel novembre dello stesso anno, e i maggiori rigori della polizia a Napoli e nelle provincie. Anche tali circostanze potrebbero avere contribuito; ma cospirazione, ripeto, mancò, perchè mancavano serii elementi cospiratori, come si vide l’anno dopo nella tragica spedizione di Sapri. Si riferì pure che Agesilao dicesse o scrivesse che un giorno o l’altro si sarebbe sentito parlare di un gran fatto, ma il Tocci, che vedeva spesso il Milano a Napoli, e nel quale il Milano aveva confidenza, afferma che a lui non disse mai nulla di simile, ch’era piuttosto sfiduciato e triste, e non di altro sollecito che di proclamare la propria innocenza nelle accuse, che gli furono fatte di aver sedotta la moglie di Oloferne Conforti, che si chiamava Penelope. Il Tocci gli aveva dato a copiare alcune lezioni di procedura penale del Pessina, che ancora conserva. Egli è fortemente convinto che Agesilao agì di sua testa, nè il Dramis lo esclude.
Per il modo come si compì l’attentato, il re e la polizia furono invece convinti che si trattasse di una vera cospirazione militare e civile. Non era difatti verosimile tanta follia di eroismo; e se il re diè prova di sangue freddo, seguitando la rivista e poi tornando a Napoli in vettura, l’impressione che ne riportò fu tremenda. In chi lo vide al ritorno dai campo produsse un effetto strano. Era pallido e agitato, e il sigaro spento gli pendeva dalle labbra. Parve a tutti che avesse fretta di rientrare alla reggia. L’avvocato Michele Giacchi, che lo vide da un balcone di Foria, disse alla famiglia che qualche cosa di grave doveva essere avvenuta; ed era avvenuta difatti, ma con tale rapidità che pochi se ne accorsero. Giovanni Barracco era sul campo con la famiglia, e rammenta che seppero dell’attentato quando furono a Napoli; e il conte di Gropello, che trovavasi anch’egli sul campo, cadde nel suo primo rapporto in alcune inesattezze di fatto, perché fece vibrare un sol colpo dal Milano, mentre furono due, e affermò che il re tornasse in città a cavallo, mentre tornò in carrozza con la regina e il principe ereditario.
Fu grande fortuna che il regicidio non si compisse: un tremendo eccidio avrebbe insanguinata Napoli, perchè i reggimenti svizzeri, fedelissimi al re, credendo all’esistenza d’un complotto fra le truppe indigene, avrebbero tirato su di esse e sulla folla, e rinnovati gli eccidii del 16 maggio. All’eventualità della morte di Ferdinando II nessuno era preparato, e assai meno a una morte in quelle condizioni; e pareva inverosimile difatti, anzi addirittura assurdo che da quell’esercito, descritto più sopra, uscisse un regicida; e nei primi momenti credettero tutti all’esistenza di una cospirazione militare, la quale, morto il re, avrebbe mutato il governo e sconvolta ogni cosa, tanto pareva inverosimile che quello fosse il tentativo di un allucinato. Il contegno del re salvò tutto. Egli non volle che si sospendesse la sfilata delle truppe; continuò ad assistervi e nel pomeriggio usoì con la famiglia, percorrendo le vie più popolose della città, la quale del resto non si abbandonò a nessuna espansione di gioia. Alla Reggia fece subito chiamare il dottor Rosati, il quale notò una piccola scalfittura sotto la mammella sinistra. Essendo il re eccitato, lo rassicurò che non era nulla e gli prescrisse un calmante, che il medico stesso preparò. Il giorno seguente prese dell’antacido e si mostrò calmo, quasi ilare, nel ricevimento delle autorità e del corpo diplomatico, che andarono a rallegrarsi con lui. All’incaricato di affari di Sardegna, che era il Gropello, si affermò che avesse detto ironicamente: "scrivete al nostro carissimo cugino che non è stato nulla, e che sto bene„. Invece parve che particolarmente gradisse l’interessamento premuroso del Gropello, al quale rispose: "che era più che persuaso della sincerità dei sentimenti che il re di Sardegna e il governo piemontese nutrivano per la sua persona„. I particolari di quelle udienze sono interessantissimi, come vennero riferiti dal Gropello nel suo carteggio, con tutt’i particolari che raccolse. Il rappresentante sardo fu addirittura esauriente nelle informazioni, nelle impressioni e anche nei giudizi, punto benevoli per il governo di Napoli che afferma esoso e odioso al paese; per la truppa, che chiama corrotta e malcontenta, e principalmente per la polizia, che obbligava i cittadini a illuminare le case per alcune sere di seguito e promoveva gl’indirizzi di rallegramenti. Non manca qualche inesattezza nelle notizie circa il Milano, che nel primo rapporto chiama "Melana„ e circa i precedenti di lui, ma nel complesso quel carteggio è un documento storico di prim’ordine.6 Ferdinando II era troppo furbo per lasciarsi andare col corpo diplomatico a qualche sfogo, a qualche espressione meno che meditata e ponderata, scriveva a me lo stesso Gropello, poco tempo avanti di morire, benchè la parola sincerità adoperata dal re potrebbe lasciar supporre il contrario. Si aggiunga che il rappresentante sardo fu l’ultimo dei diplomatici, che andasse da Ferdinando II ad esprimergli, d’incarico del re Vittorio Emanuele, i rallegramenti per lo scampato pericolo, e che quella nota fu provocata dallo stesso Gropello, come può vedersi, e non porta la firma di Cavour, presidente del consiglio e ministro degli esteri, ma del segretario generale conte di Salmour.7 È notevole l’insistenza del Gropello nel consigliare l’intervento diplomatico della Francia e dell’Inghilterra per trarre il re e il governo di Napoli dalla falsa via nella quale si erano cacciati.
