La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XII

Capitolo XII

../Capitolo XI ../Capitolo XIII IncludiIntestazione 9 maggio 2021 75% Da definire

Parte I - Capitolo XI Parte I - Capitolo XIII
[p. 255 modifica]

CAPITOLO XII

Sommario: Una burla che fa impazzire la polizia — Il terremoto del 16 dicembre — Vittime e danni in Baailicata — Provvidenze governative rese inutili dalla mancanza di strade — Largizioni in varie forme — I poeti del terremoto e i prosatori — Giuseppe Lazzaro e Salvatore Fenicia — Si bamboleggia innanzi ad un immenso infortunio — Il terremoto spinse il re ad allargare la telegrafia elettrica, non a riprendere le concessioni ferroviarie — La storia di quelle concessioni — Emanuele Melisurgo e i suoi precedenti — Si fa molte illusioni — Il capitolato della ferrovia delle Puglie — Le stazioni e il tracciato — L’emissione dei titoli naufraga — Rivelazioni curiose — I pugliesi e Melisurgo — Non si pagano le azioni sottoscritte — Melisurgo lavora di audacia — Inaugurazione dei lavori a Napoli — La ferrovia degli Abruzzi ha la stessa sorte — Il barone De Riseis e i suoi socii — La rete telegrafica allaccia le provincie — Non si compie prima del 1860 — Alcuni ricordi — Istituzione dei francobolli.


Quello stesso anno 1857 fu contrassegnato da due avvenimenti assai diversi fra loro: uno, di straordinaria audacia che fece disperare la polizia e ridere tutta Napoli, e l’altro che gettò nel lutto e nello sgomento molta parte del Regno.

La mattina del 1 marzo c’era per Toledo un’animazione maggiore del consueto, e gruppi di curiosi, affollati innanzi a piccoli manifesti ufficiali, leggevano questo decreto:

FERDINANDO II.

per la grazia di dio
re del regno delle due sicilie,
di gerusalemme ec.
duca di parma, piacenza, castro ec. ec.
gran principe ereditario di toscana ec. ec. ec.

{{smaller block|class=c90|Essendosi la Provvidenza benignata di accrescere di novella prole la Nostra Real Famiglia, ed annuendo ai consigli amichevoli dei Governi di [p. 256 modifica]Francia e d'Inghilterra, e volendo come per lo passato secondare i moti del Nostro cuore paterno, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

Art. 1. Accordiamo piena amnistia per tutti i detenuti politici giudicati o giudicabili.

Art. 2. Richiamiamo in vigore la Costituzione del 10 Febbraio 1848, da Noi sinceramente giurata sul Vangelo.

Art. 3. Il Nostro diletto Figliuolo il Principe ereditario, è nominato Vicario Generale del Regno.

Art. 4. Saranno immediatamente convocate le Camere chiuse.

Art. 5. Il Ministro Segretario di Stato, Presidente del Consiglio dei Ministri, è incaricato della esecuzione del presente Decreto.

Caserta 28 febbraio 1857. }}

Firmato, FERDINANDO.


Il Miniatro Segretario di Stato delle finanze — firmato, S. Murena.

Il Ministro Segretario di Stato per gli affari di Sicilia — firmato, G. Cassisi.

Il Direttore del Ministero e real segretario di Stato dello interno — firmato, L. Bianchini.

Il Ministro Segretario di Stato Presidente del Consiglio de' Ministri — firmato, Ferdinando Troja.

(Dalla Stamperia Reale).

Possono bene immaginarsi le varie impressioni di chi leggeva. Un ispettore di polizia, letto il manifesto alla cantonata dei Fiorentini, si cavò il cappello e invitò gli altri a fare altrettanto e a gridare: viva il re. Furono due ore di confusione estrema, perchè la polizia, tratta anch’essa in inganno, non osava staccare i decreti, nè li staccò se non quando ne venne l’ordine dal ministero, anzi addirittura da Caserta, perchè il re era a Caserta. E in quelle due ore la baldoria fu grande, e tutti gridavano: Costituzione, Costituzione, e gli agenti erano paralizzati e parecchi atterriti. Il conte di Gropello ne face argomento di un suo rapporto umoristioo al governo di Torino.

La burla non poteva meglio riuscire. Michelangelo Tancredi, che ne fu l’autore, si era procurato dalla stamperia reale parecchie copie di decreti in bianco e aveva fatto comporre, in caratteri e carta pressochè simili, il contenuto del decreto; e poi, con l’aiuto di pochi e fidi amici, aveva incollati i pezzi con tanta arte che non era possibile distinguere, a primo aspetto, che quello fosse un decreto apocrifo, perchè autentiche eran la testata, il bollo, le firme del Re e dei ministri. La mattina alle sette alcuni facchini della dogana, reclutati dai fratelli Carlo e [p. 257 modifica]Niccola Capuano, li affissero e rifiutarono i sei ducati, che il Comitato offrì loro per compenso. La circostanza che la regina si era sgravata in quei giorni di un altro maschio, al quale fu dato il nome di Gennaro Maria, aggiungeva verosimiglianza alla cosa, e più verosimili ancora parevano i consigli della Francia e dell’Inghilterra. Quando la polizia ebbe l’ordine di strappare quei decreti, respirò; ma, per quanto facesse, non riusci ad appurare l’autore della burla, nè i suoi complici, i quali dettero prova davvero di grandissima audacia. Il Re, informato della cosa, ne rise sulle prime; ma si turbò quando, avuto tra le mani uno di quei decreti, vi lesse l’articolo secondo: “Richiamiamo in vigore la Costituzione del 10 febbraio 1848, da noi sinceramente giurata sul Vangelo„.


