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XIX.

Passò un mese, e quasi la metà di un altro, senza che del conte Spilamberti si avesse notizia. E l’avvocato di Bologna che doveva scrivere per lui? Il signor conte lo aveva pure con molta sicurezza annunziato! Ma sì, piglialo; era stato un pretesto per guadagnar tempo, ed anche per condurre le indagini dei Bertòla, caso mai avessero risoluto di farne, sulla via di levante anzi che su quella di ponente, che il signor conte degnissimo aveva deliberato di prendere.

Eppure, se non si voleva far nulla col procuratore del re, sarebbe bisognato far qualche cosa col tribunale, per ottenere ad ogni buon fine una separazione di beni. Ma anche questo partito piaceva poco a Virginio; ed egli per allora lo dissuadeva.

— Lasciate correre; ci sarà tempo; — diceva Virginio al suo principale.

Ora, poichè qualunque cosa si fosse fatta, il carico delle prime pratiche doveva cascar sulle braccia a Virginio, segretario e factotum, un «lasciate correre» di Virginio doveva a sua volta persuadere il signor Demetrio; persuaderlo per forza, s’intende, e non per bontà di argomenti. Così un cavaliere inesperto si adatta a cambiar di strada, quando si avvede a certissimi segni che il suo cavallo non farà un passo più avanti, dispostissimo per contro a metterlo in condizione di fare il suo viaggio a piedi. [p. 284 modifica]

— Oh infine, chi ci ha da fare ci pensi; — conchiuse il signor Demetrio in cuor suo. — Chi ci ha da fare è mia figlia, che ha buona testa e studio sufficiente per vedere l’utilità di difendersi. Quanto a Virginio, chi ne capisce niente? Mi sta abbottonato peggio d’un carabiniere, quel benedetto ragazzo! Eppure, io scommetto che quello ne sa più di noi tutti; molto di più, in verità, perchè noi non sappiamo niente, e tiriamo avanti colla speranza che non sia mai peggio di così. —

Certamente, il suo segretario sapeva qualche cosa. Molto o poco che fosse, doveva essere informato di ciò che succedeva fuori di là. Virginio riceveva sempre lettere su lettere, da Modena, da Bologna, da Milano. E non erano lettere pel Bottegone, perchè le risposte non comparivano a libro. Ed anche, nel corso di quei quaranta giorni, il suo segretario si era allontanato da Mercurano due volte. Perchè? Per affari suoi, diceva egli; e non c’era verso di cavarne più altro.

Intanto, tra bene e male, per quaranta giorni si era vissuti tranquilli, e le cose del Bottegone avevano ripreso il loro andamento regolare. In capo a quei quaranta giorni, come la settimana di passione dopo la quaresima, capitava un messaggero di fuori via in casa Bertòla. E qual messaggero! Il signor Demetrio si meravigliò grandemente che avesse ancora la sfacciataggine di presentarsi a lui, dopo la parte che aveva presa nei fatti suoi e nei preliminari d’un certo contratto.

Ma il conte Sferralancia, poichè di lui si trattava, non era a rigor di termine uno sfacciato; era a mala pena uno scemo, a cui facevano fare una parte piuttosto che un’altra; vera banderuola esposta a tutti i venti, che girava da questa parte o da quella, secondo gli altri soffiasse. Portava il suo solito sorrisetto, che metteva in mostra le sue solite file di denti gialli, la sua vecchia zazzeretta tra il bianco e il rossigno, le sue gambettine, i suoi passettini corti, tutto insomma sè stesso; nient’altro che sè stesso, per [p. 285 modifica] allora, poichè veniva solo soletto a Mercurano, come un furier maggiore, per preparare gli alloggi.

Così almeno diceva, presentandosi al Bottegone, per salutare il suo buon amico Bertòla. Il castello era stato un po’ trascurato, e per due anni alla fila: ci si ritornava quell'anno per la buona stagione, ed egli, Momino, doveva vedere se tutto fosse all’ordine per ricevere la sua dolce metà, che sarebbe andato a prendere nella settimana seguente.

Che facce toste! Gli Sferralancia non si erano più fatti vivi dopo la catastrofe bancaria di Roma. Un po’ per viaggi, un po’ per ragioni di salute, avevano saltati due anni di villeggiatura, evitando così di ritrovarsi a Mercurano nel tempo stesso che c’era stabilito il conte Spilamberti, loro protetto e ben degno di loro. Ma come erano dolenti di aver dovuto passare quei due anni lontano dalla loro bicocca! In primo luogo la necessità per Momino di alcune ricerche erudite, che avevano consigliata la nobile coppia di passare un’estate nel Veneto, dove il famoso cappuccino di casa d’Este era stato a predicare e dove perciò si potevano rinvenire le tracce della sua presenza; poi un leggero incomodo della contessa, che aveva portata la necessità di passarne un’altra ai bagni di Oropa; queste erano le cagioni per cui si era stati fedifraghi a Mercurano, alle sue grate frescure estive e ai non meno grati interessi domestici. Ma oramai, lode al cielo, non più tradimenti; si ripigliavano le antiche abitudini; Mercurano «for ever».