Agesilao Milano fu impiccato la mattina del 13 dicembre; e l’esecuzione, preceduta dalla solita questua delle sante messe, fu così lunga e lugubre, che strappò le lacrime a molti e lasciò nei soldati incancellabile impressione. Egli cappellano militare che l’assisteva, di non essere un assassino, di non aver complici, secondo il Gropello, baciando il crocifisso e ripetendo le parole: viva Dio, la religione, la libertà e la patria.8 Si disse che il Re inclinasse a far la grazia al Milano, e ne fosse distolto dal partito militare, soprattutto dal Nunziante; ma la cosa non è verosimile, perchè Ferdinando II aveva natura vendicativa, non era facile alla commozione e l’attentato sul campo di Marte lo impressionò così dolorosamente, che da quel giorno non stette più bene. Vero è che in Corte si diffuse la voce che il re volesse far la grazia al Milano e che, nella mattina dell’esecuzione, fosse stato visto piangere. Anzi fu affermato che in anticamera giungesse la voce di Raffaele Criscuolo, il quale, con la consueta familiarità, lo ammoniva così: "Ma se v’aveva da dispiacè tanto, potevate fa a grazia a ’o calavrese: site vui ca cummanate„.9 La domanda di grazia ci fu e la presentò al Re l’avvocato don Giocondo Barbatelli, il quale aveva ufficiosamente difeso il Milano, perchè tre dei maggiori avvocati penali vi si erano rifiutati. Quella domanda, molto caratteristica, si trova oggi nell’archivio privato di casa Scaletta e si chiude cosi: "Giocondo Barbatelli, difensore ufficioso di Agesilao Milano, al piè della M. S. le bacia affezionato e devoto la mano„. Il Re la respinse, anzi non volle neppur ricevere il Barbatelli, che più tardi, mutati i tempi, fu consigliere comunale di Napoli, grande elettore del Sandonato e grande cacciatore di quaglie. I nemici del Nunziante, che lo fecero segno ai più nefandi sospetti dopo la sua condotta nel 1860, dissero pure che egli fosse a parte della congiura del Milano e di questo volesse la morte, per paura che il regicida parlasse. E il De Sivo lo insinua, perchè per lui e per quanti rimasero fedeli ai Borboni, Alessandro Nunziante fu l’uomo più abbominevole della sua età. Vero è che Nunziante e Lecca parlarono con Agesilao dopo l’attentato, dissero pure che egli fosse a parte della congiura del Milano e di questo volesse la morte, per paura che il regicida parlasse. E il De Sivo lo insinua, perchè per lui e per quanti rimasero fedeli ai Borboni, Alessandro Nunziante fu l’uomo più abbominevole della sua età. Vero è che Nunziante e Lecca parlarono con Agesilao dopo l’attentato, ma basterà osservare che Nunziante era comandante dei cacciatori, ai quali apparteneva il regicida, e il generale Lecca era albanese di origine. Il Nunziante non aveva tanto potere, da imporre ad Agesilao il silenzio e al re il rifiuto della grazia. Io escludo in modo assoluto che Nunziante fosse a parte del segreto del Milano o che, peggio ancora, ne armasse il braccio. Ma l’opinione opposta rimane ancora radicata nella testa dei vecchi borbonici, i quali pretendono rintracciarne la causa, che sarebbe stata questa. Nel febbraio del 1855 era morto l’imperatore Niccolò di Russia, già ospite a Napoli di Ferdinando II, cui regalò i due famosi cavalli di bronzo. Il Re scelse Nunziante per rappresentarlo alla incoronazione del nuovo Czar, che ebbe luogo nell’agosto del 1856. Passaporto, credenziali, ordini cavallereschi e doni da distribuire, tutto era ordinato e disposto, e Nunziante riceveva i rallegramenti per questa nuova missione di fiducia; ma all’ultim’ora, si disse per opera della Regina, l’incarico di andare in Russia gli fu tolto e dato al colonnello svizzero Steiger. Di questo il Nunziante fu così offeso, che da quel giorno, mi scrive persona che conosceva lo Steiger ed era nell’esercito, appartenne alla rivoluzione anima, corpo e onore. E avvenuto l’attentato, quattro mesi dopo, i nemici di lui crearono la doppia leggenda. Certo il Nunziante non subì in pace l’oltraggio, e suscettibile com’era, dev’essersi sfogato con contro il re che glie l’aveva inflitto. Fin qui è verosimile e umano; di là, no. Finchè visse Ferdinando II, idee di liberalismo o di voltafaccia non passarono mai per la testa di quell’uomo, e molto meno poteva passar quella di far ammazzare il re: i cortigiani, d’altra parte, usavano la tattica di non far risalire mai al re la responsabilità di tutto ciò che era odioso e commoveva il sentimento pubblico.