L’altro avvenimento, col quale si chiuse l’anno, fu eccezionalmente luttuoso. Nella notte dal 16 al 17 dicembre, alle ore 10,10, secondo venne accertato dal direttore del R. Osservatorio astronomico di Capodimonte, Leopoldo del Re, si sentirono a Napoli due scosse di terremoto. La prima durò quattro secondi e, dopo due minuti, fu seguita da un’altra di maggiore intensità, che durò 25 secondi: tutt’e due ondulatorie, nella direzione dal sud al nord. Lo spavento fu grande; però non si ebbero a deplorare vittime, nè danni. Ma quel che la Provvidenza risparmiò a Napoli, dove perciò si resero solenni grazie a San Gennaro e, in segno di riconoscenza, l’anno dopo, ricorrendo il doloroso anniversario, una lunga processione percorse la strada che da Santa Maria in Portico mena a Piedigrotta, non fu risparmiato alle provincie. Il terremoto vi fece vittime numerose; rovinò e distrusse gran quantità di edifizii pubblici e privati; spianò al suolo alcune terre; e, non ostante i tridui e le novene di tutto un popolo esterefatto, si ripetette con scosse più o meno forti sino al marzo del 1858. Le prime notizie, che giunsero a Napoli dalla provincia di Salerno, furono spaventose; ma più gravi ne vennero, poco dopo, dalla Basilicata. Restò celebre, e fu la nota comica in tanta tragedia, il dispaccio telegrafico da Bari che, per interrotta trasmissione, diceva: "Gli abitanti in gran parte si sono ....„ Il re non si mosse, come aveva fatto nel 1851, quando fu distrutta Melfi; ma ordinò che le autorità lo tenessero informato d’ogni cosa, recandosi sui luoghi dove il flagello aveva fatte più vittime; [p. 258 modifica]servendosi dei fondi comunali e provinciali e dei boschi per costruire baracche; soccorrendo i bisognosi e provvedendo di ricovero quanti eran rimasti senza tetto, massime se feriti. Il 21 dicembre fece partire da Napoli per Potenza il Ciancio, ingegnere di ponti e strade e l’Argia, tenente del genio, con 42 artefici militari e 54 di marina, che portarono gran materiale di tele e legname dell’arsenale per costruire baracche. Partirono pure medici e chirurgi e infermieri con biancherie e filacce. Si cercava riparare con la maggior sollecitudine e intelligenza ma il disastro era immenso, soprattutto in Basilicata; e la stagione cruda e la mancanza di viabilità, specie in quella provincia, lo rendeva addirittura terribile.

I morti superarono i diecimila. Nel solo distretto di Potenza, che fu il più colpito, si ebbero 8909 morti e 1126 feriti; nel Principato Citeriore, 1213 morti e 347 feriti; nel distretto di Matera, 60 morti e 29 feriti; in quello di Lagonegro, 266 morti e 203 feriti: uno dei meno disgraziati fu il distretto di Melfi, che ebbe tre morti soli. Gli edifizii, rovinati o distrutti, non si contano. Picerno, Marsiconuovo, Calvello, Viggiano, Montemurro, Tramutola, Saponara, Guardia, Sarconi, Castelsaraceno, Spinosa, Anzi, Alianello furono in gran parte distrutti. Viggiano andò a fuoco e Vignola fu molto danneggiata. I campanili delle chiese rovinarono quasi in tutta la provincia e quelli, che non caddero, rimasero assai malconci. A Brienza si apri la terra attorno la piazza e i morti superarono il centinaio. A Pietrapertosa si temè di peggio, perchè enormi macigni si distaccarono dal monte con fracasso e spavento. La gente errava nell’aperta campagna, atterrita e piangente; i vescovi ricoveravano in luogo sicuro le monache, i cui monasteri eran caduti. A Calvello, per ricordare uno dei tanti casi, rovinò il monastero delle Teresiane, le cui monache furono dall’arcivescovo d’Acerenza e Matera fatte condurre in Acerenza, dove restarono sino al marzo del 1858; e poiché il monastero di Calvello non fu potuto restaurare tanto presto, l’arcivescovo Rossini allogò sette di quelle suore a Gravina, quattro in Altamura e dodici a Matera, nei monasteri dell’Annunziata e di santa Lucia. A descrivere tanti orrori, Paolo Cortese, che poi fu deputato e ministro e negli ultimi anni di sua vita pose in versi nientemeno che [p. 259 modifica]una sentenza della Cassazione, pubblicò nell’Epoca una poesia, che cominciava con questi versi rettorici:

È profonda la notte, alto il silenzio
Delle cose create, e al mesto raggio
De la pallida luna vagolanti
Le presaghe degli avi ombre lamentano
La prossima sventura.... Oh ciel! qual rombo,
Qual tristo prolungato orrido rombo
Tutti riscuote dall’imo letargo! . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Niccola Sole scrisse un commovente Salmo in terza rima che, insieme ad altre sue poesie, fu compreso nella raccolta da lui posta in vendita a beneficio dei danneggiati dal terremoto; una delle migliori cose scritte dalla penna del solo vero poeta che Napoli abbia avuto nella seconda metà del secolo XIX. Il Salmo ebbe fortuna e fu declamato nelle accademie di beneficenza e nei teatri, a beneficio di quei miseri.


La beneficenza in tutte le sue forme si esercitò largamente nella luttuosa circostanza. Si aprirono sottoscrizioni per i danneggiati e si raccolsero più di centomila ducati. Sottoscrissero quasi tutti i vescovi, che, insieme con gli intendenti e i sottintendenti, raccoglievano le offerte dei privati. Il re dette del suo trentaduemila ducati, da distribuirsi ai poveri che avevano più sofferto, preferendo quelli, i quali avevano perdute le piccole industrie e gli utensili dei loro mestieri. Il Ministero degli affari ecclesiastici ne largì ventiquattromila per riparazioni a chiese e a conventi; altri ottomila ducati per riparazioni alle parrocchie e duemilaquattrocento per l’acquisto di arredi sacri. Si costituì un fondo di diciottomila ducati per istituire dieci Monti di pegni nella Basilicata e quattro nel Principato Citeriore. Vero è, che la maggior parte delle beneficenze governative figurarono solo sulla carta. Delle largizioni e dei sussidii raccolti, ben pochi arrivarono a destinazione, nè le autorità si mossero con zelo e sollecitudine. Nei comuni più colpiti non arrivarono, e con scandaloso ritardo, che poche sdrucite coperte di caserme e poche tavole per letti. Ma allora tutti erano rassegnati alle proprie miserie, e i ritardi potevano essere spiegati dall’assenza quasi assoluta di strade provinciali Ma oggi?!...