Questo il proemio del signor Momino, che lì per lì, colla sua ingenuità, fu sul punto di trarre in inganno il suo interlocutore. Acqua passata non macina, dice il proverbio; e il signor Demetrio pensava già che non fosse il caso di guastarsi più il sangue coi ritorni al passato. Ma il signor Momino commise l’errore di ritornarci lui troppo presto, facendo le sue condoglianze per quanto era accaduto in quella cara famiglia.

Il signor Demetrio accolse le condoglianze a [p. 286 modifica] denti stretti. Peggio fu, quando il signor Momino si arrisicò a dar consigli, dettati naturalmente dalla grande amicizia, dal desiderio onesto di veder finita, «pro bono pacis», per il decoro della famiglia, per l’interesse della prole, una contesa come quella, che lasciava la figliuola del signor Demetrio a mezz’aria, non maritata nè vedova. Il conte suo marito ne era dolentissimo; da Parigi, dov’era andato a finire, e dove si era messo a lavorare in Borsa, scriveva lettere commoventi. Voleva leggerne una, il signor Demetrio? Momino l’aveva in tasca per l’appunto: il suo buon amico Bertòla avrebbe potuto giudicarne. Qui il signor Demetrio ci montò lui, sul cavallo d’Orlando, e prese una corsa sfrenata.

— Signor Momino gentilissimo, non mi parli di quel furfante matricolato. Lei ha in tasca una sua lettera? Ed io ho in tasca lui e tutte le sue scuse. Dissanguato di quasi trecentomila lire, delle quali ventiseimila rubate a man salva e le altre sperperate malamente in due anni, sarebbe disposto Lei a farsene levare delle altre? So bene quello che mi toccherebbe, se ripigliassi il suo conte. Ma, per sua norma, il Bottegone non lo manderanno in rovina, giuro a Dio, non lo manderanno. È la mia nobiltà, è il mio blasone; lo difenderò fino all’ultimo sangue. Quanto alla pace che il conte Spilamberti vorrebbe rifare con sua moglie, e fuori di Mercurano dovrebbe essere, se mai, io non ho a dirle niente, perchè non ho niente da vederci. Parli a mia figlia: ma le dica ancora, Lei che sa tutto, le dica ancora che il bell’arnese preso a proteggere da lor signori è andato a Parigi con quella poco di buono di Maddalena Pasquati. —

Il signor Momino si guardò bene dall’accettare il consiglio dell’amico Bertòla. Balbettò qualche scusa, a difesa delle sue buone intenzioni, scosse la sua zazzeretta, e spulezzò prontamente; nè più si lasciò vedere al Bottegone.

Ma una settimana dopo, secondo l’annunzio ch’egli ne aveva dato, giungeva a Mercurano la signora contessa Sferralancia. Al solito non era [p. 287 modifica] sola; per quella volta non conduceva più al guinzaglio il dolce Possidonio Zocchi, avvocato di belle speranze, caduto da qualche tempo in disgrazia, o voluto cadere; conduceva in quella vece un dottorone in lettere, non più di belle speranze soltanto, ma già salito in fama per undici «contributi» alla storia letteraria d’Italia. Opuscoletti, veramente, ed opuscolini, anzi diciamo pure opuscolettini, taluno dei quali non andava alle otto pagine piene; ma che dottrina, Dio santo! e come li aveva accolti la dotta Germania! A Berlino e a Lipsia non si parlava che di lui; anche in Francia, da Parigi a Digione, da Tours a Bordeaux, se ne faceva gran conto. E così giovane ancora! e già tanto avanti nella scienza del «Beitrag»; così giovane e già citato sui fogli speciali come una colonna della critica moderna! Quello era un buon soccorso al signor Momino, per la sua edizione critica dei Sermoni del padre Giambattista da Modena; e certamente per questo lo aveva tirato in casa la contessa Sferralancia, tenera più che mai della gloria del marito. Anche al signor Momino un po’ di «Beitrag», che diamine! Lo meritava, finalmente, dopo avere scoperto il codice unico delle prediche di quell’illustre cappuccino di casa d’Este; lo meritava per poter provare una buona volta come qualmente non fosse apocrifo il codice, in cui si leggevano dei brani del Segneri, ma mostrasse avere il Segneri copiato dal padre Giambattista da Modena.

Giunta appena a Mercurano, la contessa Sferralancia mandò un bigliettino alla sua cara figlioccia. Avrebbe potuto aspettarne la visita; non volle che quell’altra se ne dispensasse, mostrando d’ignorare il suo arrivo al castello. Ma fu vana fatica; la figlioccia non si mosse altrimenti da casa. Stanca di aspettarla al castello, la contessa Sferralancia andò lei al Bottegone. Non c’era più modo di evitarla; bisognava riceverla.

— Faccio il miracolo di Maometto; — disse la maggior Fulvia andando incontro alla minore. [p. 288 modifica]

— Che cos’è? — domandò questa, mostrando di non intendere la frase.

— Ma sì, carina. Il profeta disse un giorno alla montagna: «Vien qua». La montagna non venne; allora il profeta andò lui alla montagna.