Pochi giorni dopo l’attentato fu destituito per telegrafo il mite intendente di Cosenza, Aochille Landi, per aver permesso che Agesilao sostituisse il fratello Ambrogio nella milizia, e destituito il rettore del collegio albanese Vincenzo Rodotà, degnissima persona e riminacciato di chiusura l’istituto, come nel 1852.10 Si creò un commissione inquisitoria per Napoli e Cosenza, con a capo il commissario De Spagnolis, fra i più zelanti. Primo pensiero fu quello di arrestare gli amici intimi del Milano, il Falcone, il Nociti, il Tocci e il Dramis, ma i primi due riuscirono a mettersi in salvo e gli episodii della loro fuga formano davvero un capitolo del quale non va perduta la memoria.
In quei tempi si riuniva nel caffè De Augelis a Toledo un gruppo di giovani liberali, quasi tutti studenti. Ricordo Cesare e Giuseppe De Martinis, di Cerignola; Tommaso Arabia di Cosenza; Giovanni d’Erchia, di Monopoli; Antonio de Santis, di Altamura; Francesco Napoli, di Baronissi e Vincenzo Cosentino, di Palmi. Erano tutti cavurriani e non vedevano salute per Napoli, che nel Piemonte e in Casa di Savoia. Quello stesso caffè era frequentato dal Nociti, amico loro, però mazziniano molto caldo, e in istretti rapporti col gruppo mazziniano di Napoli, onde fra lui e i suoi amici moderati non erano infrequenti le dispute, i dissensi e qualche volta corsero anche i pugni. Tranne il Nociti, nessuno di quelli conosceva il Milano. La sera dopo l’attentato, certo De Stefano, conterraneo e casigliano del Nociti, richiese per questo un asilo a Cesare de Martinis e all’Arabia. Il Nociti si era per un momento rifugiato in casa di un signore inglese, in via di Chiaia. L’Arabia andò a prenderlo lì, e col De Martinis lo condusse prima in casa di Francesco Napoli, e poi presso lo scaccino della chiesa della Concezione a Monte Calvario, albanese anche lui. La polizia ricercava pure il Falcone, ma anche questi si era unito al Nociti. A un tratto, la casa dello scaccino fu visitata dalla polizia, ma i due ricoverati, scavalcando i tetti, potettero rifugiarsi in casa di Vincenzo Cosentino. Però a Napoli non erano sicuri; la polizia li cercava attivamente e su entrambi pose una taglia. Fu allora che, per trovare un asilo meno pericoloso, Giovanni Marini, il De Martinis e l’Arabia si rivolsero a donna Giulia Pandola, vedova del barone Gennaro Compagna. Il Marini ero amico dell’abate Gradilone, aio delle figlie della baronessa e albanese anche lui e liberale, ma soprattutto rispettabile persona. Donna Giulia offerse il castello di casa Pandola, a Lauro, e colà i due fuggiaschi rimasero parecchi giorni. Ma non erano sicuri neanche in quel luogo. Occorreva farli imbarcare a qualunque costo. De Martinis si rivolse a Ferdinando Mascilli, il gran padre dei patrioti e cospiratori, ma il Mascilli, dopo pochi giorni, fu arrestato anche lui. La sua signora, donna Rosalia Cianciulli, per mezzo del dottor Poppi e del Read, corrispondente del Times, ottenne che il Nociti ed il Falcone fossero raccolti sulla Surprise, corvetta inglese, la quale portava da Malta a Napoli la corrispondenza politica. Un barcaiuolo, cui furono date cinque piastre, portò in salvamento i due fuggiaschi a bordo del legno inglese.