[p. 260 modifica]Non mancarono accademie e concerti e spettacoli, a scopo di beneficenza. Il 13 febbraio 1858, nell’istituto Batifort e Wambacker di Bari, fu data un’accademia nella quale si distinsero le signorine Margherita Corsi, Annina Guarnieri, Mariannina Dell’Agli, Giustina Lops, Carolina Bianchi, Marietta de Stephanis, Marietta Mandarini e Fulvia Miani. E nel teatrino filodrammatico di casa Craven a Napoli, fu eseguita una splendida rappresentazione di beneficenza, che fruttò quattromila ducati e nella quale presero parte signore e signori dell’aristocrazia. I particolari di questa rappresentazione sono ricordati in altro capitolo.

Nel febbraio del 1858, il totale delle offerte private arrivò alla cospicua somma di 61 889 ducati. Vi furono sottoscrizioni anche all’estero. Il conte Brignole, segretario generale della Società universale per l’incoraggiamento delle arti e dell’industria, la quale aveva sede a Londra, scrisse, nel gennaio del 1858, al direttore del ministero di polizia, Ludovico Bianchini, chiedendogli il permesso di promuovere a Londra una sottoscrizione per soccorrere i danneggiati dal terremoto, non avendo il re di Napoli rappresentante presso la Corte inglese, per la rottura dei rapporti diplomatici tra i due Regni. Bianchini rispose che ringraziava, poiché "la mancanza delle relazioni diplomatiche tra le due Corti non poteva — egli disse — far cessare i rapporti del commercio e dell’industria e, molto più, della civilizzazione e dell’umanità tra i due paesi„; ed espresse pure il desiderio che le somme fossero versate direttamente al Banco di Napoli.


Ma non mancarono neppure a proposito del terremoto, le solite esercitazioni rettoriche, nelle quali la fantasia degli scrittori ebbe largo campo di sbizzarrirsi, descrivendo lo spavento comune. Fuori dei rapporti ufficiali, che enumerano i danni avvenuti, non conosco un solo lavoro, nel quale siano stati riferiti completamente fatti e circostanze, che diano un’idea esatta di quanto effettivamente avvenne, tranne quello di Giacomo Racioppi, che raccolse in un opuscolo gli articoli pubblicati nell’Iride. Raffaele Battista, segretario della Società Economica di Basilicata, stampò una relazione, con qualche cifra statistica e, negli atti dell’Accademia Cosentina, il segretario Luigi Maria Greco pubblicò una specie di raffronto tra gli scrittori, che [p. 261 modifica]parlarono del terremoto del 1851 e quelli del 1857. Il professor Roller, ginevrino, si recò sui luoghi del disastro e di là scriveva lettere ai suoi amici di Svizzera, che furono pubblicate a Ginevra e rivelavano lo stato miserando di quelle provincie, in fatto di viabilità e di civiltà. I racconti dei giornali napoletani erano rettorici o addirittura grotteschi, come quello dall’Epoca, di cui ecco un saggio: "Erano da poco suonate le dieci, quando parve che la terra ondulasse. L’attenzione sospesa un momento, non tardò a farne certi che il terreno si muovesse sotto i piedi, cosicchè la sensazione prolungandosi, tutti giudicarono e videro, che un novello tremuoto veniva a scuoterci dalle fondamenta. Nè passò il tempo in che l’un all’altro dicesse il fatto, quando novellamente i campanelli suonano con più forza, i battenti delle imposte e i lucchetti delle finestre tremano, i vetri scrosciano, le mobilie rumoreggiano, il suolo, le mura, il letto, ogni cosa che ti circonda, viene in preda ad un ondulamento intenso e terribile .... Nè molto durò il fenomeno, nè poco; un trenta pulsazioni. Finito, successe un silenzio di tomba, quello del terrore; indi un vociar di gente che usciva dalle case, e quali piangendo innanzi alle sacre immagini, quali narrando l’accaduto, quali incitando a fuggire, tutto costituiva un fenomeno morale degno delle maggiore considerazione. In un baleno le vie più deserte della città furono popolate .... Colà vedevi disparite le gradazioni sociali; eleganti signore, gentili damerini, persone insomma che sciupano intere ore all’acconciamento della persona, accorse in sulle piazze disadorni e negligenti, di null’altro presi che della vita. Difatti quali avvolti in mantello, quali in iscialli, quali col capo coverto di berretto, qual di cuffia, quale anche nei soli lenzuoli, aspettavano e temevano, dalle membra irrigidite dal freddo della notte. Carrozze di ogni specie, alcune tirate da cavalli, alcune da uomini, servivano di ricovero a’ loro padroni, e questi, fattesene case ambulanti, rannicchiati nei mantelli, dai visi pallidi e stravolti, si guatavano meravigliati e paventavano. Cavalli, vacche, animali di casa, tuttociò che nel timor del pericolo erasi tratto fuori, vedevansi commisti agli uomini in sulle piazze„. E cosi, per molti periodi ancora, diluiva questa mirabile prosa di Giuseppe Lazzaro.

Ernesto Capocci, nella stessa Epoca, ricercava [p. 262 modifica]scientificamente scientificamente le cause dei terremoti, e nell’Iride si studiava di consolare i napoletani, affermando che essi hanno un segno sicuro del prossimo terremoto nel Vesuvio, poichè, quando questo tace il terremoto è vicino. Ma, nella ricerca delle cause dei fenomeni sismici, toccò il colmo della comicità il cavalier Salvatore Fenicia di Ruvo, più comunemente noto col nome di presidente Fenicia: singolar tipo, che rammentava il don Ferrante del Manzoni. Era un letterato sui generis, perchè tirava giù prose, versi, drammi e tragedie in una lingua incomprensibile; stampava volumi da riempirne una biblioteca ed era in relazione con principi regnanti e imperatori, ai quali inviava in dono le sue opere e splendidi vasi fittili italo-greci, che traeva dalle sue terre di Ruvo e ne riceveva, in ricambio, decorazioni e nomine accademiche.

