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occhi che dirigon le canne. Quel giorno vedeva male lo Spilamberti; assai meglio il suo avversario.

Due giorni dopo, quando la stampa europea ebbe diffusamente raccontato il fatto e commesse tutte le indiscrezioni possibili in una simile occasione, quante contesse Sferralancia (una almeno ci serva di tipo per tutte) piansero quel cuore trapassato da una mezz’oncia di piombo? Forse nessuna, non essendo più di moda piangere i cuori che sono andati a soffrire altrove, a languire per altri amori, a morire per altre follìe. Acqua passata non macina. Che acqua, poi! dove queste follìe duran poco per noi come per gli altri, e in questo giuoco, ai primi giri, l’uno o l’altro infallibilmente si secca?

«Morto, dunque; e per chi? Vedete i cavalieri del giorno, con che razza di donne si adattano a vivere. Ma niente maraviglia; così doveva finire.» Fu questo, su per giù, l’epitaffio del conte Spilamberti di San Cesario. Un po’ grave, non è vero? Gli sia men grave la terra dov’è sceso a dormire.

Lamberto e Guido, cari innocenti, voi crescerete ignorando come e perchè sia morto lontano da casa l’uomo che vi ha lasciato l’illustre e sonoro suo nome. È bene che le generazioni nuove non sappiano i peccati delle vecchie. Bisogna sempre poter dire, credendolo: «Ah i miei vecchi! erano il simbolo della rettitudine, della probità, dell’onore, i miei vecchi!»

XX.

C’è una cosa buona nel mondo, la legge: e balza fuori evidentissima dai fatti oscuri della vita, come dai fenomeni appariscenti dell’essere. Onde il conoscere, lo scoprire, l’inventare, il creare, non sono che modi d’intender la legge, la buona legge che informa e governa ogni cosa nel