Il Falcone scese un anno dopo a Sapri, con Pisacane e Nicotera e cadde a Sanza, gloriosa vittima dei suoi ideali repubblicani, e il Nocito entrò nell’esercito garibaldino, poi nel regolare, ed è morto da pochi anni col grado di colonnello. V’ha chi afferma che l’uno e l’altro sapessero che la gran cosa, cui accennava qualche volta Agesilao, fosse l’uccisione del re, ma non mai come partecipi di una cospirazione, che non vi fu; ma io credo che neppure la sapessero.
Gli arresti furono vere retate in Calabria, singolarmente nei comuni albanesi, e più ancora in San Benedetto Ullano, dove vennero tratti in carcere i cugini Temistocle ed Eugenio Conforti, nonostante fossero nemici a morte di Agesilao, sospettato amante della moglie di Oloferne, loro cugino e condannato ai ferri. Temistocle aveva assalito Agesilao col coltello in pugno, e Agesilao si era dato alla fuga, lasciando il paese, dove non fece più ritorno. Furono anche arrestati i fratelli del Milano, Camillo e Ambrogio, e poi i fratelli Gentile di Paola; Carlo de Angelis, fornitore delle carceri, che aveva avuto il Milano come scritturale; il giovinetto Domenico Marchese di Macchia; il dottor Lelio Gatti, medico di Cosenza e di nota famiglia liberale e quanti, in breve, si sapeva o si sospettava che avessero avuto rapporti col Milano. Furono tradotti a Napoli, in attesa di un giudizio, che non si fece mai. E a Napoli gli eccessi non ebbero limite. Furono carcerati quasi tutti gli studenti della provincia di Cosenza, già alunni del collegio di San Demetrio, e Guglielmo Tocci uno dei primi come si è detto, e contro il quale esisteva inoltre il glorioso, ma pericoloso precedente della morte eroica di suo fratello Francesco Saverio, del quale si è fatto cenno, e l’altro non meno compromettente di suo nonno, pur di nome Francesco Saverio, assassinato dai sanfedisti nei giorni torbidi dell’occupazione francese. Attanasio Dramis, sul quale cadevano maggiori sospetti di complicità, perchè fu trovato una lettera di lui nello zaino del Milano, fu arrestato a Salerno immediatamente. Vennero espulsi dal corpo dei cacciatori cinquantasette fra sottoufficiali e soldati, quasi tutti calabresi, e tratti in arresto due soldati dello stesso corpo, uno dei quali, nativo di San Giorgio e però albanese, era stato compagno di Agesilao nel collegio. Si chiamava Giuseppe Mendicini. Era soldato di leva e figlio di un noto borbonico. L’altro, nativo di Grottole di Basilicata, si chiamava Vitangelo Tangor. Erano compagni di caserma e intimi. Il Mendicini frequentava la casa del Nociti, e una volta vi condusse il Tangor, e un’altra volta vi trovò il Milano, e altri studenti e amici. Che si facessero in quelle adunanze discorsi liberali, è ben verosimile, ma non si ordivano cospirazioni, e assai meno si ordì quella di ammazzare il re. Forse quelle riunioni non sfuggirono alla polizia, anche perchè il Mendicini era di una loquacità compromettente. Ricorda il Tocci che, un mese prima dell’attentato, tornando dalla villa dei baroni Campagna, s’incontrò nel Mendicini, che gli disse: abbiamo parlato tanto dite in una riunione che tenemmo in casa di Nociti, dove intervenne anche Agesilao ed abbiamo trattato di cose politiche. E il Tocci: e lo spirito della truppa qual1 è? E lui: ottimo. Ma il Tocci non ne riportò una seria impressione, tanto gli parvero inconsistenti quelle vanterie.