Era il suddito forse insignito di maggiori onorificenze, delle quali faceva pompa nelle occasioni solenni, quando vestiva la sua uniforme con relativo spadino e cappello piumato. Egli era il presidente Fenicia, ma nessuno sapeva davvero a che presedesse. Viveva a Ruvo, dove morì vecchio dopo il 1860. Non lasciava passare avvenimento, anche mediocre, senza dedicarvi qualche suo sproloquio. Aveva molto letto e la sua testa dava l’immagine di un arsenale in disordine; la sua cultura archeologica era farraginosa; superficiale e antiquata, quella nelle scienze naturali e in astronomia, pur in esse credendosi profondo. Spesso pubblicava, in appendice ai suoi libri, le lettere che uomini eminenti gli scrivevano, nelle quali con tono ironico che egli non capiva, gli facevano le lodi più strane. Udite il sonetto di due quartine e tre terzine, che pubblicò sul terremoto del 16 dicembre, da lui definito tosse della terra:

In anormal effidrosi non guari
La terra fuor cacciò tal traspirato,
Che ne fe’ colmi e polle e fiumi e mari
In modo ch’esondar nell’abitato.

E perchè strana causa irregolari
Effetti di produr è dimostrato,
Di morbi n’apparir aspetti rari,
E il sistema mondial fu sconcertato.

Per l’acqua imputridita agl’infusori
Vasto campo s’aperia; e quindi guerra
Esizial menar d’invaditori.

[p. 263 modifica]

Per l’acqua percolata in essa terra
Ostrutti ne restar meati e pori,
Ch’il tossire sgorgò di sottoterra.

Il tremuoto perciò di lei n’è tosse,
Che, qual quello che i petti affanna e scuote,
Caccia gl’intoppi con boati e scosse.


Il Nomade ironicamente osservava: "Non vogliam tacere, che la spiegazione del Fenicia è derivata dal suo nuovo sistema che facea noto, ora è qualche anno, ai dotti del Regno e stranieri un sistema por il quale il colera non sarebbe altro che la crittogama delle uve„. Altri poi proponevano ingenuamente dei rimedii, e per un anonimo compilatore dell’Internazionale, una misura di prevenzione contro i terremoti doveva consistere nell’aprire, alle falde del Vesuvio, pozzi profondi, i quali penetrando sino alle visceri del monte, servissero di succursali alla bocca, che la natura vi ha aperto su in cima .... Cosi si bamboleggiava di fronte ad un immenso infortunio.


Se il gran disastro del terremoto spinse Ferdinando II a dare una forte spinta alla telegrafia elettrica, non lo mosse a resuscitare il problema più vitale delle costruzioni ferroviarie, messo a dormire da un anno, dopo tante speranze e illusioni. È da ricordare che, con decreto reale del 16 aprile 1856, egli aveva concesso la costruzione e l’esercizio della ferrovia delle Puglie, da Napoli a Brindisi, all’ingegnere Emanuele Melisurgo di Bari, figlio di Spiridione, e uomo di geniale talento. Si disse che dietro il Melisurgo stesse il d’Ajout, e che Rothschild fosse la parte principale dell’intrapresa: affermazioni che i fatti dimostrarono insussistenti. Da tutti i documenti da me consultati, unioo concessionario appare il Melisurgo, il quale firmava in questa qualità. Il nome del d’Ajout, che in quell’anno era tornato a Napoli con un progetto di credito fondiario, non ricorre mai. Il Melisurgo apparteneva ad una di quelle famiglie greche, che calavano assai di frequente nel Reame, proveniente non dall’Epiro, ma da Candia. A Bari i Melisurgo erano dalla fine del 1600 e qui furono tenuti in grandissimo conto. Poi si trasferirono a Napoli, dove più tardi furono iscritti nel libro d’oro del patriziato. Emanuele Melisurgo era bellissimo della persona, e aveva il fascino della parola, tanto che in uno dei [p. 264 modifica]colloquii con Ferdinando II, questi gli disse: va, vattenne, si no faccio comm’e femmine, te dico di sì.1 Gli diè la concessione, ma attraverso una selva di diffidenze. Il Melisurgo aveva avuta una gioventù avventurosa, viaggiando in Franoia e in Inghilterra, guadagnando molto e molto spendendo, perchè viveva da gran signore. Nel 1848 fu deputato, fondò l’Arlecchino e fatto prigioniero, il 16 maggio, fu sul punto di essere fucilato. Fuggì in Inghilterra e ne tornò nel 1853, in seguito a premure del governo inglese, e si mise al lavoro por la concessione della ferrovia delle Puglie, che finalmente gli fu data.


Pubblico nel terzo volume il capitolato di concessione, che rivela tutta una miniera d’ingenuità, che allora teneva il campo in fatto di concessioni ferroviarie. Il Melisurgo era sicuro di raccogliere il capitale, preventivato in ventidue milioni di ducati, fra i proprietari delle cinque provincie, che la linea avrebbe attraversate o lambite. Ragionava così: le provincie interessate hanno una popolazione di circa tre milioni di abitanti: su questi ve ne sono non meno di cinquantacinquemila che "abbiano il potere di prestare ducati cento all’anno, versati in piccolissime rate, e pel solo giro di anni quattro; negare questo significa mentire a sè stessi; significa supporre che un paese eminentemente ricco di preziose produzioni, sia un deserto di steppe; significa ignorare la potenza metallica del nostro paese ch’è la prima fra le prime di Europa!...„.2 Prendendo dunque ciascuno dei cinquantacinquemila quattro azioni di cento ducati, il capitale era bello e fatto, e di danaro forestiero nessun bisogno. A questo capitale si lasciava sperare un interesse massimo del dodici e un quarto percento, e si garantiva l’interesse minimo del cinque. Il Melisurgo chiudeva il suo programma con queste parole a sensazione: "Vi è da esitare? No, a meno che non vogliasi negare la luce del giorno, e misconoscere il beneficio, che ci è dato di fruire! Vi è quindi a temer pericolo? Niuno. Io ho religiosamente adempite al dovere di onesto uomo, che ama anzitutto la gloria del sovrano, [p. 265 modifica]ed il bene del tuo paese. Il pubblico corrisponderà a sì nobile invito. Alla prova dunque„. E annunziava che la sottoscrizione si sarebbe aperta dal 30 maggio al 20 giugno di quello stesso anno 1855. La cauzione di centomila ducati la trovò in Inghilterra.