— Non vado in nessun luogo; — riprese Fulvia minore.

— E sei in collera con me; — soggiunse Fulvia maggiore, andando per la via più breve al suo fine. — Ma che cosa ne posso io?

— Non vi chiedo giustificazioni, madrina; — rispose Fulvia minore. — Quantunque, se si dovesse venirci, quella dote così male assicurata....

— Vero; — replicò la contessa Sferralancia. — Ma dovevo io credere che Possidonio Zocchi fosse quel tristo soggetto che si è poi dimostrato? E potevo immaginare d’altra parte che tuo padre, uomo d’affari, non facesse per conto suo una verifica dello stato ipotecario del conte Attilio? A lui spettava il farla; noi tutti dovevamo credere che l’avesse fatta, e recente.

- Benissimo; — commentò la contessa Spilamberti, con un riso sardonico; — ed è nostra la colpa di tutto.

— Non voglio dir questo; — riprese la Sferralancia, tentando di riavviare le cose. — E dopo tutto, lasciamo le recriminazioni sul passato; vediamo il presente. I denari vanno e vengono, è il loro uffizio, com’è delle anime grandi il non darsene pensiero. Piuttosto è da procurare che non si rovini per questo, nè per altro, la pace delle famiglie. C’è anche di mezzo il decoro: non ci pensi? Non bisogna far ridere il mondo. Ti dico un po’ male queste cose; ma tu le intendi, e mi basta. L’uomo che ha avuto dei torti, e sian pur gravi, verso di te, è sempre il padre dei tuoi figliuoli.

— Ed io ne sono la madre; — rispose la Spilamberti. — Ai miei figli basto io; per fortuna, il padre loro non è riuscito a rovinarli del tutto. E basti di ciò, ve ne prego; sappiate che non sono disposta a perdonare. —

Non ci sarebbe stato da rispondere più altro. [p. 289 modifica] Ma la contessa Sferralancia non voleva darsi ancora per vinta.

— Capisco; — diss’ella. — Tu sei in collera per il fatto di Maddalena. Ma pensa ch’egli non ci ha avuto colpa; è stata lei che è andata a raggiungerlo. Una vera persecuzione, un castigo di Dio, non lo nego; ma ti ripeto che egli non l’aveva cercata, nè chiamata, e che è stato molto seccato, di vedersela comparire a Milano. Vuoi di più? L’ha trattata male, l’ha cacciata via, come per solito non si caccian le donne belle, quando cascano tra le braccia. —

La contessa Spilamberti aveva drizzato l’orecchio ed inarcate le ciglia.

— Anche questa! — esclamò. — Maddalena lo ha seguito a Milano?

La contessa Sferralancia si morse le labbra. Ma, per fermare le parole, era tardi.

— Non sapevi? — diss’ella. — Pure, lo sapeva tuo padre.

— E non ha creduto necessario di dirmelo; — rispose quell’altra. — Forse ha pensato che la notizia era di poca importanza. Veramente, il conte Spilamberti non è stato cavaliere con Maddalena; me ne dispiace per lei. Ma già, sarebbe bisognato anche a lei conoscerlo, prima, come l’ho conosciuto io fin da Roma, tollerandolo oltre ogni confine della pazienza che Dio ha messa in cuore alle donne.

— Nel tuo non mi pare poi troppa! — notò la Sferralancia. — Ricusi la pace!... —

— Io? — ribattè la Spilamberti. — Io ricuso la pace? Ma appunto per godere la mia, che ho conquistata così a caro prezzo, non voglio più vedere chi tornerebbe a turbarla. Potevo adattarmi alla presenza di quell’uomo dalle cento avventure.... Sappiate, madrina, che molte io ne ho conosciute, e molt’altre indovinate. Potevo adattarmi, dico, alla presenza sua, anche sapendo che, finite le sue sostanze, il nobile spiantato si era rivolto a me, povera vittima di una sciocca ambizione. Sarebbe stata la penitenza del mio peccato; mi sarei rassegnata. Ma offensore [p. 290 modifica] sfacciato della mia dignità, in casa mia, sotto i miei occhi, non ho potuto tollerarlo; ma ladro della cassa di mio padre, cagione di continui dispiaceri a quell’onest’uomo ch’egli ha vilmente ingannato, no, non lo voglio, non lo vorrò mai e poi mai.

— Sei troppo severa; — osservò la Sferralancia. — Se egli fosse pentito.... se giurasse....

— Giuri quanto vuole, e spergiuri; ma resti lontano, e veda di farsi dimenticare. È il meglio che possa aspettarsi da me. —

La concessa Sferralancia stette alquanto silenziosa a guardar la figlioccia; poi avvicinandosi a lei e abbassando la voce, le disse:

— Tu ami un altr’uomo. —

Fulvia rizzò fieramente il capo, e fissò gli occhi scintillanti di sdegno negli occhi dell’audace signora.