Il De Spagnolis, che dirigeva il movimento inquisitoriale e che si abbandonò ad ogni sorta di ribalderie, credette di trovare in questi due soldati, ignorantacci e privi di coscienza, degli strumenti utili per strappare rivelazioni anche immaginarie; e dopo averli arrestati e impauriti, li blandì, promettendo loro premii da parte del re, o minacciando severi castighi; e così ottenne denunzie, le quali provocarono altri arresti. Vanno ricordati quelli di Giuseppe Marchianò, di Domenico Francalanza, di Orazio Rinaldi, di Domenico de Stefano, d’Igino Mirarohi, e di tre preti notissimi a Napoli, don Lorenzo Zaccaro, di cui si è parlato; don Stanislao Marohianò, che fu nei nuovi tempi bibliotecario della Brancacciana, e don Antonio Graditone. Questi due erano albanesi, ma di essi solo il Marchiani conosceva il Milano. Gli arrestati furono chiusi in Santa Maria Apparente, in attesa di un processo che non venne mai; e chiuso in custodia speciale il Dramis, cui era negata ogni piccola agevolezza concessa agli altri. I preti riebbero la libertà dopo breve tempo, e per il Gradilone s’interposero personaggi della migliore società.
Vinti dai rimorsi, i due soldati si decisero a ritrattare quanto avevano asserito, sotto forma di suppliche, e il Mendicini inviò le ritrattazioni al generale Lecca, e il Tangor al procurator generale della Corte criminale di Napoli. Le ritrattazioni ed altre carte sono conservate dagli eredi di quel dottor Francalanza, carcerato anche prima delle deposizioni di quei due bricconi; leggendole, si prova un senso di disgusto per l’umana abbiezione, e per le arti, dello quali si valse il De Spagnolis per provare l’esistenza della cospirazione. Ho letto quelle carte procuratemi dal Tocci, e mi sono rimaste particolarmente impresse alcune circostanze addirittura mostruose.
Dopo aver accusato mezzo mondo, quei disgraziati finirono per accusarsi a vicenda. Il Tangor dichiarò: "Mendicini ed io, nell’affastellamento delle tante deposizioni, altro non abbian fatto che calceggiarci (sio). La cosa è stata a chi meglio sapeva combattere, e se io finalmente non gli avessi dato mortale colpo, la pugna sarebbe continuata all’infinito. Egli voleva caricare me ed io ho caricato lui. Mi dispiace solo che per causa di noi due, son venuti a perire tanti innocenti„ Quelle deposizioni sono un miscuglio di bricconerie da bassa caserma. In un punto il Tangor rivela avergli detto il Mendicini, a proposito delle false deposizioni, che provocavano nuovi arresti. Che ce ne f .. degli altri? pensiamo a salvarci noi, che essi se stanno carcerati hanno da manciare (sic). Il Tangor, confessando che la commissione inquisitrice voleva trovare ad ogni costo la complicità del Dramis, disse: Per questo infelice mi si è fatta un’azione sfacciata:... Se hanno piacere che quest’uomo sia condannato, io condannino sì, ma non facessero che lo condanni io... Io diceva no, ed essi dicevano sì; io diceva: signori questo non me l’ha giammai detto Milano, ed essi: e via dillo. Si trattava di dover asserire che il Dramis, nutriva gli stessi sentimenti del Milano, ed era venuto da Salerno per lo stesso fine di uccidere il Re! Glielo fecero asserire e poi sottoscrivere. Mi restava firmare la deposizione egli aggiunse, e più volte restituii senza frutto la penna, ma tante parole persuasive mi furono fatte, che finalmente firmai. E più innanzi confessa che, atterrito dai rimorsi, chiese di vedere il commissario per dirgli che quanto aveva asserito e firmato sul conto di Dramis e Francalanza, era falso, ma il De Spagnolis gli rispose: Quello che tu ci hai detto io e la commissione abbiamo capito ciò che è vero, e ciò che è falso:... che t’importa dei guai degli altri. .. pensa a salvarti tu... noi sappiamo di certo che quelli sono gli infami... Dio sta in cielo e non in terra. Dio non vede i fatti nostri... Tu sei un giovane che hai studiato, e pure credi a tante cose che si dicono. Quanto sei c... e f... Non ci pensare. Mettilo a mia coscienza.. . Io fo tanto pel tuo bene e tu mi fai questo. Io sono stato dal Re, e ti ho rappresentato come un candeliere di oro, (sic!) ed ora mi vuoi fare scomparire. Pensa che tu sei la gemma preziosa di me, e della Commissione. Tu sei la pupilla degli occhi nostri. Pensa a portarti bene, che tutto si fa per tuo utile. E cambiando tono "Non ti disgustare il prefetto. Fa quel che dico io, in opposto ti farò pesare ogni cosa; ti manderò nel Castello di S. Elmo o in quello dell’Uovo e ti farò fare tanto di testa,„: un’alternativa insomma di seduzioni e di minacce, con tutte le volgarità caratteristiche, dialettali e grammaticali, della polizia borbonica, benchè in questo genere di confidenze per eccesso di zelo, strappate a forza tra minacce e strazi morali e materiali, tutte le polizie e tutti i carcerieri più o meno si somiglino, in ogni regime di governo...