Che delusione! Dei cinquantacinquemila cittadini, che dovevano formare il capitale, non se ne trovarono mille. Nessuno preferì investire la rendita, il cui saggio ben superava la pari, in azioni della società ferroviaria che prometteva di più. Dal carteggio dei Casanova balzan fuori rivelazioni piccanti a proposito degli azionisti. Il ricco duca di Casalaspro sottoscrisse per dieci azioni; il conte e la contessa di Conversano per quattro; per dodici Curtopassi; per venti Antonacci, che fu nominato della commissione di vigilanza, come si chiamava il consiglio di amministrazione; non sono rammentati i banchieri napoletani ed esteri. Chi si adoperò molto a raccogliere sottoscrizioni fu Francesco Paolo Martinelli di Monopoli, cognato dell’Antonacci, e gli altri due cognati residenti a Trani, Giuseppe e Vincenzo Beltrani, benohè in quell’anno stesso i Beltrani avessero preso l’appalto del nuovo porto di Bari. Ci voleva ben altro! Visto l’insuccesso in Puglia, Melisnrgo corse laggiù per rialzare il credito dell’impresa, ma non ebbe fortuna. Lecce promise un concorso di due milioni, per il prolungamento della linea da Brindisi al capoluogo. Melisurgo non si diè per vinto, ma tornato a Napoli, non nascose i suoi tristi presentimenti. Gli piovevano domande d’impieghi e di appalti assai più che non piovessero sottoscrizioni, onde Cesare Casanova poteva scrivere al cognato Antonacci, in data 7 luglio:... "insomma in Napoli fino a che si è trattato di sottoscriversi, nessuno v’ha creduto, tutti hanno gridato la croce a Melisurgo; ora che si vogliono impieghi, la strada è certa, e Melisurgo un eroe!...„. E in altra lettera del 27 luglio malinconicamente... “E la strada? Ti dirò in confidenza che noi siamo sconfidati, e pare che a sconfidarsi incominci lo stesso Melisurgo. Anche voi in provincia, e siete forse piò interessati, avete fatto un fatto completo, e tu stesso lo confermi nella tua ultima a mammà. Dunque vergogniamoci tutti senza invidia l’uno dell’altro, e mettiamoci in testa che il vero ostacolo al meglio siamo noi stessi„.

[p. 266 modifica]Aveva ragione, ma in parte. Quelle provincie, e con esse tutto il Regno, non erano economicamente in grado di realizzare il capitale necessario all’impresa. Povertà e avarizia, ma soprattutto diffidenza, giustificata un po’ dai patti del capitolato, dei quali basterà ricordare alcuni: il concorso del governo a forfait, e limitato a soli cent’ottantamila ducati per cinquant’anni, sopra una concessione che ne durava ottanta: somma data a titolo d’incoraggiamento, non come assicurazione degl’interessi del capitale, e da pagarsi per quote, a misura che procederebbe il lavoro per ogni miglio di strada; cauzione di trecentomila ducati, e trasporto gratuito delle truppe e loro bagagli. Si aggiunga che la spesa preventivata a ventidue milioni di ducati, pari a cento dieci milioni di lire per la costruzione a doppia rotaia, armamento ed esercizio di oltre quattrocento chilometri di strada, era fatto non sulla base di un piano generale e preciso dell’opera, nonchè dei vari progetti d’arte, ma di uno studio di massima. Nel capitolato solo si conveniva che i capilinea sarebbero stati Napoli e Brindisi, e che la linea doveva passare per Avellino, Foggia, Barletta e Bari: e queste sei erano le stazioni di prima classe; non determinate definitivamente quelle di seconda e di terza. "Dallo stato enunciato dei lavori a cottimo„ sottoscritto dal Melisurgo, quale concessionario e intraprenditore, si rilevano alcune curiose notizie. La linea doveva distaccarsi da Sarno, e mercè una prima galleria penetrare nella valle di Montoro; e mercè una seconda sotto il monte Tappolo, toccare Avellino. E prolungandosi fra la consolare e il fiume Sabato, a destra di Pratola, pel vallone di Marotta doveva entrare nella valle del Calore, toccare Taurasi, Mirabella e Grottaminarda e sboccare. mercè un traforo, nella valle dell’Ufita; e attraversando il vallone di Stratola in vicinanza di Ariano, per un altro vallone detto di Vastavina, ed un altro non lungo traforo sbucare nella valle del Cervaro; e di là non discendere al ponte di Bovino, ma più ragionevolmente prendendo a sinistra, mediante una quinta galleria, raggiungere Troja. Da qui la linea, seguendo il suo andamento naturale, scenderebbe a Foggia, e poi via via a Cerignola, Barletta, Trani, Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo, Bitonto, Modugno, Bari; e da Bari a Mola per Capurso e Noia; e da Mola per Conversano a Monopoli; e di qui, tenendosi sempre a destra, per Fasano, Ostuni e San Vito; e infine volgendo a sinistra, a [p. 267 modifica]Brindisi. Linea nel suo complesso più razionale della presente, ma studiata sulle carte militari e con pochi rilievi di campagna, e che poteva dar luogo a molte sorprese sul passaggio dell’Appennino, tanto che rimaneva ancora da decidere, se, sboccata la linea nella valle del Cervaro, dovesse piegare per Troja, o proseguire lungo il Vallo, per il ponte di Bovino e Giardinetto. L’impresa si obbligava a fornire le locomotive meglio conosciute, e che dovranno consumare il fumo: locomotive in proporzione di una per ogni cinque miglia.