— Ebbene, che cos’è? — riprese quell’altra. — Lasciami dire; sono la tua madrina, quasi una madre, mi pare, ed ho il diritto di parlarti con una certa libertà. Sei troppo severa. Perchè una donna parli così duramente dell’uomo ch’ella ha amato, dell’uomo a cui ella è appartenuta, bisogna bene che ci sia di mezzo un altro. Quantunque, a dire la verità, — soggiunse la contessa Sferralancia con un risolino malizioso, — che bisogno ci sarebbe stato di tanta durezza? la vita, bambina mia, non è così tragica come te vuoi figurartela. Si può stare in pace con l'uomo che non si ama più, o che non si è amato mai, ma del quale si porta il nome, e vivere, e sognare e sentire, seguendo l’impulso del cuore.... a cui non si comanda, pur troppo. Vedi dunque che io non ti ho detto nulla di orribile, e che, senza intenzione di fartene un carico grave, posso pensare....

— Quel che vorrete; — interruppe Fulvia; — ma lasciatemi tranquilla, vi prego. Questi discorsi mi turbano.

— Mi mandi via?

— No, vi supplico di cangiar discorso.

— Ma accetti il mio consiglio? [p. 291 modifica]

— No.

— Allora, mia cara, è come mandarmi via, te ne avverto.

— Oh Dio! — esclamò Fulvia seccata. — Se solo a questo patto debbo aver pace, sia pure come volete.

— E sia; — ribattè la contessa Sferralancia, alzandosi di scatto. — Vo’ farci un crocione. —

Ciò detto, se ne andò via furibonda, non voltandosi più indietro, e giù a pian terreno non degnando neanche d’uno sguardo i bambini, che rientravano allora con la bambinaia dalla loro passeggiata.

— Ma che cosa ho fatto io a quella donna? — gridò Fulvia, contorcendosi dallo spasimo. — Ho accettato il suo Spilamberti; non è contenta? Ho sacrificato la mia dignità, la mia pace; ho contristato per sempre un nobile cuore; ho levato forse dieci anni di vita al mio povero padre.... Dovrei finire di ucciderlo, per i loro capricci? No, davvero; e bisognerà finirla piuttosto coi loro tentativi, finirla una volta per sempre. —

Abbracciati i bambini, mandò a cercare suo padre, volendo discorrer con lui. Anche il signor Demetrio era curioso di sapere che cosa fosse venuta a sfringuellare la contessa Sferralancia.

— Sentiamo; — diss’egli; — che colpi ti ha sferrato? che lanciata ti ha data la tua cara madrina? Mi pare, alla tua cera stravolta, che non t’abbia mica risparmiata. —

Fulvia non istette a parlare del più e del meno; gli narrò tutto, brevemente, sorvolando sulle impertinenze, ma calcando sulle notizie che aveva raccolte.

— Ed ora — conchiuse — non mi pare che ci sia tempo da perdere. Voglio la separazione, e bisogna trovare la via più spedita. Non pare anche a te?

— Figùrati se non mi pare! Ho già detto che per me sarebbe come andare a nozze. Ma c’è quell’altro che seguita a dire di no.

— Quell’altro! Chi? [p. 292 modifica]

— Virginio.... Virginio, che consiglia la calma.

— Che cosa ci ha da vedere il signor Lorini? e perchè, sopra tutto, ha da consigliarci la calma?

— Non lo so; — rispose il signor Demetrio. — Lasciate correre, ci sarà tempo; è il suo ritornello. Vuoi domandarne a lui? Te lo chiamo subito.

— Mi fai piacere, babbo. Son curiosa di conoscere le sue ragioni, se n’ha. —

Virginio non ne aveva; o forse non voleva dirle in presenza della contessa. Già gli sapeva male che Fulvia fosse stata informata della fuga di Maddalena col conte Attilio, una fuga veduta da lui, da lui accennata al suo principale.

— Non gliel'ho detto io, sai? — gridò il signor Demetrio, quando si fu venuti a quel fatto. — Io so tenere in corpo un segreto, anche quando il tenerlo mi pesa. È stata la Sferralancia che ha parlato, credendo che Fulvia ne fosse già informata da noi. La graziosa seccatrice ha pure aggiunto, per iscagionare il suo protetto, ch’egli non ha voluto saperne di Maddalena e l’ha cacciata da sè, quando gli fu capitata tra piedi. Dio sa, o il diavolo, dove sarà andata a finire quella poco di buono. —

Virginio sorrise involontariamente a quella notizia, e il suo sorriso non isfuggì all'occhio attento di Fulvia.

— Sia stata cacciata, o non sia, importa poco, anzi nulla; — osservò la contessa. — Non per ira contro quella donna, io domando di separarmi legalmente da lui. Ho ben altre ragioni e più gravi. Sa Lei, signor Lorini, che danni potrebbero venire alla famiglia, se questa separazione non fosse chiesta ed ottenuta?

— Ma.... io, veramente.... — balbettò Virginio; — non saprei.

— Dica non vorrei, e sarà più sincero; — riprese Fulvia. — Quanto a me, so già molto; so tutto ciò che bisognerebbe fare, avendo parlato di questi giorni coll’avvocato Calestani. Vuoi tu andare da lui, babbo, e sentire il suo parere? [p. 293 modifica] Vuole andarci anche Lei, signor Virginio, e persuadersi che è necessario il fare? —

— E andiamoci; — disse il signor Demetrio convinto; — sapremo da lui quello che sai tu a quanto pare, ed io meno di te.