Ma furono inviate veramente quelle memorie al loro destino ? E quali effetti ebbero? E che ne fu di quei due soldati? Nè il Tocci, nè altri sanno di più. Certo è che parecchi di quegli arrestati, benchè non vi fosse processo, stettero in prigione fino al 1860, e Ferdinando Mascilli tornò da Capri, come è noto, dopo la Costituzione. Ferdinando II era morto; suo figlio rivelava tendenze miti; Garibaldi aveva strappata la Sicilia ai Borboni, e il continente minacciava di andare in fiamme. Per effetto dell’atto sovrano del 25 giugno, si aprirono le carceri politiche e ne uscirono i prigionieri, e tornavano dall’esilio gli emigrati, ma gli arrestati per Agesilao Milano erano ancora detenuti a Santa Maria Apparente. Occorreva una minacciosa dimostrazione popolare perchè fossero messi in libertà, ma avvenne un impreveduto e disgraziato incidente. Scendendo da Santa Maria Apparente, e giunti al largo Carolino in mezzo ad una gran calca di popolo, che li acclamava, un picchetto di soldati, comandato da un ufficiale chiamato Potenza, credendo che quella dimostrazione fosse diretta al palazzo reale, la caricò alla baionetta. Furono tirati colpi di fucile e caddero varii feriti, fra i quali il Marchianò, e morì un fruttivendolo, che si trovava nella folla.11 Non fu piccolo lo spavento noi quartieri di San Ferdinando e Chiaia, perchè in quello stesso giorno vi era stata la furiosa dimostrazione contro la polizia a Porto, a Vicaria e al Mercato.
L’eco dell’attentato fu profonda in Europa, e non meno profonda l’ammirazione per tanto coraggio e la compassione per tanta tragedia! Tali sentimenti rifulgono non solo nei rapporti del Gropello, ma in varie produzioni poetiche del tempo. Alfonso Casanova, il mitissimo e sempre enfatico Alfonso, intimo del rappresentante sardo, scrisse un sonetto rimasto impresso nella memoria di Giovanni Barracco, cui andò a recitarlo: sonetto ricco di reminiscenze dantesche:
E te di panni illacrimati oinse |
In Calabria corse per le bocche di tutti un inno agli albanesi e ad Agesilao,12 e una terzina, la quale, letta regolarmente, ha un senso; e spezzata, ne ha uno opposto. Eccola:
Un bruto, un empio | Agesilao tu fosti |
L’impressione fra gli emigrati napoletani a Torino e a Genova fu immensa, e il nome del regicida albanese venne portato alle stelle dai giornali e cantato da due esuli, che scrivevano versi: Giuseppe del Re e Biagio Miraglia da Strongoli, e da una poetessa illustre, Laura Mancini Oliva. Il Del Re compose un "Carme„ pubblicato dalla tipografia Bianoardi, e il Miraglia un sonetto, che vide la luce in una sua raccolta poetica e patriottica, e la Mancini un’ispiratissima canzone.13 Il "Carme„ di Del Re levò rumore perchè, a insistenza del Canofari, fu imbastito un processo contro di lui per apologia del suicidio; ma difeso eloquentemente da Giuseppe Pisanelli, da Giacomo Tofano e da Diomede Marvasi, andò assolto. Il "Carme„ vai poco, perchè il Del Re non era poeta, e a titolo di saggio ne pubblico gli ultimi versi fra i documenti.14 Meglio ispirata è la canzone della Mancini15 che vide la luce in un fascicolo senza data, nè indicazione di oittà per non andare incontro ad un processo. Ma una vera apoteosi ebbe Agesilao Milano dopo il 1860. Innanzi tutto il dittatore Garibaldi assegnò una pensione alla madre e alle sorelle di lui, suscitando una protesta di Francesco II alle potenze, datata da Gaeta. E Mariano d’Ayala, che si era fatto iniziatore d’una medaglia oommemorativa di Milano e di Bentivegna, ne scrisse con sentimento e relativa misura nella sua "bibliografia militare„. Il barone Caprara dette alle stampe una immaginaria difesa del Milano avanti la morte; ed altri ed altri, perchè l’argomento si prestava; ma degno di speciale ricordo, venne in luce nel 1863 un poema addirittura, scritto da Giovanni Iatta di Ruvo, padre di Antonio e suocero di Giovanni Beltrani.16 Nel volume dei documenti è pubblicato un elenco di questi scritti, ma non garantisco che sia completo. L’ultima produzione è una tragedia, di cui è protagonista, naturalmente, il Milano, e sono personaggi Falcone, Fanelli, Dramis, Trioli, Isidoro Gentile, e... Ludovico Bianchini. È una delle cose più stravaganti che siano state mai scritte: parlano questi personaggi come tanti eroi dell’antichità.