Nonostante l’impreveduto insuccesso dell’emissione, e delle pratiche che l’impresa tentava per avere il suolo gratuito. Melisurgo non si smarrì. Egli somigliava al Manzi, concessionario delle linee pontificie: lo stesso talento avventuroso e audace. Prese in fitto il palazzo Amato a porta Costantinopoli per sede della Società; e accreditò la voce che sarebbe venuto a dirigere i lavori nientemeno che l’architetto Brummel, l’audace autore del tunnel sotto il Tamigi; s’iniziarono non senza energia i lavori di dettaglio, che in provincia di Bari vennero affidati agl’ingegneri De Judicibus e Cafaro, sotto la direzione dell’architetto Sergio Pansini; cominciarono i primi piati contro i progettati esproprii, e fu fissata l’inaugurazione solenne dei lavori a Napoli, con l’intervento del re, e forse dell’imperatore d’Austria, per il giorno 12 gennaio 1856, compleanno del sovrano; e poi il 26 febbraio, e infine agli 11 di marzo dello stesso anno. I Casanova sollecitavano il cognato Antonacci a trovarsi a Napoli, per quel giorno, essendo egli membro, come si è detto, della commissione di vigilanza.

Quella di Napoli era formata, oltreché dall’Antonacci, dal principe d’Ottajano, dal barone Stanislao Barracco, dal barone Luigi Compagna, da Carlo di Lorenzo, da Luigi Balsamo, da Gaetano Amato, da Francesco del Giudice, da Enrico Alvino e da Fausto Niccolini. Si avvicinava il gran giorno, e una deputazione andò a pregare il re di assistere alla inaugurazione, e con grande stupore il re rispose con un rifiuto, che doveva essere come il colpo di grazia dell’impresa. Nonostante, la cerimonia vi fu, ma riuscì un mezzo mortorio, a giudicarne della più che succinta, arida relazione del Giornale Ufficiale. Solo il Poliorama Pittoresco ne scrisse copiosamente; e si deve a quel giornale se [p. 268 modifica]si sa che la cerimonia si compì non a Sarno, o a Brindiai, ma sulla strada dell’Arenaccia presso la chiesa della Madonna delle Grazie, in un apposito recinto, con tutt’i particolari lirici e ingenui della cerimonia.3 Monsignor Carbonelli, delegato dal cardinal arcivescovo, benedisse la prima pietra, che fu anche l’ultima. Incalzavano le cattive notizie. I sottoscrittori delle azioni si rifiutavano a pagare le quote allo scadenze; e i primi a darne l’esempio furono quelli di Foggia, perchè, cosa naturalissima, ma non abbastanza preveduta, essendo pugliese il Melisurgo, le maggiori avversioni contro di lui erano nelle Puglie, proprio là dov’egli contava raccogliere il maggior numero dei suoi cinquantacinquemila azionisti immaginarii. L’invidia, piaga organica e incurabile della razza, ispirava quelle opposizioni. Come mai, si diceva, un ingegnere barese era improvvisamente salito così in alto, e divenuto uno dei maggiori personaggi del Regno? E qui dicerie calunniose da parte dei suoi conterranei, nel tempo stesso che cercavano di accapparrarsene il favore! In Corte seguitavano a chiamarlo il giacobino, insinuando sospetti o malignazioni o ricordando i fatti del 1848. Non è dunque maraviglia che, sul finire del 1855, della impresa sorta fra tante illusioni e poesie, non rimanesse più nulla, altro che una selva di piati giudiziarii, non ancora finiti, e nove fasci di scritture relative a quell’affare nel grande archivio di Napoli!


Il Melisurgo era in buona fede. Egli si augurava che in ogni caso, quando tutto fosse andato a male, avrebbe aiutato il governo, ma s’ingannò. Fosse paura o pentimento, Ferdinando II fece decadere egualmente la concessione della ferrovia dell’Abruzzo, accordata al barone Panfilo de Riseis nell’anno istesso. Dietro al De Riseis si assicurava che fossero i banchieri Meuricoffre, Forquet, Giusso e Iggulden; e che Rothschild avesse accettato di entrare nella combinazione, anzi di essere il garante degli azionisti; che insomma si era assicurato tanto danaro, dicevasi, che la soscrizione si sarebbe fatta solo per formalità. Oltre alle case bancarie su riferite, il concessionario De Riseis si aveva assicurato il concorso del principe di Torella, del barone Bonanni, del procuratore generale Falconi e anche di Alessandro Nunziante [p. 269 modifica]e versata la cauzione in centomila ducati. E si spiegava il concorso del capitale estero col fatto, che la linea degli Abruzzi, da doversi allacciare sul Tronto alla pontificia, era considerata come complemento alla rete delle strade ferrate di Europa, mentre quello delle Puglie veniva ritenuta tutta napoletana e interna. Ebbene vi furono delusioni anche qui: i capitali esteri non si videro; Rothschild, Meuricoffre, Lafitte, Forquet, non comparvero; scomparvero il principe di Torella, Falconi e Bonanni, e si disse che fossero soli socii del De Riseis il barone Corsi, Giovanni Cassitto, Raffaele Mezzanotte e don Antonio Monaco, i quali non avevano come il Melisurgo precedenti liberali, onde è da ritenere che Ferdinando II si spaventasse così dei prevedibili insuccessi finanziarii delle due concessioni, come delle conseguenze politiche. Non era avvenuto altrimenti per la costruzione delle strade provinciali in Sicilia, al tempo di Filangieri. E così le Paglie e gli Abruzzi seguitarono ad essere uniti a Napoli dalle sole strade consolari costruite da Giuseppe Bonaparte e da Murat, e non tutte sicure da banditi! Fu una delusione generale, ma il re non se ne afflisse, né di ferrovie si parlò più. Cadde anche in quell’anno stesso, mentre pareva assicurata, l’istituzione di una banca di assicurazione o di credito fondiario, messa avanti dal D’Ajout, sotto la direzione del signor Bidaut, che si diceva 2988i versato nella materia. Il credito fondiario si sarebbe fatto al sette e un quarto per cento, ammortizzando il capitale in quindici anni. Chi non vorrà migliorare i fondi con sì belle condizioni? esclamava un noto giornalista. Ma il D’Ajout non ispirava più a Ferdinando II la fiducia di prima, e le parole dette dal re sul conto di lui al marchese Antonini nel 1852, e da questi riferite nel suo diario, ben lo rivelano. Si noti che tutto ciò avveniva nell’anno stesso del Congresso di Parigi e dell’attentato di Agesilao Milano.4


