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sola; per quella volta non conduceva più al guinzaglio il dolce Possidonio Zocchi, avvocato di belle speranze, caduto da qualche tempo in disgrazia, o voluto cadere; conduceva in quella vece un dottorone in lettere, non più di belle speranze soltanto, ma già salito in fama per undici «contributi» alla storia letteraria d’Italia. Opuscoletti, veramente, ed opuscolini, anzi diciamo pure opuscolettini, taluno dei quali non andava alle otto pagine piene; ma che dottrina, Dio santo! e come li aveva accolti la dotta Germania! A Berlino e a Lipsia non si parlava che di lui; anche in Francia, da Parigi a Digione, da Tours a Bordeaux, se ne faceva gran conto. E così giovane ancora! e già tanto avanti nella scienza del «Beitrag»; così giovane e già citato sui fogli speciali come una colonna della critica moderna! Quello era un buon soccorso al signor Momino, per la sua edizione critica dei Sermoni del padre Giambattista da Modena; e certamente per questo lo aveva tirato in casa la contessa Sferralancia, tenera più che mai della gloria del marito. Anche al signor Momino un po’ di «Beitrag», che diamine! Lo meritava, finalmente, dopo avere scoperto il codice unico delle prediche di quell’illustre cappuccino di casa d’Este; lo meritava per poter provare una buona volta come qualmente non fosse apocrifo il codice, in cui si leggevano dei brani del Segneri, ma mostrasse avere il Segneri copiato dal padre Giambattista da Modena.

Giunta appena a Mercurano, la contessa Sferralancia mandò un bigliettino alla sua cara figlioccia. Avrebbe potuto aspettarne la visita; non volle che quell’altra se ne dispensasse, mostrando d’ignorare il suo arrivo al castello. Ma fu vana fatica; la figlioccia non si mosse altrimenti da casa. Stanca di aspettarla al castello, la contessa Sferralancia andò lei al Bottegone. Non c’era più modo di evitarla; bisognava riceverla.

— Faccio il miracolo di Maometto; — disse la maggior Fulvia andando incontro alla minore.