Dopo l’attentato degli otto dicembre Ferdinando II fece innalzare presso il campo di Marte, al principio della via di Secondigliano, a Capodichino, una chiesa in onore della Concezione a memoria dello scampato pericolo, nonchè una piccola cappella votiva nel posto dove Agesilao gli vibrò i due colpi di baionetta. Gl’intendenti, con ripetute circolari, obbligarono i oomuni a contribuire con offerte alle spese di costruzione di questa chiesa, mentre il gesuita padre Giovannetti chiese e ottenne la daga e il fucile di Agesilao che fuse, e ne fece una statuetta dell’Immacolata, che donò al re, il quale non mostrò di gradire molto lo strano dono. Un altro ricordo. Tra le persone, che assistettero al consiglio di guerra, che condannò Agesilao Milano, fu Augusto Zamboni, intimo del generale Filangieri. Zamboni ritrasse furtivamente con poche linee le sembianze del regicida e nascosta la carta nel cappello, corse a mostrarla al generale, il quale guardò e riguardò quelle linee e volle sapere dallo Zamboni i particolari del dibattimento. E disse in quell’occasione che il re avrebbe commesso un grave errore, non graziando il Milano, regicida non volgare, ma che l’avrebbe commesso. Egli conosceva Ferdinando II meglio di tutti. E della famiglia del Milano credo non vi sia oggi più nessuno. Camillo è morto da poco. Fu prima garibaldino e poi ebbe un impiego nell’amministrazione finanziaria. Vi rinunziò, ritirandosi nel paese nativo, dove si spense a settantasei anni. Mi dicono che viva ancora un’ultima sorella di Agesilao, maritata a un certo Tavolaro.
Ho voluto scrivere una pagina quasi esauriente sull’attentato di Agesilao Milano, che ebbe eco in tutto il mondo, e fu uno degli avvenimenti maggiori degli ultimi anni del Regno: e ho potuto farlo col concorso prezioso del superstite amico di lui, di un uomo, che ha fatto tanto bene alla sua Calabria, rivendicando il vistoso patrimonio del lascito Pezzullo, e dando esempio di iniziative, le quali, se non fruttarono guadagni a lui, concorsero al benessere della sua provincia: Guglielmo Tocci, oramai ottantenne, già deputato per due legislature, e che vive, dopo tanti disinganni, nella maggiore modestia, ma con la fede giovanile nella risurrezione economica e morale della sua regione; convinto ed entusiasta che gli albanesi della Calabria, generosa stirpe dalla quale usci Agesilao, possano rendere grandi servigi all’Italia per una più facile e sicura penetrazione nell’Oriente europeo, oggi che la quistione delle influenze politiche nei Balcani e nell’Egeo si va accentuando, sotto forma di concessioni ferroviarie e di approdi marittimi; e lo storico collegio italo-albanese di San Demetrio Corone, trasformato in un istituto speciale diretto a tal fine, potrebbe rendere servigi assai importanti.17
Il 17 dicembre, a mezzodì, scoppiò la polveriera, posta all’estrema parte del molo militare, ne distrusse la batteria, uccise e ferì alcuni ufficiali e soldati di guardia e non lasciò intatto un vetro solo della Reggia e delle vicine case. Lo spavento della famiglia reale e di tutta Napoli fu enorme. Si affermò che la stessa setta, che aveva indotto Agesilao al regicidio, avesse fatto appiccare il fuoco alla polveriera, il cui scoppio fu invece dovuto a combustione spontanea di alcuni razzi incendiarli, che fabbricava il tenente di artiglieria Bandini, allora direttore della polveriera di Posillipo. Crebbero i sospetti, crebbero gli arresti e crebbero le espulsioni dall’esercito; ma in quella guisa che di cospirazione non si trovò traccia nell’attentato, non se ne trovò nello scoppio della polveriera, in seguito a lunga inchiesta.