Ma per l’allargamento della "Telegrafia elettrico-magnetica„, di qua e di là dal Faro, le cose andarono altrimenti. [p. 270 modifica]Ferdinando II lo volle, e innanzi tutto fece redigere un regolamento per l’impianto e il servizio, nei primi mesi del 1858. Intanto è da sapere che in quel tempo le città marittime usavano il telegrafo ad asta, e i rari fili elettrici che univano la capitale a Caserta, a Capua ed a Gaeta, servivano, quasi esclusivamente, al governo ed alla Corte. Non sempre e non tutti quegli ufficii telegrafici erano aperti al servizio dei privati, anzi erano rarissimi. Ma nel 1858 le stazioni telegrafiche aumentarono rapidamente, e le limitazioni poste all’uso del pubblico non furono più rigorose. Il regolamento ripartì il territorio delle provincie continentali in sette divisioni telegrafiche, suddividendo gli ufficii compresi in ciascuna di esse in tre classi. La prima divisione, da Napoli a Nola, comprendeva diciassette stazioni. Napoli ne contava tre: alla reggia, a San Giacomo ed alla ferrovia; due, Caserta, alla ferrovia e alla reggia; due, Capua: alla ferrovia e al gran quartiere. Appartenevano alla prima divisione le stazioni di Cancello, Maddaloni, Santamaria, Nola, Palma, Sarno, Favorita, Castellammare, Quisisana e Ammiragliato; e vi si aggregarono, poichè la linea delle Puglie non era ancora compiuta, le stazioni dì Avellino e di Ariano. La seconda divisione, da Capua a Terracina, contava gli ufficii di Terracina, Mola, Gaeta e Torre Orlando. Cinque stazioni aveva la terza divisione, da Nocera a Potenza: Nocera, Cava, Salerno, Eboli e Cosenza; tre la quarta, da Eboli a Castrovillari: Sala, Lagonegro e Castrovillari; e tre la quinta, da Castrovillari a Paola: Spezzano Albanese, Cosenza e Paola. La sesta divisione, da Paola a Pizzo, contava le stazioni di Nicastro, Tiriolo, Catanzaro e Pizzo; tre l’ultima, da Pizzo a Reggio: Monteleone, Palmi e Reggio. Di queste stazioni, otto appartenevano alla prima classe, dieci alla seconda e ventuno alla terza. Non era permesso ai privati di servirsi del telegrafo negli ufficii di terza classe, eccettuati quelli di Santamaria, Capua, Eboli, Ariano, Lagonegro, Rossano, Nicastro e Monteleone. La tassa minima era per venticinque parole e non progrediva parola [p. 271 modifica]per parola, ma da venticinque a cinquanta, e da cinquanta a cento. Per l’indirizzo ai concedevano cinque parole, che non venivano calcolate.


Il 25 gennaio 1858 venne inaugurato il telegrafo elettrico sottomarino tra Reggio e Messina, e il 27 fu messo a disposizione dei privati. Ecco in quali termini, quasi venti giorni dopo, la Verità, giornale del prete don Giuseppe Scioscia di Pescopagano, descriveva la cerimonia dell’inaugurazione: “L’elettrico libero si gittò forse nei giorni antichi su i campi or detti Reggiani e Messinesi, e li disgiunse fra loro, e fra loro sospinse le onde del Tirreno, che corsero ad abbracciarsi con quelle deìl’Jonio. Allora non era nata la scrittura, e la storia non ha potuto tramandare a noi ciò che i marmi inscritti non avevano rivelato a lei. Ora nuovo prodigio e faustissimo appare in que’ lidi. Lo stesso elettrico, non già libero, ma schiavo della scienza, ricongiunge Reggio a Messina, Scilla a Cariddi, Cannitello ai Canzirri di Sicilia; sì che la parola va dall’una all’altra sponda più ratta del vento, anzi sulle ali del fulmine muove da ogni parte d’Europa a Napoli ed a Messina. Ciò si ottènne al grido mille volte ripetuto di Viva il Re, in sole due ore e mezzo del giorno 2& del p. p. gennaio, nel quale breve tempo felicemente fu immerso il filo elettrico nel Faro di Messina„. E seguiva la gonfia prosa, che chiudeva con una più ampollosa epigrafe latina. La Verità era un foglio pugnacemente borbonico. Oltre a don Giuseppe Scioscia, vi scriveva quel canonico Caruso, odiato rettore del Collegio medico, il quale ne era pure l’amministratore.

Le inaugurazioni degli uffici telegrafici erano fatti con pompa. V’intervenivano le autorità civili, le religiose e le militari; il clero benediceva le macchine, mettendole sotto la protezione della Madonna o di un santo. Il primo telegramma era un doveroso evviva al re. Si sceglievano occasioni solenni per le inaugurazioni, come gli onomastici di principi della famiglia reale, o feste di Stato, o solennità religiose, e le cerimonie si somigliavano tutte. Il 19 agosto 1858 ebbero luogo le inaugurazioni degli affidi telegrafici di Procida e Pozzuoli; il 10 novembre, di Otranto e di Trani; l’8 febbraio del 1859, di Molfetta e, nell’ottobre dello stesso anno, di Chieti e di Gallipoli, dove recitò un [p. 272 modifica]enfatico discorso il giovane sottintendente Andrea Calenda, poi prefetto del regno d’Italia e senatore, Quella di Molfetta io la ricordo. Venne fatta non nella cattedrale, ma nella parrocchia di San Gennaro, prossima all’ufficio telegrafico. Dal pergamo il giovane canonico Giovanni Panunzio, allora nei fiore di una vita che non ebbe mai posa, recitò un discorso che non ho dimenticato attraverso tanti anni: tutto fatto ad immagini e riboccante di fede nel progresso. Erano presenti il sindaco, i decurioni, il capo urbano don Giacinto Poli, il console austriaco Ignazio Fontana e il vescovo, monsignor Guida, circondato dal capitolo della cattedrale e da tutto il seminario, alunni e professori. Panunzio era uno di questi. La festa di Molfetta ebbe importanza speciale, perchè il re e la Corte erano a Bari, dove, cinque giorni prima, venne celebrato il matrimonio del duca di Calabria; e Molfetta, che invano aveva atteso il re nell’andare, l’attendeva nel ritorno, per cui era stato costruito sulla spianata detta del Calvario, un arco trionfale che portava scritto sul frontone: Al Re Ferdinando II, la devota Molfetta.


