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che fui a vedere domenica, mi parlò assai assai di te, e mi domandò quante azioni di ferrovia avevi tu preso. Io dissi che lo ignoravo, ma che certo avresti dato il buon esempio. Quest’innocente bugia la scontai, perchè sopravvenne la contessa a cui dovei fare la mia corte, perchè tutti gli altri giocavano. Fu affare di un’ora e mezza e mi fece duemila domande. Ed io ritto come un fazionario! Poi Fiorelli impietosito venne a rilevarmi. Figurati! Sto fuggendo ancora!„.

Il conte d’Aquila era un verace reazionario, che non trovava mai bastevoli le più gravi misure di rigore, e negli ultimi tempi ruppe ogni rapporto con suo fratello don Leopoldo. Ostentava il suo amore per la marina da guerra di oui era a capo, ma stando a terra: il suo maggiore, e credo unico viaggio, fu nel Brasile dove andò nel 1844 a sposare donna Gennaro, sorella dell’imperatore don Pietro II, che alla sua volta aveva sposato, l’anno innanzi, l’ultima delle cinque sorelle di Ferdinando II. È da ricordare che la maggiore di esse andò moglie in Ispagna a Ferdinando VII; la seconda fu granduchessa di Toscana; la terza sposò don Sebastiano di Spagna; la quarta, il conte di Montemolino. La duchessa di Berry era sorella consanguinea di Ferdinando II, essendo nata dal primo matrimonio di Francesco I con Maria Clementina d’Austria. Il conte d’Aquila aveva tendenze artistiche e dipingeva discretamente; e don Francesco Paolo, ultimo dei fratelli, che sposò nel 1860 Maria Isabella di Toscana, frequentava la società e si divertiva ballando. Era il più insulso dei fratelli del re, ma il più affezionato, e più tardi si mostrò il più coerente. Abitava al palazzo reale, ed era conosciuto col nome familiare e burlesco di don Cicco Paolo. Data una famiglia così fatta, nulla di più naturale che, morto il capo, ciascuno prendesse la sua strada. Il conte di Siracusa si condusse come si vedrà; e il conte d’Aquila, mandato in esilio nel 1860 per maneggi reazionari, venne poi a Roma a chiedere danari al governo italiano e al re Umberto, che non ebbe, naturalmente. Io lo conobbi a Parigi nel 1878, in occasione dell’Esposizione, e poi lo rividi a Roma. I legittimisti di Napoli non gli perdonarono che si fosse andato a umiliare al Quirinale; e il duca Proto, altro bell’esempio di coerenza, decretava romorosamente nei caffè di Roma, che don Luigi di Borbone,