— Non occorre, — rispose Virginio, — non occorre. Se è proprio necessario di mostrar di sapere, eccovi qua tutto quanto, in poche parole. Secondo la nostra legislazione, non essendo chiesta ed ottenuta la separazione della vostra fgliuola dal conte Spilamberti, potrebbe avvenir che alla vostra morte, fra cent’anni s’intende...

— Amen! — disse divotamente il signor Demetrio. — Prosegui pure il tuo interessante discorso.

— Che alla vostra morte, — proseguì Virginio, — il vostro signor genero avrebbe l’amministrazione dei beni parafernali pervenuti in eredità a sua moglie.

— Sarebbe un guaio! — esclamò il signor Demetrio.

— Certamente; ma voi vivrete ancora cent’anni.

— Amen, ti ripeto; ma tu, caro, non me lo puoi garantire.

— E aggiungi questo; — entrò a dire la contessa; — che se morissi io, io che non ho intenzione di vivere tanto, il conte Spilamberti sarebbe in una condizione molto migliore. Dica che non è vero; — soggiunse ella, volgendosi a Virginio Lorini.

— Lo ammetto; — rispose questi. — Il signor conte, avendo la patria potestà, avrebbe di conseguenza l’amministrazione, e diciamo pure il libero sgoverno di quei beni, che passassero ai suoi figliuoli, quali eredi della madre loro.

— Gravissimo guaio anche questo! — notò il signor Demetrio.

— Ma lontanissimo per fortuna, — riprese Virginio. — Lasciate correre; ci sarà tempo pensarci.

— Ci sarà tempo! — ripetè la contessa. - Si può e si deve far subito ciò che si dovrebbe fare ad ogni modo più tardi. [p. 294 modifica]

— Vero; ma è così lunga procedura, e così odiosa!

— Odiosa può darsi; lunga, poi, no. Sa, signor Lorini, che ho letti ancor io gli articoli del Codice di procedura? Sicuro, ho fatta questa fatica. Non sono del resto che sei; dall’ottocento sei all’ottocento undici.

— Mi congratulo con te, figlia mia; — disse il signor Demetrio. — E che cosa dicono questi cari articoli?

— Che bisogna fare un ricorso al cancelliere del tribunale civile, esponendo i fatti e aggiungendo i documenti giustificativi; che il cancelliere presenta il ricorso al presidente, non più tardi delle ventiquattr’ore; che il presidente stabilisce il giorno in cui le parti debbono comparirgli dinanzi, e lì, se si presentano, deve tentare un componimento; se poi una parte non si presenta, o se, essendo presenti tutt’e due, una ricusa il componimento, deve trattarsi la causa. La trattazione sarà inutile, se le due parti consentono alla separazione; il tribunale la pronunzierà, quando ne riconosca i giusti motivi. Quanto ai giusti motivi, c’è un articolo del Codice civile, che molto chiaramente li accenna, ed è l’articolo centocinquanta. Tranne le sevizie e le minacce, delle quali ad ogni modo non avrei testimoni, i motivi ci son tutti, nel caso mio; c’è la colpa maggiore, che non nominerò, perchè odio le brutte parole; c’è il volontario abbandono, e c’è la ingiuria grave alla moglie.

— Ma questa benedetta figliuola ci ha il codice sulla punta delle dita: — gridò il signor Demetrio, ridendo.

— Grazie all’avvocato Calestani; — disse Fulvia; — ed io non so altro che questo.

— Le mancheranno poi sempre i documenti giustificativi; — osservò timidamente Virginio.

— Saranno testimonianze; — rispose la contessa. — Le persone di servizio, gl’impiegati del babbo, molti del paese potranno essere interrogati al bisogno.

— Che sfilata! — mormorò Virginio, chinando la fronte. [p. 295 modifica]

— Ci vorrà pazienza; — ripigliò la contessa; — bisognerà fare tutto quel chiasso, non potendo cavar profitto di tutte le cose che Lei potrebbe dire in proposito.

— Oh questa è nuova di zecca! — tuonò il signor Demetrio. — E perchè non potrebbe dire Virginio tutto quello che sa?

— Perchè egli teme di dir troppo; — rispose Fulvia; — perchè egli non vuol parere desideroso, non essendolo, di aggravare la condizione di nessuno. Dio guardi se si dicesse ch’egli soffiava nel fuoco! A questo siamo venuti! — soggiunse ella con amarezza, — Non lo hanno già accusato di essere.... —

E si trattenne, per senso di verecondia, ma più ancora di sdegno. Come ella bene aveva detto poc’anzi, odiava le brutte parole.

— Chi? — domandò il signor Demetrio, che aveva compiuta col pensiero la frase di Fulvia. — Chi lo ha accusato?

— Maddalena, non lo sai? Maddalena, che ne ha fatto la bella confidenza al conte Spilamberti. Ed oggi ancora, non mi son sentito dire dalla mia dolce madrina qualche cosa di simile?