I francobolli postali furono istituiti con un decreto del re, in data 9 luglio 1867, controfirmato da Troja e da Murena, decreto che imponeva l’obbligo di affrancare giornali e stampe, ma quanto alle lettere e ai plichi era in facoltà di chi li spediva pagare lui la spesa, applicandovi i francobolli, o farla pagare al destinatario, inviando la lettera o il plico senza affrancarli5 Il bollo si annullava con un timbro nero, che portava impressa la parola: annullato. Furono create sette specie di francobolli, da mezzo grano, da 1, da 2, da 6, da 10, da 20 e 50 grani. Nell’interno del Reame ogni lettera di un foglio era soggetta ad un bollo di due grani; ogni lettera, nella stessa città, ad un grano. Lo stesso decreto stabiliva pure tre spedizioni postali per settimana nell’interno, e sei per Terracina, cioè Stato pontificio. Disponeva, infine, che oltre i procacci attuali (piéton) sarebbe stabilito un piéton en poste, che partirebbe una sola volta la settimana da Napoli a Lecce, da Napoli a Teramo, da Napoli a Campo basso e viceversa.

[p. 273 modifica]Prima di adottare definitivamente un tipo di francobollo, furono proposti varii disegni al governo. Uno dei primi disegni, che non si è finora riuscito a determinare se sia stato inciso a Napoli, o da un tal Lefebvre in Inghilterra, rappresenta ìa testa di Ferdinando II, che non si sa, se per caso o ad arte, l’incisore fece somigliantissima al profilo di Tiberio. Comunemente vi erano rappresentati i gigli, il cavallo e la Trinacria. La prima emissione dei francobolli sul continente avvenne nel Capodanno del 1858. Li incise Luigi Masin di Napoli, e li impresse a colore su carta filigranata Gennaro de Majo. Avevano una grandezza da 42 per 29 millimetri e durarono in uso sino al 1° aprile del 1861. Per rispetto alla sacra immagine del re, il timbro d’annullamento si metteva sulla parte del francobollo, dove si vedeva rappresentata la Sicilia. Erano di vario colore, però esclusi il verde o il rosso, che potevano prestarsi a combinazioni o a manifestazioni politiche, secondo una lettera ufficiale del ministro delle finanze al luogotenente di Sicilia, in data 23 novembre 1857. E il 28 febbraio 1858, Ferdinando II, con decreto datato da Gaeta, approvò i tipi di francobolli anche per la Sicilia, e l’effigie di lui fu incisa mirabilmente dall’Aloysio Iuvara. Molte notizie sulla istituzione dei francobolli e più sul servizio postale nel Regno furono raccolte da Enrico Melillo in un volume, che vide la luce undici anni fa.6 Sono molto curiose e alcune interessanti sui viaggi, gl’itinerarii e le fermate. Con l’ordinanza del 19 gennaio 1858, si stabilì il nuovo orario, indicando le ore da impiegare per le sei linee principali, cioè Puglie, Calabrie, Abruzzi, Molise, Sora e Terracina, Il cammino di Puglia doveva compiersi in cinquanta ore all’andata e cinquantadue al ritorno; quello di Calabria in ottanta, di Abruzzo in ventotto, di Molise in tredici, di Sora in quindici e di Terracina in quattordici. Ed era il modo più celere e più comodo di viaggiare! La posta partiva tre volte la settimana e solo per Terracina, cioè per Roma, sei volte. Le partenze del sabato da Napoli avevano luogo alle due dopo la mezzanotte, per dare il tempo ai corrieri e ai passeggieri di assistere alla messa nella cappella del Palazzo Gravina. Vi erano anche linee minori o traverse, ma poche, le quali completavano la rete principale, che durò invariata sino a dopo il 1860, Nell’interno [p. 274 modifica]delle province la posta penetrava faticosamente, e non eran pochi i comuni, che la ricevevano una volta la settimana, se pure. Non vi erano ufficii postali, e io ricordo che il cancelliere del comune distribuiva le lettere e le ritirava. Non è da paragonarsi il servizio di allora a questo di oggi, divenuto così vario e complesso. Oggi la posta è anche banca di circolazione, di risparmio e di riscossione, com’è ridicolo anche il ricordo di quei famosi procaccia settimanali sulle grandi linee, paragonati al presente servizio ferroviario. È quasi da non credersi poi come nel 1866, quando l’officina di Napoli, (si chiamava così l’ufficio centrale) passò dal piccolo palazzo di via Porto, al palazzo Gravina, molti facessero le maraviglie, e per qualche tempo fossero frequenti i disguidi delle corrispondenze, per effetto del passaggio. Altri tempi!


  1. Va, va via: se no faccio come te femmine e ti dico di sì. Immagine quasi pornografica, ma non da maravigliare!
  2. Società in accomandita E. Melisurgo e C. per la ferrovia dette Puglie, da Napoli a Brindisi. — Napoli, Gaetano Nobile, 1855 — Opuscolo divenuto rarissimo.
  3. Vol. III, documenti,
  4. Dei due concessionari, il barone De Riseis morì senatore del regno d’Italia nel 1888, ed Emanuele Melisurgo nel 1867, a Torre del Greco, lasciando un anico figliuolo, Giulio, valente ingegnere, morto nel 1897 e che seguitò a litigare tutta la vita per effetto della concessione del 1862, fatta alle Meridionali della ferrovia pugliese e da lui impugnata. Avvocato dei Melisurgo fu Francesco Crispi. La famiglia è continuata dal ramo secondogenito, cioè dai figli di Francesco, l’amico di Settembrini e che fn alto funzionario nel ministero dei Lavori Pubblici e morì a 93 anni. Dei suoi figli, Michelangelo è caposezione nel ministero di agricoltura e commercio e Guglielmo è direttore della società napoletana di elettricità.
  5. I. B. Moens, Timbres de Naples et de Sicile; Bruxelles, au bureau du journal Le Timbre Poste, 1877. Libro raro, perché tirato in soli 108 esemplari su carta d’Oianda.
  6. Le poste nel mezzogiorno d’Italia (Ricerche storiche). — Napoli, Pietrocola, 1897.