Ma due settimane dopo, ai primi del nuovo anno 1857, verso la mezzanotte, mentre terminava lo spettacolo al San Carlo, saltò in aria la fregata Carlo III sul punto di salpare per la Sicilia, carica di soldati e di munizioni. Si spensero i lumi delle strade e quelli del teatro, e la paura fu generale e indescrivibile, perchè nei primi momenti non si seppe con precisione che cosa fosse successo. L’indomani si conobbe che il legno era perduto, ma non tutto l’equipaggio era perito, perchè la corvetta inglese Malacca assai si adoperò per il salvataggio. Nuove e incredibili paure suscitò il nuovo disastro. Anche qui si volle vedere la mano dei liberali e anche qui fa accertato che non vi avevano avuta parte; perchè, ripescandosi più tardi la carcassa del bastimento, si accertò che la porta di bronzo della Santa Barbara era aperta, e la chiave nella toppa: circostanza la quale provò che un tentativo di furto di polvere pirica, fatto da qualche inesperta ladrone, con candela accesa, generò la catastrofe. Ne sembrarono persuase le autorità militari, e il re pensionò la vedova del comandante Masseo, perito nello scoppio e le due figlie di lui. La vedova si rimaritò più tardi al contrammiraglio Cacace; e delle figlie, una divenne moglie del mio amico Beniamino Spirito, deputato. Nella famiglia del Masseo non balenò mai il sospetto che il comandante del Carlo III fosse affiliato alla "Giovane Italia» e, nuovo Pietro Micca, avesse mandato in aria sè e il bastimento per servire alla rivoluzione tentata in Sicilia dal mazziniano barone Bentivegna, che vi lasciò la vita. Un superstite del Carlo III, Carmine Gallo di Moffetta, afferma oggi che quell’avvenimento, l’attentato del Milano e lo scoppio della polveriera fossero eseguiti per opera della "Giovane Italia„. E narra ch’egli fu ritenuto complice; interrogato, arrestato per due mesi e poi congedato prima che scadesse la ferma. Il Gallo è vecchio, ed e verosimile che ubbidisca ad un senso di vanità postuma. Nessuno, dopo il 1860, quando ogni supposta e minuscola persecuzione politica servì di titolo per avere impieghi e onori, si fece innanzi a magnificare quel fatto e a chiederne compenso; anzi, essendo il Masseo strettamente imparentato col D’Amico e col Vitagliano, che presero servizio nella marina nazionale, e che io conobbi abbastanza intimamente, non mai sentii da loro attribuire il disastro del Carlo III che ad una disgrazia. La "Giovane Italia„ non aveva organizzazione, nè forza da tentare un’impresa di quel genere; il partito repubblicano era in piena evoluzione monarchica, e i pochi mazziniani discordi tra loro. Il Masseo aveva fama di distinto ufficiale, ma nessuno mai sospettò ch’egli fosse nelle cospirazioni. Il processo, è vero, non è stato esaminato da nessuno, neppure da Beniamino Spirito, che ne fece richiesta, benchè io sia convinto che non ne uscirà alcuna prova confermante le asserzioni del Gallo, ma vi sono i soliti ridicoli divieti.
I tre avvenimenti, accaduti in meno di un mese, e tutti e tre nel mondo militare, quasi scossero la fede del Re nella solidità e fedeltà dell’esercito: certo ne guastarono il sangue e lo resero vecchio a quarantacinque anni. " Le LL. MM. scriveva Gropello in un suo rapporto del 18 gennaio 1867, sono a Caserta, e tanta è la paura che il loro animo comprese, che non vollero nemmeno che i ricevimenti ufficiali che sogliono sempre tenersi per il giorno natalizio del principe ereditario, avessero luogo. S. M. si è rinchiuso nella reggia di Caserta come in castello fortificato. Nei tre primi giorni del suo soggiorno nemmeno gli ufficiali superiori dei reggimenti acquartierati colà, potevano avere accesso al palazzo. Cinque capitani di cavalleria scelti da S. M. alternativamente a guardia dello sua persona. Senza speciale passaporto, a nessuno è permesso di andare a Caserta, e ciascuno deve far noto il motivo del suo recarsi colà e la durata dei suo soggiorno. In generale le udienze sono rifiutate a quanti le chieggono, ed i pochissimi che le ottengono, sono sottoposti a così minuziose e severe investigazioni, ch'è difficil cosa il figurarselo. S. M. condusse seco 24 guardie a piedi, e volle prima che di costoro si portasse per iscritto garante il comandante del corpo„.
Vi è forse in questo rapporto qualche esagerazione, ma la sostanza n’è esattissima. Gropello era informato di tutto, e la fonte delle sue informazioni egli la trovava nel circolo del conte di Siracusa.
Note
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Nei moti popolari durante l’occupazione francese era stato pugnalato il vescovo greoo Bugliari dai sanfedisti, e nel 1799 vi furono altre vittime.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Id. id.
- ↑ Ma se vi doveva dispiacere tanto, potevate fare la grazia al calabrese; siete voi che comandate.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Id. id, lettera di Guglielmo Tocci.
- ↑ Vol. III, documenti.
- ↑ Id. id.
- ↑ Id. id.
- ↑ Vol. III, documenti.