— Oh, è infame! — gridò Virginio, turbato. — E si è potuto giungere a tanto?

— Si è potuto, come ho l’onore di dirle.

— Ed io dunque.... senza colpa, per il solo fatto della mia presenza.... sono stato cagione a Lei di una così grave ingiuria, di un così immeritato dolore?

— Ella dice bene per l’ingiuria, signor Lorini; quanto al dolore, non se ne dia pensiero, perchè non c’è stato. Vede come sono tranquilla e serena? Non si turbi Lei, ora, e lasci correre.

— È la tua frase, Virginio; — conchiuse il signor Demetrio. — Tu sei battuto con le tue armi. —

Virginio non raccolse la celia. Ben altro aveva egli pel capo.

— Ma ciò che non è, — diss’egli, seguendo il proprio pensiero, — non deve neanche esser creduto. Me ne sono andato una volta, e sa [p. 296 modifica] con quanto dolore. Me ne andrò nuovamente; e voi mi renderete giustizia, signor Demetrio, me la farete rendere da tutti coloro che hanno veduta la vostra contabilità, che io ero ritornato per i vostri interessi, ridotti a mal partito dalle altrui malversazioni.

— Oh fammi il piacere! — proruppe il signor Demetrio, che già due volte aveva tentato di interromperlo. — Fammi il piacere di rimetterti in tasca il tuo biglietto di partenza e la tua domanda di giustificazione. Non ci mancherebbe altro che per due lingue d’inferno tu mi abbandonassi una seconda volta. Povero il mio Bottegone, lo vedrei molto brutto. No, no, mi capisci? Ti ho in mano, e ti tengo. Te ne sei andato con dolore una volta? Ti ringrazio di avermelo confessato. Questo dolore non lo avrai più; dicano le lingue d’inferno tutto quello che vorranno e potranno.

— Ma allora niente separazione; — rispose Virginio. — Ma allora niente ricorso al tribunale.

— O perchè?

— Perchè.... vi prego, vi supplico, non fate nulla. Signora contessa, io mi rivolgo a Lei, colle mani giunte, e la scongiuro di desistere. Ci sarà tempo, ho detto. Mi conceda due mesi, un mese, almeno; poi farà quel che vorrà.

— Che cosa può accadere, in un mese che debba mutare le nostre risoluzioni? — disse Fulvia, colpita da quelle parole. — Che cosa sa Lei?

— So molto, sì, so molto; e non è che io non voglia dire; non devo e non posso.

— Ma noi possiamo capire; — ribattè la signora. — Lei tenta ancora qualche cosa, che a me non piacerà, che non mi potrà convenire, l’avverto.

— No, non tento più nulla; — gemette Virginio. — Ho tentato, piuttosto, ho tentato d’impedire.... qualche cosa che veramente metteva il colmo alla misura. Ho perfino mandato del denaro al conte; io, sì, io, signor Demetrio; e non mi fate gli occhiacci, perchè gli ho mandato del mio. Egli non lavora in Borsa, laggiù, come sento [p. 297 modifica] che ha detto la signora Sferralancia, molto male informata su questo, e su tante altre cose ancora. L’uomo segue il suo destino, e mi duole; giuro a Dio che me ne duole nel profondo dell'anima.... Non mi fate dire di più, ho detto fin troppo.

— Maddalena è a Parigi con lui; — disse Fulvia. — Ci voleva poco a capirlo. Ed io su questo punto non ho creduto alle invenzioni della Sferralancia. Aggiungerò; non ho creduto neanche al desiderio di pacificazione del conte Spilamberti. Figurarsi! — soggiunse ella con un risolino sardonico. — Non sarebbe questo il momento per lui, invaghito com’è di quella stupenda creatura.

— Una svergognata! — brontolò il signor Demetrio.

— Degna di lui, se mai; — rispose pacatamente la contessa. — A me non fa sdegno, e non posso esser severa con lei, che fa la sua strada. Non voglio già dire che segua la sua stella; — soggiunse la calma ragionatrice, ridendo quella volta di gusto, — le stelle guidano al porto, e Dio sa dove andrà a batter lei, poveretta! Ma è bellissima, e farà girar la testa a più d’uno. Vedi, babbo? Non ho ira nel cuore, non ho che vergogna per la mia cecità d’un giorno. Riacquistata la vista, respiro, sono tranquilla, e sarei tanto felice di vivere senz’altri pensieri. Che cosa dicevo io? Ah, dicevo che la Sferralancia è venuta per altro; per conoscere il nostro pensiero, esplorare i nostri disegni, intendere che cosa saremmo per fare. Ma noi non facciamo niente, a quanto sembra, perchè il signor Lorini non vuole che si faccia niente. Sia pure, signor Lorini; abbia il mese di dilazione che domanda; ne abbia due, tre, se le occorrono. Lei è un amico; è uomo di cuore, finalmente, e sarebbe sconvenienza negarle fede, fors’anche crudeltà non conformarci ai suoi desiderii, dopo tutto ciò che ha sofferto e soffre per noi.

— Grazie! — morimorò Virginio inchinandosi.

— Ah, bene! — esclamò il signor Demetrio. [p. 298 modifica]

— Da capo sul cavallo d’Orlando. Mia figlia è famosa per queste volate. —

Così finiva il consiglio domestico, e per allora l'idea della separazione legale. Passò un mese e ne passarono due; Virginio ricevendo lettere e scrivendone, gli altri non chiedendo mai nulla a Virginio. Strano ragazzo! E non aveva mandato dell'altro denaro a Parigi? Ma sì, che mal c’era? Poteva farlo; era ricco; il signor Demetrio non aveva accettato il suo sacrifizio di sessantamila lire; egli poteva darne dieci e venti ad un mal arnese che non si vergognava di chiederne. Le aveva chieste bene, da principio, con qualche frase drammatica, abusando del patetico e giungendo a parer nobile nel riconoscimento de’ suoi torti. Ma non poteva star sempre a quell’altezza; cascò, un giorno, e chiese male, con poco misurate allusioni. Sicuramente la sventura gli aveva offuscato il cervello. Virginio mandò ancora, ma rispondendo con alterezza, e avvertendo che era l’ultima volta. Se anche non avesse scritto così, non ci sarebbe stata più occasione di mandare. Quell’uomo seguiva il suo fato; e il fato lo traeva di lancio all’abisso.

Maddalena, formosissima bionda, brillava a Parigi, più che non avrebbe fatto in una delle nostre città, dove era frequente il suo tipo di bellezza; impasto felice di latte e di rose, gran volume di capelli biondi o fulvi dai riflessi dorati, statura giusta, persona snella senza magrezza, flessuosa senza cascaggine, busto d’Ebe che promette di mutarsi col tempo in Giunone. Quella vistosa bellezza italiana aveva fatto senso ai teatri, dove tutte le grazie si osservano comodamente e si sminuzzano, per così dire, in tutti i loro elementi; ne aveva fatto anche più ai Campi Elisi, al bosco di Boulogne, alle corse di Longchamp, dove le grazie sullodate si studiano alla gran prova del sole, si misurano, si pesano, e all’occorrenza si quotano.

Parigi è per certi rispetti nè più nè meno di una città di provincia: la bellezza attira gli sguardi; desta le curiosità, aguzza gl’ingegni e [p. 299 modifica] guida le indagini. Non si tardò molto a sapere il suo nome e la condizione del marito, poichè il conte Spilamberti passava per tale; e del resto nessuno chiedeva la sua fede di matrimonio. Ammesso in qualche società, un po’ per il suo titolo, molto per la bellezza della sua ammirata compagna, si mostrava gran signore e corretto al giuoco, che era veramente il colmo della cavalleria. Giuocando, guadagnava qualche volta e qualche altra perdeva; nè certo doveva fargli comodo il perdere, poichè si vedeva spesso di cattivo umore, con certe nubi sugli occhi, indizio di negri pensieri, che tentava di scacciare da sè, ma non venendone a capo.

A farla breve, quel conte italiano, ornato di una così bella compagna, non era punto felice: per un osservatore esperto, come ce ne son tanti nell’alta società, che hanno studiato nel vivo senza impacciarsi nei libri, quel conte aveva la faccia dell’uomo avviato al suicidio. Ci si va sempre per gradi, a quell’ultimo stadio della falsa condizione in cui l’uomo si è messo per sua propria follia o per forza di eventi: dopo aver lungamente cercato di tenersi in equilibrio, piegando successivamente di qua o di là, barcollando e raddrizzandosi un tratto, si perde finalmente il lume degli occhi, o la volontà di resistere; e allora il valoroso diventa vile quanto bisogna per rinunziare alla lotta, il vile diventa valoroso quanto è necessario per rinunziare alla vita.

Ma il conte Spilamberti non pareva ancor giunto a quella estremità. Cambiava con una certa ostentazione i biglietti da mille, che non s’intendeva come fossero ancora nel suo portafoglio, o donde venissero ad impinguarlo; e sorrideva, allora, come nei primi giorni della sua comparsa a Parigi, e in quel sorriso c’era un lampo d’orgoglio, di beffa amara, quasi di sfida al destino.

Agli esperti non isfuggivano quegl’indizi fugaci, ma certi, di una pugna interiore. Parecchi incominciarono a diradare le visite. Erano tutti coloro che più temevano di essere richiesti d’aiuto, e meno speravano di cogliere i frutti dei [p. 300 modifica] loro servigi. Restarono i ricchi più spensierati e gli adoratori più accorti. Si era incominciato a giuocare anche nel salotto della falsa contessa. La formosissima donna arrideva colla sua luminosa presenza alle celate giostre del faraone e del trenta e quaranta. Decadenza terribile!

Anche lei la sentiva, e non dissimulava sempre il disdegno. Seguirono le inevitabili scenate tra i due. Qualche segno di preferenza al visconte di Pontavray seccò molto lo Spilamberti, che voleva bensì tirare in casa sua gli eleganti signori, ma non farci la figura dell’ospite compiacente. Un mazzo di fiori del duca di Maurevers, inviato per tre mattine alla fila, gli fece saltare la mosca al naso, specie dopo aver visto che d’uno dei fiori del mazzo si adornava ogni sera lo scollo della veste di Maddalena. Sospettoso lui, lusinghiera lei e sensibile troppo agli omaggi, non potevano durare in quello stadio di continui dissapori, di ombrosi silenzi e di amare parole. E un giorno che più acerbamente si erano bisticciati, la contessa Maddalena (contessa dalla mano sinistra, s’intende) sparì dalla casa del giuocatore disgraziato. Spariva insieme con lei uno dei frequentatori più assidui della casa, quello tra i molti che non aveva mai dato ragion di sospetto e che ancora due giorni innanzi aveva reso al conte Spilamberti un servizio di denaro.

Era quello il rapitore: se non lo avesse indovinato lui, lo avrebbero messo sull'orma gli amici, che si stempravano di compassione per lui, struggendosi d’invidia per sè medesimi. Erano tutti colpiti dalla sua disgrazia; non sapevano darsene pace. Come? il piccolo Boturescu, secco e nero come un’aringa affumicata, aveva conquistato lui la formosissima bionda? Era principe, sì, e ricco sfondato; ma anche tanto antipatico! «Quoi! cela un prince!» aveva detto di lui una graziosa attrice del Vaudeville. «On aurait dit plutôt un pince d’écrevisse». Ma che follìa? Non poteva scegliere un po’ meglio, la contessa Maddalena, poichè s’era finalmente risoluta di scegliere? [p. 301 modifica]

Queste non erano ragioni a cui potesse badare lo Spilamberti, acciecato dalla collera. Gli avevano rubata la donna: chiunque fosse colui che gliel’aveva rubata, doveva rendergli conto del fatto. Voleva lasciar lui, non essere lasciato; per la prima volta che ciò gli accadeva, il conte Attilio si sentiva umiliato. Il denaro che aveva preso in prestito dal principe Boturescu non era poi una gran somma; vendendo i suoi gioielli, poteva restituirla. Prima di giungere a quella estremità, avendo ancora avanti a sè tutta una notte, giuocò arditamente, da pazzo, da disperato, ed ebbe fortuna nel giuoco. La sorte ha di questi capricci; e la sorte lo mandò ben provveduto la mattina seguente a Brusselles, dove si sapeva che il Boturescu era andato a far testa.

Il principe non era fuggito per evitare lo Spilamberti, bensì per mettere in salvo la sua conquista ed appagare un desiderio espresso da lei. Non credeva per altro all'inseguimento; sperava un accomodamento amichevole. Ai padrini che andavano a portargli la sfida, che erano pure amici suoi, disse pacatamente, parlando a fior di labbra: «Perchè non ringraziarmi? Non la poteva più tenere, che diamine! Basta, non indaghiamo; sono a’ suoi ordini.»

Anche volendo, non c’era da indagare poi molto. Il conte Spilamberti non tollerava l'offesa fatta al suo amor proprio. Poteva aver perduto il senso morale; gli restava ancora, e vivissimo, il senso cavalleresco. Così un vecchio albero, di castagno o d’olivo, perduto da anni e anni il midollo, vive ancora per la corteccia. Non si ha in certi casi più onore; si ha ancora il punto d’onore; ed è un «perfetto gentiluomo» chi sa farlo valere.

Sulla frontiera del Belgio avvenne lo scontro, alla pistola, a venticinque passi di distanza, col diritto di avanzare ogni cinque ad ognuno dei due combattenti. Attilio Spilamberti non era un vile, e fece subito i suoi cinque. L’altro non volle essere da meno, e lo imitò prontamente. Le palle sono cieche; ma qualche volta vedono bene gli [p. 302 modifica] occhi che dirigon le canne. Quel giorno vedeva male lo Spilamberti; assai meglio il suo avversario.

Due giorni dopo, quando la stampa europea ebbe diffusamente raccontato il fatto e commesse tutte le indiscrezioni possibili in una simile occasione, quante contesse Sferralancia (una almeno ci serva di tipo per tutte) piansero quel cuore trapassato da una mezz’oncia di piombo? Forse nessuna, non essendo più di moda piangere i cuori che sono andati a soffrire altrove, a languire per altri amori, a morire per altre follìe. Acqua passata non macina. Che acqua, poi! dove queste follìe duran poco per noi come per gli altri, e in questo giuoco, ai primi giri, l’uno o l’altro infallibilmente si secca?

«Morto, dunque; e per chi? Vedete i cavalieri del giorno, con che razza di donne si adattano a vivere. Ma niente maraviglia; così doveva finire.» Fu questo, su per giù, l’epitaffio del conte Spilamberti di San Cesario. Un po’ grave, non è vero? Gli sia men grave la terra dov’è sceso a dormire.

Lamberto e Guido, cari innocenti, voi crescerete ignorando come e perchè sia morto lontano da casa l’uomo che vi ha lasciato l’illustre e sonoro suo nome. È bene che le generazioni nuove non sappiano i peccati delle vecchie. Bisogna sempre poter dire, credendolo: «Ah i miei vecchi! erano il simbolo della rettitudine, della probità, dell’onore, i miei vecchi!»